Fabio Castriota
Alcune riflessioni introduttive
L’incontro estremamente stimolante organizzato dai colleghi napoletani intorno al film “Teatro di guerra”, al cui dibattito ha presenziato con un intervento lo stesso autore, s’inserisce egregiamente in quella ricerca del rapporto tra Psicoanalisi e Cinema, che ha visto in modo fecondo svilupparsi diverse iniziative in vari centri della SPI a partire da qualche anno.
Lasciando ai bellissimi interventi dei colleghi che hanno presentato il film lo spazio più specifico rispetto all’opera di Martone, vorrei sottolineare brevemente uno dei temi che il Centro Psicoanalitico di Roma ha privilegiato, tra gli altri, tra i molti che il rapporto con la settima arte ci suggerisce, facendo riferimento in queste poche riflessioni soprattutto alla ricerca , in quest’ambito, di Anna Ferruta e Paolo Boccara (autori , con altri colleghi, della recente opera “Pensare per immagini”, Borla ’05). Quest’aspetto così rilevante è quello relativo al registro iconico, quello che il cinema soprattutto utilizza, fondendolo in diverso modo, con quello sonoro e linguistico. L’ordine iconico può essere considerato come espressione dei livelli più arcaici della struttura psichica ( è proprio tramite la comunicazione visiva che d’altronde il bambino entra in contatto col mondo materno iniziando a sviluppare le proprie funzioni psichiche cognitivo/affettive) ed è ricorrendo proprio a questo registro che la mente attinge, nel suo tentativo di dare accesso alla pensabilità, a quelle emozioni che sono ancora prive di tale possibilità. L’iconico è una tappa verso la simbolizzazione, un primo livello di gestione di emozioni recluse nell’inconscio, che possono invece essere immesse in una dimensione dove acquistano un senso sul piano intrapsichico ed anche relazionale (come avviene nel lavoro del sogno) . Il fatto di poter contenere e rappresentare anche emozioni particolarmente angoscianti o distruttive, rende poi questo registro estremamente potente. Solo successivamente, quanto è emerso viene avviato alla simbolizzazione ed alla pensabilità e potrà essere mediato dalla rappresentazione verbale verso i livelli più strutturati della mente.
Da questa breve riflessione possiamo cogliere ancor più la straordinaria possibilità che il cinema di qualità, come questo bellissimo film di Martone, ha di evocare ed attivare nello spettatore affetti e sentimenti, che sotto una stimolazione così profonda ed efficace, possono accedere ai livelli mentali più coscienti. Tutta l’opera di Martone, sia teatrale che filmica, trova in questa sua capacità evocativa uno dei suoi principali motivi d’interesse ed apprezzamento. Come i colleghi hanno evidenziato nei loro interventi, quello che colpisce è quanto l’Autore riesca ad esempio a comunicare il senso profondo della sua opera soprattutto tramite l’uso magistrale della tecnica cinematografica, dei dialoghi e dei suoni che l’accompagnano. Il senso di vuoto e di frammentazione legato all’agire degli elementi distruttivi, sia sul piano intrapsichico che su quello relazionale , sociale e politico, non viene reso in modo didascalico, ma invece tramite un linguaggio filmico che, nella sua apparente frammentazione, riesce, meglio di ogni altra tecnica, a comunicare allo spettatore il senso di morte e spaesamento tipico dei “Teatri di guerra” in cui tutti siamo immersi.
Prima della proiezione…
Nell’attesa, alla spicciolata piccoli gruppi si formano, si incontrano salutandosi, si sciolgono, c’è un’aria da sabato mattina, la sala si riempie lentamente in un brusio…
Si inizia…
Sarantis Thanopulos: Prima di spiegarvi come funzionerà la giornata di oggi dò la parola a Olga Pozzi presidente del Centro Napoletano di Psicoanalisi per darvi il benvenuto.
Olga Pozzi: Si, buongiorno a tutti. Effettivamente è solo un saluto di benvenuto a nome mio personale e a nome del Centro Napoletano di Psicoanalisi che ha organizzato al Grenoble questa manifestazione. Io spero che riusciranno a circolare pensieri e anche, perché no, emozioni e che non sia solo una dotta esposizione di temi già precostituiti e prefabbricati. Spero vivamente che ciò possa accadere. Vi saluto tutti e cominciamo.
