La casa riflette questo vissuto: è una casa che attende di essere abitata, anche attraverso piccoli gesti domestici di amore verso gli oggetti ed i loro proprietari, come la protagonista attende qualcuno che colmi il suo vuoto affettivo. E in questa casa vuota si introduce il protagonista, splendida figura di ribelle silenzioso ed oppositivo, novello cuculo che si annida nei nidi altrui, che entra nelle case vuote per abitarle affettivamente, e ricavarne un calore ed una struttura che sembra incapace di costruire da solo per se stesso. Tutto in lui sembra puntare all’essenziale, un estremo minimalismo, ed il film è la storia di un novello Diogene orientale che con la mazza da golf sulle spalle (il ferro 3 del titolo, la mazza meno usata dai golfisti) si avvia per il mondo alla ricerca dell’uomo. Uomo che qui viene ricercato nelle sue case, nelle sue abitazioni. Da sempre l’uomo ha proiettato se stesso nell’oggetto architettonico, lo ha disegnato e visto come una creatura antropomorfa, lo ha vissuto ed abitato come un elemento della propria persona, in cui gli spazi si dilatavano e si restringevano per uniformarsi alle sue abitudini e alle sue azioni, fino a diventare una sorta di seconda pelle, fatta ad immagine e somiglianza del suo modo di essere. E da sempre la casa è apparsa come proiezione di spazi privati del Sé, un oggetto che si presta come nessun altro a simbolizzare e a rappresentare la realtà psichica intesa come ponte tra mondo interno e mondo esterno.
In quasi tutto il film assistiamo a situazioni surreali e oniriche che contrastano particolarmente con la quotidianità ripetuta di gesti quasi rituali, come lavare i panni a mano, o riparare gli oggetti rotti, che si ripetono in ogni nuova casa.
Ma il mio compito questa sera non è l’analisi estetica del film, quanto piuttosto parlare di alcuni concetti psicoanalitici, di fantasia inconscia, di realtà psichica, e soprattutto di simbolo, utilizzando questo bellissimo film come chiave di accesso di una casa psicoanalitica, (perché in fondo è sempre di case che stiamo parlando) una casa abitata da concetti complessi, per arrivare a capire cosa può significare davvero rappresentare l’animo umano, con le immagini, come in un quadro o in un film, o con le parole come nei libri e come allora si possa tranquillamente parlare di casa-pelle.
Quando noi parliamo di inconscio, che si tratti di conflitti inconsci, o di pulsioni libidiche oppure di difese, parliamo in realtà sempre di come questi vissuti inconsci vengono espresse attraverso delle fantasie. L’essere umano, e non solo il bambino, ha così a sua disposizione uno straordinario mondo fantastico interiore. Le fantasie inconsce sono per l’essere umano altrettanto importanti e reali della realtà esterna; e vengono agite in quello che è lo spazio della realtà psichica. Questo concetto di fantasia inconscia è alla base della costruzione metaforica di questo film, perché noi vediamo infatti il protagonista agire le sue fantasie all’interno della realtà psichica, emotiva delle case. Fornari sottolineava come la realtà psichica fosse il ponte di collegamento tra mondo interno e mondo esterno, l’area dove si collocava la rappresentazione simbolica. E’ straordinario che il regista riesca ad esprimere questi elementi da un vertice assolutamente non – psicoanalitico, ma artistico, il che conferma che la psicoanalisi non ha inventato nulla, ha solo dato un nome a degli aspetti basilari del funzionamento della mente umana, la psiche. La realtà psichica è così il regno dove noi riflettiamo su ciò che accade nel nella nostra realtà interna, sulle sensazioni che percepiamo, sui sentimenti che proviamo. In altre parole, nella realtà psichica si trova la nostra capacità di mentalizzazione delle esperienze sensoriali ed emozionali del mondo interno. Ma per fare questo, per avere una realtà psichica, noi abbiamo bisogno di un qualche tipo di rappresentazione di queste esperienze. Una buona parte del lavoro di un analista consiste proprio nell’aiutare il paziente a creare ed ampliare la sua realtà psichica, cioè lo spazio dove potere rappresentare le sue esperienze interne soggettive: questa attività rappresentativa la chiamiamo capacità di simbolizzazione.
