‘Le dernier coup de marteau’: in concorso, di Alix Delaponte, Francia, 82′
‘No one’s child’: settimana della critica, di Vuk Ršumović, Serbia, 95′
commento di Elisabetta Marchiori
Leggo sulla rivista Ciak che ‘quello tra adolescenza e cinema è un lungo, inesauribile rapporto amoroso’ e penso che la triangolazione con la psicoanalisi renda tale rapporto ancora più vivo e appassionante.
Cinema, adolescenza e psicoanalisi ‘si rigenerano nella creatività’ e sono accomunati dalla speciale capacità – non sempre comoda – di sconvolgere i solidi dati di realtà, indicarci nuove strade e stupirci’, come ben argomenta la raccolta di saggi a cura di Carbone, Cottone e Eusebio (2013).
Lo confermano due film significativi, ‘Le dernier coup de marteau’, della regista francese Alix Delaporte, e ‘No one’s child’, del regista serbo Vuk Ršumović, che riescono a fare ‘immedesimare’ lo spettatore nei protagonisti adolescenti. Immedesimazione nell’accezione definita da Goisis nel suo libro ‘Costruire l’adolescenza’ (2014) come ‘quel meccanismo, precursore dell’empatia, che permette di capire profondamente gli altri, mettendosi nei loro panni, senza diventare l’altro’.
‘Le dernier coup de marteau’ ha come protagonista il tredicenne Victor, che vive con la giovane madre malata di cancro in una roulotte nei pressi di Montpellier. È innamorato ‘della ragazzina della roulotte accanto’ e lo aspetta una selezione per giovani talenti del calcio, che non confida alla madre temendo di non essere all’altezza. Probabilmente per non lasciarlo solo quando lei non ci sarà più, la madre progetta di trasferirsi con lui a casa dei nonni, idea che Victor rifiuta. In questa situazione, già emotivamente impegnativa per un ragazzino, la madre gli comunica che il padre Samuel, direttore d’orchestra, che Victor non ha mai conosciuto, è arrivato al teatro dell’Opera di Montpellier per dirigere la Sinfonia n. 6 di Mahler. Victor è deciso a incontrare il padre che, inizialmente, lo rifiuta. Victor si dimostra tuttavia caparbio e paziente: continua a presentarsi alle prove e, complice la musica, riesce ad entrare a poco a poco in contatto con quel padre inizialmente respingente. La strategia che Victor attua sembra quella del Piccolo Principe (al quale assomiglia!) con la volpe che, come il padre, compare all’improvviso
“Che cosa vuol dire addomesticare?”, chiede il Piccolo Principe.
“E’ una cosa da molto dimenticata. Vuol dire <creare dei legami>”.
“Creare dei legami?”
“Certo”, disse la volpe. “Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo” […]
“Che cosa bisogna fare?” domandò il piccolo principe.
“Bisogna essere molto pazienti”, rispose la volpe. “In principio tu ti sederai un po’ lontano da me, cosí, sull’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino…”
E così accade tra Victor e Samuel.
In ottica psicoanalitica, mi viene in mente ‘La solitudine addomesticata. L’angoscia di separazione in psicoanalisi’ di J.M. Quinodoz (1992).
L’angoscia della perdita della madre e dell’allontanamento dalla ragazzina di cui è innamorato, sembrano diventare, per Victor, quella “spinta” dalla quale partire per reagire, confrontarsi con gli altri, chiedere e accettare aiuto. Victor capisce che ha lui stesso in mano la chiave per cambiare il proprio destino, proprio come cercò di fare Mahler, eliminando dalla prima versione della sua sinfonia quel ‘ultimo colpo di martello’ che riteneva presagio dei drammi che lo colpirono dopo aver terminato di comporla.
La regista, già vincitrice del Leone d’oro al miglior cortometraggio nel 2010 (‘Comment on freine dans une descente’) e autrice di ‘Angèle e Tony’, riesce ad armonizzare con grazia e senza retorica gli elementi, molto impegnativi, della storia. Gli attori sono tutti bravissimi, in particolare anche l’esordiente Romain Paul che, oltre ad assomigliare al Piccolo Principe, è intenso e autentico, diretto con una sensibilità che richiama quella dei fratelli Dardenne.
Il regista Vuk Ršumović, con il suo primo lungometraggio, ‘No one’s child’ ha meritato, come ho appreso mentre ero intenta a scriverne, il Premio della Settimana Internazionale della Critica con un film che richiama ‘Il ragazzo selvaggio’ di Truffaut e ‘Il libro della giungla’ di R. Kipling (con le sue varie versioni cinematografiche).
La storia, realmente accaduta, è quella di un ragazzino sulle soglie dell’adolescenza, trovato da cacciatori nella primavera del 1988 fra le montagne della Bosnia, cresciuto fra i lupi. Gli viene dato il nome di Haris e viene portato in Serbia, all’orfanotrofio di Belgrado, dove è affidato alle cure di Ilke. Il ragazzino, soprannominato Puchiche, cammina a quattro zampe, non parla, ringhia e morde, mangia dopo aver buttato il cibo per terra, rifiutando il pane: si comporta insomma come un giovane lupo. Il personale dell’istituzione lo chiude in una stanza, ritenendolo irrecuperabile. Tutti i giovani ospiti lo osservano incuriositi e lo scherniscono crudelmente. Tutti, tranne Žika, un po’ più grande di lui, in piena adolescenza, che lo ‘addomestica’, lo difende, lo porta con sé come se fosse il ‘suo’ cucciolo, insegnandogli a giocare, dandogli ordini perentori, contenendolo nelle sue reazioni di aggressività quando provocato. È lui a dimostrare agli educatori che ‘capisce tutto’. Puchiche impara non solo la postura eretta e a usare le posate, ma anche a parlare e a scrivere.
Quella raccontata dal film non é tuttavia una storia di integrazione, né di redenzione, né di salvezza. Quando scoppia la guerra, nel 1992, le autorità locali lo costringono a tornare in Bosnia, dove sarà costretto a combattere. La sua esistenza ‘nella civiltà’, è costellata da abbandoni, perdite, violenza. Puchiniche può ancora mordere, ma si rifiuta di imparare a sparare.
Il soggetto non è originale, ma il regista lo affronta evidenziando con maestria la differenza tra il comportamento e quello che è ‘l’essere’ del protagonista, che ha imparato ad essere un lupo e ha imparato ad essere un uomo, ma è stato privato di quella continuità evolutiva necessaria ad integrare le sue parti primitive, animali, con aspetti di crescita. La sua esistenza ha subito un cambiamento troppo radicale, traumatico, per permettergli una evoluzione nel ‘divenire soggetto’.
Nell’evolversi della storia, la macchina da presa, che inizialmente sembra stare nello sguardo di Puchiche, si sposta all’esterno, facendo provare allo spettatore il senso di spaesamento e di estraneità del protagonista. Nel film, ricorre spesso la domanda ‘che ne facciamo di lui?’. Ma Puchiche, di noi e di questo mondo, che se ne fa?