Thanopulos: Tra pochi istanti inizierà la proiezione del film. Dopo la proiezione ci sarà un dibattito sul film con la partecipazione di Mario Martone, dibattito aperto dai colleghi Giuliana Tessitore, Roberto Musella e Mario Donadio appartenenti al gruppo che si occupa di cinema e psicoanalisi. Il pomeriggio ci sarà la tavola rotonda su Città e Conflitto dove si riprenderà il tema del film e si amplierà nelle sue implicazioni che riguardano il rapporto con la città; il conflitto all’interno della città e direi anche il teatro come luogo di partecipazione civica. Alla tavola rotonda che sarà moderata da me parteciperanno Mario Martone, Franco Conrotto, analista Spi con funzione di training e il professor Gianfranco Borrelli ordinario di Storia delle dottrine politiche all’ università Federico II d Napoli. Iniziamo con la proiezione.
E mentre il buio a poco a poco invade la sala…si avvia la proiezione di…
“TEATRO DI GUERRA”
(di Mario Martone)
Il film è ambientato nei quartieri Spagnoli di Napoli, tra la sala Assoli del Teatro Nuovo, in cui si realizzano le prove dei Sette su Tebe, ed un esterno in cui si muove la vita reale.
Leo, un giovane regista in crisi, decide di mettere in scena la tragedia di Eschilo da portare a Sarajevo, città in guerra. Mette su un gruppo composto da persone molto diverse tra loro. Il film prosegue svolgendosi tra un “dentro” – scena teatrale – e un “fuori” – città – in un tentativo di avvicinare il conflitto fratricida dei “Sette”, da una parte, e della città, dall’altra. La contrapposizione si svolge tra il gruppo degli attori “instabili” e quello della compagnia del Teatro “Stabile”, tra le due prime donne, tra i boss del quartiere, etc. Lo slittamento tra il dentro – scena teatrale – ed il fuori – la realtà della città – in un continuum spaziale, senza definizioni limite, realizza una confusione, per cui la Polizia arresta nella realtà gli attori che provano la scena teatrale a porte aperte…
Infine lo spettacolo è pronto, ma nel frattempo è morto l’attore bosniaco che era il tramite per entrare e realizzare lo spettacolo in un teatro di Sarajevo, per cui lo spettacolo non potrà essere rappresentato in Jugoslavia, ma ci sarà una prova generale a Napoli. Il film dà significato e sottolinea l’importanza del “percorso”.
Nel frattempo accadono molte cose nella vita delle persone coinvolte. Quindi Napoli, come Sarajevo, come Tebe, è una città in conflitto, con il disagio conseguente al vivere sociale.
Dopo la proiezione nella sala si percepisce un clima sospeso…di attesa…
Inizia il dialogo…
Thanopulos: Iniziamo con il dibattito sul film che spero non sia celebrativo ma franco e sentito. Per prima parlerà Giuliana Tessitore.
Giuliana Tessitore: Da un antico testo cinese di Sun Tzu:
“Le parole non vengono udite: occorrono cembali e tamburi.
L’occhio è debole: occorrono stendardi e bandiere”.
Cembali, tamburi, stendardi e bandiere, servono per attirare
L’attenzione, unificando la vista e l’udito degli uomini.
Quando gli uomini sono unificati, l’ardito non procede da solo,
Il pavido non indietreggia da solo. Questa è la regola per
La coesione del gruppo.
Credo che questo abbia a che fare con uno dei sensi del film.
Il mio contributo al dialogo che ora si apre con M. Martone e con voi è questo, spero che sia di aiuto alla discussione.
Il film mi ha interessato per la sua non consuetudine, per l’assenza di vincoli e la complessità.
È un film che pone interrogativi.
Parto dalla mia esplorazione di esso che mi si presenta come segmento di un percorso svolto, fatto di frammenti spesso scomposti e dissonanti.
I versi di Eschilo “io lo vedo questo frastuono, fragore di innumerevoli lance” corrispondono in senso opposto alla dissociazione da me più volte sperimentata, durante la proiezione, tra suono e visione, tra parole ed immagini. Spesso mi sono sentita bombardata da parole che mi arrivavano come immagini scheggiate e da immagini taglienti come parole.
