Cultura e Società

L’attesa

7/09/15

L’attesa

Di Piero Messina – Italia, 2015

Selezione Ufficiale – In concorso

Commento di Rossella Valdrè

“Orbene l’unica assenza è quella dell’altro; è l’altro che parte, sono io che resto. L’altro è in stato di perpetua partenza, sempre sul punto di mettersi in viaggio; egli è, per vocazione, migratore, errante; io che amo sono invece, per vocazione inversa, sedentario, immobile, a disposizione, in attesa, sempre nello stesso posto, in giacenza, come un pacco in un angolo sperduto…”

                                                                                           (R. Barthes, L’assente)

Avrebbe ben potuto intitolarsi anche “L’assente”, questa attesa opera prima dell’italiano Piero Messina, con un film fortunatamente dominato da una delle principali star del Festival di quest’anno, Juliette Binoche, splendida nella sua presenza alla prima in sala. Poiché L’attesa vuole sì raccontare, attraverso un preciso espediente narrativo e psicologico, il tempo apparentemente vuoto ma estremamente ‘pieno’ di un’attesa di qualcuno che non verrà, ma è proprio l’assenza dell’essere atteso che ne fa, a mio avviso, assoluto protagonista. Nulla come l’assente, lo sappiamo, può gravarci della sua ingombrante presenza. Nulla può essere più tiranno: la presenza costante dell’assenza.

Sicilia, una grande villa nei giorni che precedono le vacanze pasquali, clima di solitudine, sospensione, antiche usanze che ritualizzano i simboli di morti e rinascita, pochissimi, forti personaggi.

Jeanne, giovane e solare ragazza francese invitata dal fidanzato Giuseppe a trascorrere le vacanze appunto nella villa siciliana, arriva piena di gioia e trepidazione per l’incontro: conoscerà la madre, figura importante della quale evidentemente Giuseppe le ha parlato, e intuiamo nel proseguo della storia un’apprensione di Jeanne legata ad un passato litigio tra i due. Ma, al momento dell’arrivo, la ragazza è comunque felice: Trova invece un inatteso e lugubre clima di lutto: donne vestite in nero, silenzi, sguardi sfuggenti. Di Giuseppe nessuna presenza, nessuno le dice nulla: è morto mio fratello, è la versione della madre. Il bel volto dolente della Binoche, che attraverserà nel corso di quei pochi giorni tutta una variegata gamma di emozioni insieme a Jeanne è, come detto, la principale forza di un film che il regista, credo, ha pensato e cucito perfettamente su di lei. Una madre di origine francese, ancora bella, separata, sola nella grande villa dei ricordi e degli oggetti che li evocano, il figlio Giuseppe doveva essere il suo grande, il suo vero amore. La morte del ragazzo, mai menzionata a parole ma che viene subito intuita, rappresenta il lutto più terribile potesse colpirla.

L’arrivo della giovane Jeanne, con la quale può parlare la sua lingua, inaspettatamente sembra fornire alla madre una possibilità insperata di ‘rendere ancora vivo’, per un poco, il figlio davanti a lei, di rimandare il lutto o lenirne i tempi dolorosi dell’elaborazione, attraverso un’omissione: non rivela a Jeanne che il ragazzo è morto. Non rivela nulla, che verrà per Pasqua.

Nei pochi giorni dell’ “attesa” le due donne, legate dall’amore per lo stesso oggetto perduto (che entrambe ‘sanno’ perduto, in realtà), ma anche da una sottile e sensuale complicità femminile che si nutre della differenza generazionale, dai ricordi e dalle fantasie intorno all’”assente”, stabiliscono un rapporto profondo, intenso, che sembra andare al di là dell’attesa concreta, per diventare rapporto nuovo, esperienza vitale in sé.

E’questo rapporto, tra la madre e Jeanne, il cuore tematico del film. Film non perfetto, che risente di certe lentezze, di forse eccessivi (almeno, nel mio gusto) simbolismi, ma che resta coerente intorno all’idea centrale, a suo modo originale, uno dei tanti stratagemmi con cui anche il cinema si interroga su uno dei temi più scottanti della vita di tutti noi: come elaborare i lutti. Come gestire, maneggiare, perdite che potrebbero farsi persecutorie, che potrebbero scivolare in malinconie, assenze che non ci arrendiamo a lasciare andare – come a un certo punto dirà la madre a Jeanne – a cui ci ancoriamo a spese di futuri investimenti, ombre tenaci che dall’oggetto assente ormai per sempre cadono sull’Io, annientandolo. Il film propone lo stratagemma psicologico della madre: far intuire ma non rivelare a Jeanne, non negare e non dire, evocare in rai momenti Giuseppe per ciò che è stato da vivo e, soprattutto, attraverso la presenza viva, la voce, il corpo di Jeanne, rivederlo in lei.