Torniamo al film. I protagonisti sono eccezionalmente del tutto silenziosi, o per restare in tema cinematografico, muti. Il mondo esterno invece ha il sonoro. La prima mossa del protagonista appena entra nelle case, è di attivare le loro segreterie telefoniche, per sapere dove sono gli abitanti, ma anche per dare un sonoro alla casa. Poi inserisce il suo cd, sempre lo stesso, che è la musica della sua casa, il sonoro del suo film. Ecco, quello che voglio dire è che non è possibile raggiungere direttamente il mondo interno di quella casa, ma si può cercare di conoscerne la sua realtà psichica, cioè il modo attraverso il quale essa si rappresenta, ed eventualmente modificarla. E così ogni casa ha il suo carattere, e la rappresentazione di questo carattere è percepibile dall’arredamento, dai quadri, dalle piante, dagli abiti, dal cibo nel frigo, dagli abiti da lavare. Ed essendo le case, come dicevamo prima, delle rappresentazioni del Sé in forma simbolica, il mondo interno dei suoi abitanti si esprime nella realtà psichica delle loro case. Così per esempio Kim Ki-Duk trasmette l’immagine di case il cui mondo interno è denso di violenza, e la prima immagine che si vede è il ritratto del proprietario, un pugile, con i guantoni da boxe. Poco oltre sentiremo infatti, a conferma di questa percezione di violenza, il sonoro della coppia che litiga, nonostante l’anniversario di nozze appena passato alle Hawai. Oppure c’è la bellissima scena del protagonista che in un’altra casa aggiusta la pistola del bambino per colpire dei palloncini per gioco e quando poi ritornano gli abitanti vediamo una famiglia litigiosa, con il bambino che usa la pistola giocattolo aggiustata per sparare, chissà quanto per gioco, in questo caso, ai genitori che litigano.
In definitiva noi entriamo continuamente nel film in contatto con dei simboli, che rimandano a dei sentimenti e a delle emozioni, le quali racchiudono dei significati inconsci.
Non si può parlare infatti di fantasie inconsce senza evocare il concetto di simbolismo inconscio. La grande scoperta della psicoanalisi fu che i disturbi psichici potevano avere un significato, nel senso che erano espressioni simboliche di fantasie inconsce represse. E’ attraverso il simbolismo che la fantasia inconscia si esprime, attraverso i sintomi, o nei sogni, o nelle normali relazioni degli uomini e nei loro sforzi. Fin dai suoi esordi il lavoro della psicoanalisi ha avuto in larga misura a che fare con il capire il significato simbolico delle comunicazioni dei pazienti. Freud, in uno dei suoi primi lavori, sottolineava alcune caratteristiche del simbolismo: i simboli sono quasi sempre universali; possono essere diversi a seconda delle diverse culture; sono dati e non si formano e derivano da un passato molto arcaico. Nella rappresentazione simbolica il simbolo rappresenta l’oggetto, ma non è totalmente identificato con esso, come invece avviene nella cosiddetta equazione simbolica, dove il simbolo è così identificato con l’oggetto che simbolo e oggetto rappresentato diventano identici. Per avere una rappresentazione simbolica ci deve essere una relazione a tre facce: il simbolo, l’oggetto simbolizzato e la persona per la quale il simbolo è il simbolo di quello oggetto. In assenza di una persona per la quale il simbolo può avere significato non ci può essere simbolo. Nel film la protagonista coglie al volo il significato simbolico di alcuni gesti che il ragazzo compie nelle case che occupa, come il fotografarsi insieme agli oggetti, o lavare i panni a mano, e li ripete a sua volta, generando un linguaggio condiviso, uno stile, una cultura. Nel film lei diventa la persona per la quale il simbolo acquista un significato. L’Io e l’oggetto devono essere sufficientemente differenziati per avere una relazione simbolica., altrimenti il simbolo, che è una creazione dell’Io viene confuso con quello che viene simbolizzato, cioè l’oggetto. Per esempio, se io dico: ti voglio avere, non intendo davvero possederti sul serio, ma simbolicamente. Nel film incontriamo alcuni personaggi, come il marito, per i quali si può parlare in certo senso di equazione simbolica, e cioè di una incapacità di uscire dal pensiero concreto nel quale oggetti e simboli che li rappresentano si equivalgono. A volte la realtà materiale prepotentemente si sovrappone alla fantasia simbolizzata, ed è quasi sempre un disastro, vedi l’episodio dell’ omicidio colposo compiuto dal ragazzo quando la pallina con la quale finge di giocare a golf si stacca dal suo laccio.