Si realizza nell’esperienza la rottura del diaframma dello schermo tant’è che mi sono trovata immersa in uno spaccato catastrofale di stimolazioni percettive in eccesso, di mescolanza e pluralità trans-individuali, in cui presente è la de-costruzione del senso e dei riferimenti usuali…con un’intenzione ed uno sforzo alla creazione di nuovi nessi. Tutti i frammenti ad una visione più attenta però si propongono ad anelli concentrici. Un luogo, ma anche un tempo ed un contenuto dentro l’altro, come in scatole cinesi, avendo l’impressione che ogni frammento, come un frattale, contenga tutti i temi e tagli trasversalmente la struttura concentrica.
Vorrei chiedere a Mario Martone se questo film non è il tentativo di raccontare questa complessità ma anche questa confusione, prendendo il senso di mancanza come punto di partenza per questo lavoro, per porsi e porre delle domande!?
Oltre ciò i temi ricomposti che colgo insieme al mio spaesamento e turbamento sono: la frammentazione quindi, la decostruzione, la mescolanza, l’indifferenziazione, il duale( tanto caro alla grecità), il gemellare ed il doppio, l’antagonismo conflittuale, l’ambivalenza, la guerra e le diverse forme della guerra. La guerra fratricida, civile (con il suo drammatico senso di vuoto e di vergogna).Il femminile e il maschile. Della contrapposizione tra legge dello stato e legge degli affetti, tra potere costituito e principi personali tra s e s, tra gruppo e l’individuo, ma anche tra s e , della s e del tema del . Delle vittime che ne espiano le colpe e dei passi tra le generazioni. Sulla funzione della cultura e sull’identità.
Inoltre la passione per il teatro, una riflessione sul senso tragico oggi ed aspetti auto biografici. Ma aggiungerei anche del rapporto tra cinema e teatro.
Ce n’è per un po’!
Per qualche verso avverto l’eccedenza del mio testo come isomorfa all’eccedenza e alla complessità trovata nel film.
Molti di questi temi occupano anche la psicoanalisi.
Ne prediligerò due che percorrono l’intero film: il primo sulla funzione del gruppo, il secondo sulla funzione del teatro e del senso del tragico oggi.
Leo riunisce un gruppo di persone, tra loro molto diverse, che per un tempo lungo, tra molte difficoltà di vario ordine, lavorerà, con molta tenacia ad un progetto che non si realizzerà come pensato, lasciando al film un senso di incompiutezza ma anche di estraneità.
Il progetto, almeno per come è stato inizialmente dichiarato è: mettere in scena “I sette su Tebe” di Eschilo a S., città in guerra.
Mi chiedo oltre questa parte dichiarata ed esplicita, quale sia la funzione non esplicita, latente, di questo gruppo per Leo e per gli altri? Cosa tiene queste persone così diverse insieme per tanto tempo, tra tante difficoltà? Qual è la spinta interna?
Si può ipotizzare un vuoto di senso e di rappresentazione di tematiche che si situano tra l’universo sociale e quello individuale, intrapsichico, per cui il gruppo funge da cerniera tra i due, come aria di transizione?
Questo gruppo, a me pare, si “tenga unito” per compiere dentro di se un percorso, un segmento di esperienza, nella speranza e dentro il senso comune del progetto, scegliendo come suo mito quello dei “Sette su Tebe” espresso e tenuto dalla struttura del testo di Eschilo, dandosi anche la possibilità di recuperare radici culturali ed identitarie.
I grandi gruppi delle città, le città di N., S. e Tebe sono, per me, tre vertici paralleli ma anche concentrici del film, di una dimensione tutta psicologica e non geografica.
Da uno scambio avuto con colleghi che hanno lavorato a lungo a S. durante la guerra, so che, in quegli stessi anni in cui veniva portato in scena, nella sala Assoli del Teatro Nuovo dal gruppo dei Teatri Uniti, “i Sette”, quindi gli anni della guerra, in cui il mestiere principale era soprattutto trovare acqua, pane e legna, in S. e dintorni c’è stata una fioritura di incontri e di attività culturali.
Esigenza comune era quella di “parlare”, tradurre le angosce, le paure e le disgrazie che ormai facevano parte della realtà della guerra e di renderne partecipi gli altri anche se con il timore di non riuscirci, di non poter essere compresi se non dai consanguinei, quelli che hanno fatto la stessa esperienza.
Chiedo a Lei, della sua esperienza, da me dedotta, dalla lettura del diario da Lei scritto su Teatro di guerra, di cosa spinge le persone ad incontrarsi e a fare legame sotto la minaccia del conflitto?