Se fosse perdurata, si sarebbe trattato di follia; ma restando circoscritto all’unità di spazio e tempo di pochi giorni e del tempio della villa, il piccolo escamotage fantasmatico sembra consentire a entrambe, e non solo alla madre, un’elaborazione del lutto più sopportabile e, elemento di maggiore interesse del film, la nascita del loro nuovo incontro.

Sullo sfondo dell’assente, di cui non vediamo che oggetti (il cellulare, la camera vuota), le due donne sembrano stringere il tacito patto di “attendere” Pasqua, godendo della loro reciproca presenza, delle loro confidenze, strano rapporto che, benché nato intorno alla menzogna-omissione della madre, tutto può dirsi fuorché falso. Sono anzi i momenti migliori del film, i piccoli scoppi di autentica vitalità tra le due donne.

E Jeanne, si penserà, un’ingenua che non si pone domande? Jeanne pone allo spettatore il dubbio, che ciascuno avrà elaborato secondo le proprie fantasie, se ha creduto o meno alla versione materna: io credo di no. Nella scelta di restare, non porre domande, esplorare ed esplorarsi attraverso la madre, è come se anche lui intuisse nell’inconscio che Giuseppe non tornerà ma, anche per lei, restare con li con la madre è un’inattesa occasione di condividere, senza mai dirselo, un lutto intollerabile.

Il film, nei suoi momenti migliori, fotografa una di quelle rare occasioni che a volte la vita ci offre, di “sapere senza sapere”, quel delicato crinale che chiamerei preconscio (tutt’altro che raro, peraltro, in certi attimi d’analisi), che si mantiene in bilico tra la negazione e la totale consapevolezza, senza debordare né nell’una né nell’altra. Parentesi, se vogliamo, che possiede una sua meraviglia: mi concedo qualche giorno per elaborare un dolore che mi schiaccerebbe, so ma fingo di non sapere fino a che il tonfo della realtà mi costringerà ad aprirle la porta.

La realtà, naturalmente, arriva…e le due donne si saluteranno, arricchite ciascuna del nuovo incontro che ha, in qualche modo, reso possibile l’accettazione della perdita.

Il film di Messina ha dunque, ai nostri occhi, dei meriti di finezza psicologica: contrariamente all’imperativo del nostro tempo che esige di “riempire” tutto, compresi i dolorosi tempi dei lutti con attività e ‘distrazioni’, fa onore al tempo dell’attesa come tempo pieno, vivo, vitale, doloroso ma creativo, utile, fertile, dal quale possiamo uscire diversi, riparati nelle nostre ferite (come non ricordare l’altro eccellente film che fece dell’attesa la protagonista, il “Caos calmo” con l’indimenticabile Nanni Moretti sulla panchina?).

Perdoniamo, quindi, a un film non perfetto, la scelta di un soggetto che può risultare impopolare, in quanto fa del tempo ‘morto’ dell’attesa, del silenzio, del nulla, del non sapere e non saturare, ne fa oggetto vivo e creativo. Altri accenni potrebbero dirsi sullo specifico che il film lascia intuire di quello che fu il rapporto di Giuseppe con le due donne (amava Jeanne tanto quanto amava la madre? Era in fondo sempre e soltanto lei quella da cui tornare, quella che, come in una fantasia della madre, “avrebbe voluto sposare”? questo delicato aspetto di un edipo romanticamente sospeso è garbatamente accennano, e può prestarsi ad un’ulteriore lettura del film.

Ma resta l’Attesa, come il titolo suggerisce, e lo spazio vuoto che l’assente ha lasciato ingombro della sua presenza da “lasciare andare”, la vera protagonista di questo film di sguardi, sospensioni, silenzi che dicono tutto. Tutto quanto non c’è alcun bisogno di dire in parole…

                                                    “Forse solo il silenzio esiste davvero….”

                                                                                                               (Josè Saramago)

6 settembre 2015

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