Il ragazzo non vuole possedere niente, ma desidera utilizzare gli oggetti che incontra come simboli che possono dare un significato linguistico alla sua esistenza. La ragazza, che secondo il marito possiede tutto, nella sua realtà psichica non è in grado di utilizzare nessuno di quegli oggetti, di entrare in relazione con loro, perché le sono estranei, sono dei non -oggetti per lei. E’ solo quando lui entra nella casa, e li usa che acquistano una loro vita simbolica e quindi possono avere un significato per lei. Vedi per esempio l’episodio della bilancia, che viene modificata fino a segnare non il peso della realtà esterna, ma quello più importante di quella interna, in cui loro due, insieme, sono immateriali, non hanno peso. La violenza che il marito esercita su di lei non è data tanto dalle percosse, di cui porta il segno, quanto dalla mancanza di una rappresentazione simbolica: per lui lei è un oggetto che possiede, una vera e propria equazione simbolica tra il simbolo e la cosa, non è come se lei gli appartenesse, per lui lei gli appartiene, e quando si accorge che non è vero perde la testa. E’ interessante in questo senso il contrasto con l’altra coppia, quella della casa con i pesci, dove invece entrambi i coniugi appaiono concentrati in attività volte a creare armonia e bellezza intorno a loro. Gli oggetti che usano, come le tazzine da tè, o le piante bonsai, appaiono investiti da amore e attenzione, rappresentazioni simboliche, io credo, dell’amore e attenzione che hanno reciprocamente l’uno verso l’altro e verso il mondo esterno. E’ una casa dove trovare pace, ma anche rispetto.
La formazione dei simboli domina la capacità di comunicare, perché tutte le comunicazioni avvengono per mezzo di simboli. La capacità di comunicare usando i simboli è la base del pensiero verbale, cioè la capacità di comunicare attraverso le parole. E’ anche alla base della capacità creativa artistica, perché il simbolo non è una copia dell’oggetto che rappresenta, ma è qualcosa che viene creato completamente nuovo. Il mondo che l’artista crea è nuovo. Ha a che fare con gli oggetti che racconta, ma il racconto avviene attraverso la loro rappresentazione simbolica, che in quanto tale può sempre essere diversa ed originale, mentre gli oggetti rimangono costanti e persistenti. In un certo senso i simboli sono totalmente frutto della nostra creazione, ma in un altro sono la scoperta di qualcosa che già esisteva e la creatività è l’uso che ne facciamo. Tornando al film, i simboli che Kim Ki – Duk usa sono condivisi in larga parte dallo spettatore, (anche se sospetto che alcuni possano sfuggire alla cultura occidentale) e se così non fosse il film sarebbe incomprensibile, e perderebbe il suo carattere di comunicazione e di veicolo di messaggio.
Infine la spiegazione brevissima del titolo del mio lavoro, la casa – pelle. E’ la parafrasi di un libro di uno psicoanalista francese, Didier Anzieu, L’Io – pelle, ed allude al concetto di evoluzione del pensiero da un livello primitivo, la pelle, ad uno più evoluto. Per Anzieu la costituzione dello psichismo, come lo chiama lui, cioè il pensiero psichico, avviene attraverso il passaggio dall’Io pelle all’Io pensante. Anche nel film, come nella vita, i pensieri – case dei due protagonisti si evolvono durante la loro crescita. Pensare significa tenere insieme, fare stare in piedi, come si dice colloquialmente. Pensare è raddrizzarsi appoggiandosi ad una base solida: l’emergere del pensiero richiede una stabilità, che richiede un sostegno, così come accade quando si erigono le case La capacità riflessiva della nostra realtà psichica si arricchisce con il passare del tempo: costruiamo nuove relazioni, più complesse, elaboriamo compromessi; coltiviamo la capacità di sopportare l’odio e l’amore. La nostra capacità di pensiero simbolico cresce con noi, e permette di coltivare illusioni che coesistono accanto alle nostre realtà sempre più complesse. Nel film i due protagonisti smettono di cambiare casa di continuo, e si assestano in un compromesso che è surreale, ma che contiene un nucleo di verità assoluta proprio nell’essere un compromesso: è quello che Anzieu chiama il passaggio dall’Io pelle all’Io pensante. E che noi possiamo pensare come un passaggio da un Io – casa – pelle, effetto del narcisismo primario primitivo a un Io più adulto, che raggiunge la capacità di simbolizzazione dell’oggetto proprio perché ha raggiunto la capacità di separazione e distinzione del soggetto rispetto all’oggetto.
