D’altra parte, la psicopatologia è stata, si può dire da sempre, un oggetto di interesse fortissimo, privilegiato, per la narrazione cinematografica, come del resto lo è stata, fin dall’Ottocento, in tutte le arti.
Esprimere la follia attraverso i comportamenti di personaggi e le loro vicende ha costituito, per sceneggiatori, registi e attori, una delle sfide più pregnanti nella storia della cosiddetta “settima arte”. Di qui, anche, l’interesse degli studiosi e dei “professionisti” della psiche per quanto il cinema poteva comunicare, a proposito dei fenomeni di cui essi assiduamente si occupavano con gli strumenti della loro propria scienza.
Al tempo stesso, però, non era difficile che sorgessero forti diffidenze per la rappresentazione cinematografica di fenomeni mentali, per loro natura complessi e sfuggenti. Così, una naturale, forte, reciproca attrazione tra la psicoanalisi e la psichiatria clinica, da un lato, e il modo del cinema, dall’altro, ha dato luogo molto spesso a rapporti stereotipati, a reciproche insofferenze e soprattutto a invasioni di campo poco rispettose delle specificità di ciascuna parte.
E’ avvenuto spesso che il mondo del cinema sia stato considerato dagli specialisti della psiche, con un po’ di sufficienza, un mero pretesto per dimostrare le proprie teorie a proposito di processi psichici difficili da descrivere al di fuori dei “laboratori” della salute mentale, ma al tempo stesso si siano insistentemente deprecate le distorsioni che nelle “storie” proposte al grande pubblico apparivano riguardo alle figure dei pazienti, e ancor più dei curanti: senza pensare che il cinema rifletteva, invece, quello che il pubblico pensava, e provava, a questo proposito.
Un modo di vedere più maturo e consapevole sta prendendo fortunatamente il campo, anche perché gli studiosi della psiche hanno cominciato a dialogare con coloro che studiano il cinema professionalmente (i critici e gli studiosi della comunicazione di massa) e con altri, per esempio gli psicologi sociali e, più di recente, i filosofi, che del cinema sanno cogliere aspetti fino ad oggi trascurati.
Questo intreccio di metodi diversi sta dando i suoi frutti, allargando e al tempo stesso approfondendo la visione di quanto la rappresentazione cinematografica, sempre più sofisticata, sa offrire nel descrivere i processi della mente umana con le loro complesse vicissitudini, in particolare la sofferenza, la follia, la psicopatologia.
Questo è il tema fondamentale, il percorso intellettuale proposto da “La mente altrove”, un libro dove la varietà degli approcci riesce a render conto della straordinaria ricchezza di spunti e di materiali di riflessione che possono emergere da un modo “rispettoso” di avvicinarsi alla narrazione cinematografica.
I curatori hanno suddiviso l’ampio materiale a loro disposizione in tre sezioni, che riproducono i tre “movimenti” che la macchina da presa adotta normalmente quando il regista vuole farci osservare sempre più da vicino una scena con le sue componenti.
Così, dopo una “panoramica” (il “Dolly”), troviamo lo “Zoom” (una carrellata avanti su temi più specifici) e infine il “Close up”, il primo piano su alcuni punti di particolare interesse. Ma, come al cinema, il percorso può essere rivisto all’inverso, perché il primo piano rinvia comunque allo sfondo panoramico sul quale si muove la grande “macchina significante” cinematografica.
La sofferenza mentale è sicuramente un “altrove” che la vita cosiddetta “normale” non riesce a cogliere né, spesso, a concepire: ma è proprio anche il luogo dove il cinema, con la sua potenzialità descrittiva e evocativa , riesce a trasportare lo spettatore “ingenuo”, sia pure per un breve momento, facendogli provare l’esperienza di una realtà “altra” dove il senso pragmatico delle cose tangibili si articola su un diverso piano, quello dei significati. E’ su questo piano (a sua volta complesso e cangiante) che si posa lo sguardo dello studioso. Il tentativo è quello di ricollegare la conoscenza “tecnica” della psicopatologia ora con gli effetti della rappresentazione filmica sulla mente di un ipotetico spettatore, ora con quel “senso” nuovo che non di rado quella stessa rappresentazione riesce a proiettare sulle manifestazioni della sofferenza stessa.