Forse il gruppo del fratelli stringe un “patto di sopravvivenza” nel mettere in scena, un mito classico, intriso di forti caratteri rituali, che parla di una guerra fratricida, mentre si respira la cronaca di una guerra reale.
Possiamo pensare insieme che il legame libidico, vitale si poggi su quello auto-conservativo in opposizione alle spinte distruttive di Thanatos?
Nel libro di Bettin “S. Maybe” si racconta di una lettura dei “Sette” di Eschilo alla luce delle sole candele, in una S. bombardata.
Ed è lo stesso anno di “Teatro di guerra”, “Lo sguardo di Ulisse” di Anghelopulos, in cui attori recitano Romeo e Giulietta approfittando della nebbia.
Questa spinta creativa è un tentativo riparativo alla distruttività della guerra?
Luisella nel film chiede a Leo del “senso” di andare a rappresentare Eschilo, in italiano, in una S. bombardata ed in una condizione resa “alterata” dall’esperienza della guerra.
Sul senso di tale azione per quelli in guerra e per quelli in pace, esclusi i motivi, per questi ultimi dell’auto compiacimento e della salva coscienza. Leo considera gli interrogativi di Luisella un falso problema tranne che per l’importanza dell’autenticità dell’esperienza del gruppo e le risponde “se fasulla è la nostra esperienza noi non abbiamo nessun rapporto con loro”. Le chiedo se questo ha a che fare con il living? Inoltre sul senso di andare a portare il teatro di Eschilo aggiunge “quella di S. è gente che ha tenuto i teatri aperti”.
Del resto così come più volte si è visto in opere documentarie, o da racconti ed esperienze di altre zone di guerra (vedi Jenin Jenin) i teatri sono stati tenuti aperti o addirittura ricostruiti durante il conflitto.
È un film sul teatro dunque? E sulla sua funzione possibile di contenitore e di luogo di elaborazione? E nello specifico del teatro tragico! Sulla funzione del teatro nella città in situazioni di conflitto.
Nella Grecia del V secolo la tragedia non è soltanto una forma d’arte; è un’istituzione sociale che la città instaura accanto ai suoi organi politici e giudiziari con una funzione specializzata.
Instaurando sotto l’autorità dell’Arconte nello stesso spazio urbano e secondo le stesse norme costituzionali delle assemblee e dei tribunali popolari, uno spettacolo aperto a tutti i cittadini, diretto ed interpretato e giudicato dai rappresentanti qualificati delle diverse tribù, LA CITTA’ SI FA TEATRO; in un certo senso essa prende se stessa come oggetto di rappresentazione e interpreta se stessa davanti al pubblico.
Così la tragedia appare radicata più di qualsiasi altro genere letterario nella realtà sociale, ciò non significa che ne sia il riflesso.
Essa non riflette questa realtà: LA METTE IN CAUSA. Presentandola lacerata, in urto con se stessa, la rende tutta quanta problematica.
Come è stato nel quinto secolo in cui la tragedia esisteva solo in quanto connessa alla città in cui era nata, il film come rappresentazione si giustifica e si approfondisce nel legame viscerale che lo vincola alla città?
È la città con la sua realtà che irrompe nelle prove della rappresentazione dei “Sette” in varie forme. L’irruzione si realizza nel luogo reale del palcoscenico, nucleo degli “altrove”, dove si respirano gli umori, la fatica la frustrazione degli attori.
Leggevo dal suo diario su “Teatro di guerra” che durante le prove dei “Sette”, la porta della sala Assoli rimane aperta sull’esterno. Perché la realtà esterna “tocchi” la scena e ne sia toccata? Perché ci sia come dire una contaminazione attraverso l’esperienza di essa?
Ed il teatro ritrovi la sua necessità, significatività con la sua funzione come nelle città del V secolo?
Ma in che cosa ci sono le differenze?
Potrei pensare quindi al teatro come a un luogo abilitato dalla città ad una funzione specializzata e specifica di sperimentazione e di conoscenza… conoscenza intesa come la capacità di pensare su e apprendere dalle proprie esperienze anche in condizioni estreme, intervenendo e tentano di riflettere la realtà.
Su questo impianto si potrebbe ancora pensare al teatro come a un modello di mente che oltrepassa il limite del soggetto, nella quale la psiche non è più un’ istanza solo individuale, ma un’ entità costituita da tante istanze contenitrici, unite in una tessitura, esito dell’incontro tra due o più menti VIVENTI che si uniscono in maniera operativa. Quindi, nello specifico, nel caso del conflitto, uno scopo del teatro nella città potrebbe essere quello di costruire un contenitore multiverso, gruppale, VIVO che tenta di pensare su e apprende da ciò che accade, nel tentativo di avvicinare e rappresentare la realtà?