C’è poi un altro concetto di cui è importante parlare, sempre a partire dal film. Si tratta di un tema abbastanza interessante, da un punto di vista della clinica psicoanalitica, ma che presenta anche un discreto interesse di attualità, sociologica e antropologica. Mi riferisco alle fantasie di invisibilità. Nel film il protagonista tende all’invisibilità, tende a diventare un fantasma, presente solo nella mente dell’altro. Spesso gli abitanti delle case percepiscono la sua presenza, da alcuni segni, un cuscino spostato, un manifesto scomparso. In realtà il più delle volte sentono la presenza di qualcuno, una presenza invisibile, che l’occhio umano non può vedere. E’ un elemento che si esprime molto distintamente nella scena della cella della prigione, quando cerca di scomparire in tre metri quadrati, e disegna alla fine un occhio sulla sua mano, per cercare di essere visto solo da un occhio simbolico, non da un occhio reale. La didascalia finale apposta al film: “Non è dato di sapere se il mondo in cui viviamo è sogno o realtà” sembra sottolineare questo aspetto dell’invisibilità. Le fantasie di invisibilità esprimono il desiderio, ma anche la paura di non essere visti o conosciuti, e sono strettamene connesse all’angoscia di castrazione. In un certo senso queste fantasie sono delle difese al terrore di essere esposti, di mettersi alla prova (non a caso il protagonista non costruisce mai una casa sua, ma si limita ad occupare le case degli altri). Queste persone temono che non ci sia spazio per loro nel mondo e fantasticano di scomparire o di controllare il modo in cui si viene visti. In tal modo però pur mettendosi al riparo da ogni possibile minaccia di castrazione che deriva dall’essere visti, rendendosi invisibili si isolano dagli altri. Nei casi più estremi alcune persone si possono rendere realmente invisibili: nessuno può castrarli, perché nessuno può vederli; e non hanno più angosce, perché sono diventati invisibili. Per esempio uno studente può rinviare sine die di dare gli esami, o non presentarsi agli appelli a cui si iscrive: in tal modo, non facendosi vedere, rendendosi invisibile, pensa di non esistere e quindi di non venire aggredito per l’inconsistenza della sua preparazione. E’ evidente però che alla prova di realtà questo sistema difensivo risulta molto insoddisfacente, perché finisce col diventare davvero invisibile agli occhi della società, che semplicemente fa a meno di te.
Le fantasie di invisibilità esprimono anche il rifiuto di apparire come gli altri (i genitori, gli insegnanti, la società) vogliono che tu sia. La paura di quello che gli altri possono vedere di te rinforza le difficoltà di relazione con il mondo. Nel film il protagonista non parla mai, è muto, non si difende nemmeno quando viene accusato di omicidio. Ma non parla e rimane muto anche quando dovrebbe denunciarsi per omicidio, quando cioè, lanciando la pallina da golf, colpisce la donna seduta nella macchina. Sfuggendo alla violenza, cercando di rendersi invisibile, finisce poi per creare a sua volta un’altra violenza, frutto della sua incapacità di esporsi.
In inglese la parola shame, vergogna, deriva dalla radice indoeuropea skam, che significa nascondere. Da questa stessa radice derivano skin, pelle e hide, nascondere.
Dai tempi di Platone il vedere è stato usato come una metafora per capire o conoscere. Platone e chi l’ha seguito hanno parlato non tanto di ciò che l’occhio vede veramente, ma piuttosto di ciò che ci permette di vedere, cioè l’immaginazione, o la fantasia, diremmo noi. Anche Leonardo Da Vinci pensava che la comprensione derivasse dal vedere e dall’immaginare. L’angoscia di apparire ha a che fare con la paura di essere esposto e conosciuto, e viceversa la coazione ad apparire a tutti i costi, così frequente nella nostra società, può essere legata al bisogno di controllare ciò che gli altri vedono di noi. La paura di essere visti può nascondere la paura di essere capiti, avvicinati, amati, a prescindere dal nostro controllo. Un grave trauma dà origine a intollerabili esperienze di vergogna ed impotenza. Noi non sappiamo perché il protagonista voglia rendersi invisibile, cosa sia accaduto nella sua vita. Certo sappiamo che ha conosciuto la violenza, perché la esercita e ne rimane vittima. In analisi noi sappiamo che le persone che tendono a rendersi invisibili sono in fuga da sentimenti di dolore e di vergogna. Nascondendosi non rischiano di incontrare ancora la sofferenza. Ma così facendo rinunciano ad amare e ad essere amati. Come diceva Freud in uno dei suoi primi lavori, Introduzione al narcisismo: “Un forte egoismo instaura una protezione contro la malattia; tuttavia prima o poi bisogna ben cominciare ad amare per non ammalarsi e se, in conseguenza di una frustrazione, si diventa incapaci di amare, inevitabilmente ci si ammala”.