di Nelly Cappelli
Siena, 28/9/2006
Dopo la cerimonia di consegna del Premio Cesare Musatti 2006, che la Società Psicoanalitica Italiana ha conferito a Bernardo Bertolucci, il regista ha accettato di rispondere ad alcune domande.
D.: Non ho visto tutti i suoi film, né ho voluto prepararmi all’intervista riguardandoli, nei giorni scorsi. Ho scelto di affidarmi alla mia memoria, come ad un archivio affettivo, e cercare lì immagini e atmosfere legate alle sue opere. Una cosa mi ha colpita: che i suoi personaggi, anche quando sono disperati, non sono devitalizzati e comunicano un senso di profondità, di calore e di contatto, non fosse altro che con l’ambiente o col pensiero di qualcuno, persino con l’assenza. Sono, in qualche modo, in relazione.
R.: Esiste un mio cinema prima dell’analisi, che comincia nel ’69, e un cinema dopo l’analisi. Il mio cinema degli anni sessanta era un cinema davvero chiuso. Se un film aveva successo, noi pensavamo che ci fosse qualcosa dietro, una specie di complicità con l’imperialismo americano! Poi, nella primavera del ’69 cominciai l’analisi e nell’estate girai "Strategia del ragno", che è un film pieno di calore. Quindi, quello che è accaduto a me, che cominciai ad aprirmi col mio psicoanalista di allora, è più o meno quello che è accaduto anche al mio cinema. E’ come se io in tutti gli anni sessanta mi fossi rifugiato nel monologo e con l’analisi avessi scoperto il dialogo. Da allora i miei film sono diventati più accessibili: avevo bisogno di una verifica, non ce la facevo più a fare dei film solo per i miei amici e i miei parenti. Avevo bisogno di sentire cosa sente il pubblico: e questo è stato il primo effetto della nostra analisi. I primi sette anni, sono stati indimenticabili. In pochi anni ho girato: "Strategia del ragno", "Il conformista", "Ultimo tango a Parigi" e "Novecento". Era un continuo verificarsi di successi in cui sentivo la completa complicità del mio analista. Forse l’esperienza del setting psicoanalitico si è trasferita anche nei film. I miei film erano finalmente più comunicativi, anche perché il calore di cui parlava, si è liberato ed è stato avvertito dalla gente.
D.:Parlava di "Strategia del ragno", che si ispira ad un racconto di Borges. Non posso pensare a Borges senza pensare all’elaborazione del lutto. Nel racconto "Borges e io", per esempio, lo scrittore, ormai cieco, ci immette nell’esperienza del narratore che lotta per perseverare nel suo essere scrittore. Perdita, separazione, lutto, sono temi ricorrenti nei suoi film
R.: Sì. Penso che, senza addentrarsi nei significati più profondi della mia analisi "interminabile", l’impossibilità o la difficoltà di separazione sia per me molto importante. Certo, fino da giovane ho sempre avuto difficoltà a separarmi, ma, a questo punto, trovo difficoltà a separarmi da un paio di scarpe, da un libro, da tutto, per non parlare dell’amore. Pensi che, in giugno, tornando da Bologna, dove hanno festeggiato i trent’anni di "Novecento", ero seduto, come faccio sempre, nel verso in cui va il treno, ero su un Eurostar. C’erano mia moglie e Virginio Fantuzzi, un padre gesuita che scrive tra le più interessanti critiche di cinema, su "Civiltà cattolica"; è un mio vecchio amico, grande ammiratore di Pasolini e Rossellini, un gesuita molto speciale. Arrivati a Firenze, il treno è ripartito, naturalmente nella direzione di marcia opposta e, dopo un po’, gli ho chiesto se gli dispiaceva cambiare posto con me. Avevo capito, in quel momento, che, per tutta la vita, mi sono sempre seduto nella direzione in cui andava il treno, perché andare all’indietro, allontanarsi è il movimento della separazione. A volte, mi diverto se rivedo delle sequenze dei miei film, a guardare i movimenti di macchina. Ci sono molti più carrelli avanti (in avvicinamento) che indietro (in allontanamento)…
D.: Si allena, allora, facendo i film!
R.: Mi alleno e faccio anche di più. Mi posso permettere anche azioni orribili! Tante di quelle cose che mi sono proibite nella vita. Non so quante volte ho ucciso nei miei film le figure paterne. Mio padre, una volta mi disse: "Furbo tu, mi hai ucciso tante volte senza andare in galera"!
D.: Pensavo, vedendo i suoi film, all’atmosfera semionirica che sembra talvolta pervaderli. Mi veniva in mente lo stato di rêverie, che è come un sogno ad occhi aperti, socchiusi, chiusi, ma senza dormire e con un’attenzione "ugualmente sospesa". Può essere accostato a una sua idea di cinema?
R.:Lo spettatore ideale per me si lascia andare totalmente davanti a un film e può dormire e sognare all’interno di quel sogno che è il cinema. La sala cinematografica può essere sia la caverna di Platone, sia il ventre materno. La cosa affascinante, che le nuove tecnologie non sanno restituire, è che al cinema si sognava tutti insieme, e con gli occhi aperti, lo stesso sogno, il film. Se poi ci si fa raccontare la storia da dieci persone diverse si avranno dieci racconti diversi. Ognuno ha metabolizzato il film a suo modo. Non credo sia casuale che "L’interpretazione dei sogni" di Freud è quasi contemporanea alla nascita del cinema.
Il mio entusiasmo di analizzando neofita oggi quasi mi imbarazza.
Qui la nostra conversazione si conclude.
Curioso: questo "movimento di macchina", carrello indietro, in allontanamento, un po’ dispiace a me!
Grazie per l’intervista, dottor Bertolucci.