Come sta tutto questo con il suo teatro, la sua riflessione meta-teatrale ed il suo film, luoghi in cui si avverte molto di lei?
Questa è la mia restituzione al film.
Thanopulos: La parola a Roberto Musella.
Roberto Musella: Il mio intervento sarà breve e si atterrà ad una possibile lettura del film in chiave psicoanalitica. Dirò subito che, più che al contenuto del film, la mia attenzione si è rivolta alla sua struttura.
Le domande da cui partirei e che girerei a Martone, non prima di avere accennato ad un ipotesi che incrocia la teoria psicoanalitica, sono: perché non si arriva a Sarajevo a rappresentare l’opera e perché Leo non dice alla compagnia della morte del regista bosniaco?
Quello che osserviamo nel film è una tensione costante tra la necessità di rappresentare e la pressione sensoriale che la realtà traumatica impone, ostacolando la rappresentazione stessa. Se dovessi racchiuderlo in una formula direi che nel film osserviamo il conflitto tra il trauma del reale e la spinta alla rappresentazione.
Lì dove il trauma della guerra incombe forse non si può pensare ad una rappresentazione compiuta che, a maggior ragione, nel caso specifico, è una rappresentazione che ha per oggetto una guerra. Insomma, la guerra a Sarajevo è troppo reale per consentire una rappresentazione della stessa.
Un’altra guerra, in questo caso quella di camorra, che, su un piano speculare, incrocia la guerra civile nella ex Jugoslavia, è quella che si svolge a Napoli, lì dove una compagnia non stabile, senza mezzi economici e senza un sufficiente apparato protettivo dello spazio della rappresentazione, cerca di rappresentare, a sua volta, una guerra intestina tra fratelli. Noi vediamo nel film che il campo, lo spazio della rappresentazione, è costantemente invaso dalla realtà circostante, in alcune scene la cosa diventa evidente. Per esempio quando la polizia, facendo una retata, arresta maldestramente gli attori, sottolineando, appunto, che il confine tra la rappresentazione e la realtà è troppo sottile.
Prendiamo questo spunto per riflettere su un teatro caro a noi analisti, il teatro del sogno: è chiaro che se un rumore eccessivo o una luce abbagliante, agendo come trauma percettivo, incombe sul nostro sonno, la possibilità di sognare, ovviamente, viene meno, come è chiaro che se un rumore eccessivo del sogno, quello che potremmo definire un incubo, scuote il sognatore dal di dentro, questi si sveglia di soprassalto, mettendo ugualmente fine al sogno. Quello che conta è che sia mantenuto il giusto equilibrio tra l’intensità dello scenario onirico, la tenuta dell’apparato psichico in cui si svolge e la realtà circostante.
In analisi il nostro apparato tecnico, che chiamiamo setting, è costituito rigorosamente per consentire all’analizzando di rappresentare il suo scenario interno. La posizione distesa, il silenzio, gli orari cadenzati, le condizioni climatiche possibilmente costanti, l’assenza dell’analista dal campo percettivo dell’analizzando, promuovono la spinta a rappresentare e a trasformare in linguaggio verbale il proprio flusso associativo. Ovviamente, se un elemento senso-percettivo traumatico improvvisamente incombe sulla scena, il processo suddetto si interrompe.
Immaginiamo per un attimo che nel solaio sovrastante la stanza di analisi degli operai facciano dei lavori che richiedano l’uso del martello pneumatico, o ancora che nel bel mezzo di una seduta qualcun’altro irrompa nella stanza d’analisi (o perché no, senza arrivare a questi eccessi che l’analista non stacchi la suoneria del telefono e risponda alle chiamate in arrivo). Le conseguenze di queste eventi sono facilmente immaginabili: il lavoro rappresentativo dell’analizzando non può che risultarne penalizzato.
Nel film sembra accada una cosa simile, le condizioni ideali per rappresentare, che dovrebbero essere garantite dalla tenuta dell’apparato strutturale, sono costantemente messe a rischio. Solo con grandi difficoltà si compie lo slittamento metaforico necessario e la rappresentazione finale, minacciata dalla realtà della guerra, non può comunque avvenire.