I saggi della prima parte (“Dolly: uno sguardo d’insieme”) riguardano soprattutto i rapporti, complessi e talora difficili, tra il cinema e le discipline della mente, lungo un arco di tempo che si misura ormai in alcuni decenni: un periodo nel quale i cambiamenti nella tecnica e nella cultura cinematografica sono stati enormi, ma dove anche la visione della psicopatologia è profondamente cambiata. Appare evidente tuttavia, da questa ricognizione, il ruolo svolto dalle rappresentazioni cinematografiche nel tentare una sorta di classificazione, ingenua finché si vuole, delle manifestazioni mentali più difficili da comprendere e delle relative possibilità di cura: certo, nel migliore dei mondi possibili, il tema si sarebbe potuto affrontare con ben diversa precisione, ma è pur vero che mai nella storia un mezzo di comunicazione ha avuto tanto rilievo nel rendere sensibile un vasto pubblico a un problema, appunto quello della psicopatologia, tradizionalmente riservato a un ristretto gruppo di specialisti ovvero mantenuto nel segreto più geloso.
Nei saggi della seconda parte, dedicata ad “analisi ravvicinate del rapporto tra psiche e cinema”, compaiono ancor più chiaramente i legami, metaforici e metonimici, che si sono instaurati tra il cinema (con la sua inesausta creazione di storie, o meglio di “plot”) e gli “oggetti misteriosi” della psiche, vista come il terreno nel quale il Soggetto e l’Oggetto si incontrano e scontrano, in un continuo confronto e conflitto, che si fa terribile quando il mondo esterno diviene insopportabile. Qui il cinema fa “vedere” e quasi “toccare”, talora in modo rozzo, talora con incredibile acutezza, le vicissitudini della mente sofferente; e poiché il cinema è sostanzialmente azione e movimento, ha qui la possibilità di mostrare processi e dinamiche che la parola, pur in tutta la sua potenza, non riuscirebbe se non a sfiorare.
Si parla così della rappresentazione delle nevrosi di guerra, del trauma, del delirio, del viaggio psicoterapeutico, ma anche del fenomeno divistico (la più straordinaria forma di pedagogia psicologica del Novecento) e, infine, di Freud, Antonioni, Wenders “e altri eroi”, quali “navigatori della mente”: e, nell’ottica prescelta, l’accostamento è assolutamente plausibile.
La terza e ultima parte (“Close-up: primi piani su film e registi”) è forse la più “cinefila”, nel senso che qui è protagonista una lettura puntuale del “testo” cinematografico, preso per così dire nel momento tecnico della sua produzione. Lo sguardo critico cerca qui di ricostruire il “come” si è costituita la rappresentazione filmica, in alcune prove significative di registi alle prese con “la mente altrove”. E, se si cerca un elemento unificante di questi tentativi (da quelli classici di Hitchcock a quelli più recenti) lo si trova forse nella trasformazione, un po’ paradossale, dello schermo cinematografico in un possibile “specchio” delle angosce e dei travagli annidati, pur senza essere patologici, nelle menti ritenute “normali” di tutti noi spettatori.
Non si possono che condividere, allora, le parole con cui Andrea Sabbadini, nella sua presentazione, sottolinea non solo la ricchezza degli apporti presenti nel volume, ma l’ampiezza e “la vivacità del dibattito” tra teorie/prassi del cinema e della psiche, di cui viene resa testimonianza attraverso i diversi vertici conoscitivi evocati di volta in volta. Passati i tempi dello sguardo diffidente e distante con cui si sono a lungo misurati il cinema e le scienze della psiche, si è aperta una stagione di dibattiti (vivaci a piacere) e dialoghi che potrà sicuramente arricchire entrambi gli interlocutori, e quanti a tale incontro sono interessati – e, si spera, appassionati.