Leo sembra incarnare, costi quel che costi, la necessità di rappresentare comunque, sembra incarnare lo sforzo che lo psichismo deve compiere per sospendere temporaneamente il rapporto con la realtà e consentire la rappresentazione. Forse è per questo che, fino alla fine, non può dire che il regista bosniaco è morto, perché ciò imporrebbe la presa d’atto di una evidenza traumatica, (sempre minacciosamente incombente sulla compagnia), che impedirebbe definitivamente la messa in scena dell’opera, che pure raggiunge un suo compimento nelle prove generali.
In due momenti diversi le affermazioni di Luisella prima e di Turco poi sembrano fare da contrappunto agli sforzi di Leo. Luisella, a casa di Leo e di Diego, dice: “ma ti rendi conto che cosa significa portare il testo di Eschilo integrale a Sarajevo, una città in guerra, non è che vuoi semplicemente inseguire un tuo obbiettivo, non avendo riguardo per la realtà che stanno vivendo là” (è forse questa molla che spinge Luisella a lasciare la compagnia?). Turco alla fine del film sarcasticamente afferma “quelli volevano portare il teatro a Sarajevo, ma non si rendono conto che lì hanno bisogno di armi, non di teatro”.
Sulla base delle considerazioni proposte rigirerei le domande iniziali a Martone: mi piacerebbe sapere il suo parere sul perché l’idea della rappresentazione finale non arriva a destinazione, cosa significa per lui la morte del regista bosniaco e, a tal riguardo, come spiega il silenzio di Leo nei confronti della compagnia?
Thanopulos: Last but not least Mario Donadio.
Mario Donadio: Queste brevi note sono derivate in gran parte dalle discussioni del nostro piccolo gruppo sul cinema, su “Teatro di guerra”.
Almeno nelle mie (nostre) intenzioni queste note rappresentano un movimento, un percorso di avvicinamento e un tentativo di sintonia, in relazione a un film per certi versi ostico.
“Teatro di guerra” è uno dei films che ho finito per vedere più volte. Col tempo le mie impressioni si sono in parte modificate, ora mi sembra più riuscito di quanto pensassi.
Di questo percorso vorrei indicare alcuni aspetti del film che mi hanno interessato in tempi diversi.
Da un lato questa apertura, la porta che viene aperta tra il luogo del teatro e i vicoli dei quartieri spagnoli, una parte importante, significativa della città. Questa comunicazione avviene nei due sensi, bidirezionale. L’effetto, difficile da descrivere, conferisce significati aggiuntivi al teatro e all’azione teatrale, e alla città, come se questi due spazi, che a volte si confondono e vengono confusi, traessero l’uno dall’altro una forza particolare, vitale.
Un altro aspetto che mi ha interessato e incuriosito è l’ostinazione del regista, e di tutta la compagnia teatrale, a perseguire il proprio progetto in circostanze difficili da sembrare impossibili. Questa tenacia è una sorta di filo rosso, di continuità nella frammentazione. Per certi versi il film è la storia della lenta costruzione di un gruppo di lavoro tra persone con storie differenti, anche conflittuali, che la forza del progetto e dello stare insieme via via coinvolge e riunisce in un’articolazione temporanea e pregnante.
Con una certa ironia il regista sembra un moderno Eteocle che cerca di mantenere il timone di fronte ad avversità e circostanze, che pure non hanno, nella nostra attualità, niente di eccezionale, fin troppo ordinarie.
Un effetto del film è che ci ha spinti a rileggere “I sette contro Tebe”. Come Tebe e Serajevo, simboli di guerra fratricida, Napoli è una città sotto assedio, ma assediata da una realtà rumorosa confusa e violenta è anche la compagnia teatrale. Qui si coglie con chiarezza la funzione di legame tra i frammenti, di modello simbolico, di un classico, come “I sette contro Tebe”. Nel film ne percepiamo le atmosfere, vediamo e udiamo alcuni brani recitati del testo. E vengono in mente i modi con cui I. Calvino ha cercato di descrivere l’arcipelago dei classici, in particolare questa definizione: “E’ classico ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l’attualità più incompatibile fa da padrona”.
La compagnia teatrale è un microcosmo della città, ma anche una sua funzione psichica, una sorta – seguendo Bion – di gruppo di lavoro specializzato. Andare a Sarajevo si rivelerà una meta impossibile, ma questo progetto forse illusorio ha reso possibile la rappresentazione della tragedia. Come dice un poeta, R. Wilcock “per arrivare in qualche luogo bisogna trovare un passaggio e non fa niente se, scesi dalla vettura, si scopre che questa era un miraggio”. Anche noi speriamo che la possibilità di rappresentare, intesa come possibilità di immaginazione emotiva e di pensiero, di interpretazione della realtà e dei suoi conflitti, possa contribuire alla sopravvivenza e alla vita della città.
Una questione che vorrei porre a Martone riguarda invece un’impressione che ho sempre mantenuto del film, sia pure con intensità diverse. Mi sembra che “Teatro di guerra” sia soprattutto un film sulla guerra, lontana e prossima, sul teatro, su Napoli, un film di atmosfere, una storia, più storie. E’ questo che si ricorda soprattutto del film. Mi sembra invece che i personaggi abbiano un’intensità, una forza di iscrizione nello spettatore assai minore. Forzando un po’ la mano si potrebbe dire che sono presenze prevedibili, tipi più che persone: l’attrice giovane e rampante, il regista- attore affermato e trombone, la diva ecc.
Questi personaggi non prendono veramente vita, ma penso che vi sia stata una certa intenzionalità di Martone a profilarli quasi a una dimensione, e comunque potrebbe essere interessante sentire quale sia il pensiero dell’autore in merito.
Per finire vorrei sottolineare come nel vedere il film, nel discutere tra noi, ci siano apparsi – sopprattutto in certi momenti – sempre più chiari i contorni di una somiglianza tra il tema del film e alcune caratteristiche del lavoro analitico che quotidianamente apprendiamo. Anche il nostro lavoro si costituisce come uno scenario, uno spazio delimitato, variamente assediato da una realtà esterna e interna, rispetto a pressioni violente, spesso confuse e quasi anonime. Le relazioni che si costituiscono tra lo scenario analitico e il “fuori”, (che include l’inconscio) sono complesse. Deve costituirsi e tenere un confine fisico e psichico, una certa barriera con funzioni protettive, di cinta difensiva, ma che abbia pure qualità di filtro e di scambio. L’analisi, dice un analista contemporaneo, è una conversazione ai confini del sogno. In tal senso la funzione analitica cerca un intreccio tra il lavoro onirico, la rêverie, (dove la forza sensoriale delle immagini assorbe la violenza affettiva e pulsionale) e la capacità del linguaggio verbale di creare – scoprire – legami di senso e articolarli tra loro. Anche per noi, la costruzione di una coppia al lavoro con funzioni differenziate e condivise, è l’altra faccia di questa dimensione ai confini del sogno.
Thanopulos: Grazie ai colleghi per le loro concise e interessanti osservazioni e diamo la parola a Mario Martone.
Mario Martone: Innanzitutto vi ringrazio per aver pensato e consentito la proiezione di “Teatro di guerra”, questa è una ragione per cui ho accettato molto entusiasticamente di aderire a questa giornata. Anche vi ringrazio per averlo proiettato in pellicola. So che non è stato semplice prendere la copia ma è un film che non c’è ancora in dvd. Vi ringrazio perché “Teatro di guerra” è il film a cui tengo di più, per quel che vale il mio giudizio sui miei lavori, ma per quanto mi riguarda è il film più importante e ancorché meno conosciuto e meno visto quindi ogni occasione per proiettarlo per me è un’ occasione importante. Il fatto che voi l’abbiate analizzato e studiato con tanta attenzione come i vostri interventi rivelano è una cosa che mi fa molto piacere. In risposta a tutte queste domande molto interessanti, proverò a dire qualcosa di come il film è nato. Prima di questo, però, dovrei anche dire che è un film che si colloca in maniera particolare nella mia vita, raccogliendo tantissime cose e tantissime persone, tantissime esperienze, tantissimi luoghi di un intero percorso di vita. È un film narrativo, con una storia, poi ho fatto “Caravaggio ultimo tempo” però diciamo che non era un film. “Teatro di guerra” è l’ultimo film che ho fatto a Napoli, dei tre “Morte di un matematico napoletano”, “L’amore molesto” poi “Teatro di guerra”. “L’odore del sangue”, che ho fatto dopo, è ambientato a Roma e il film che sto scrivendo non ha a che fare con Napoli…insomma Napoli si allontana e io ormai ho la residenza a Roma, voto a Roma. Napoli è una città con cui comincio ad avere un rapporto sempre meno di presenza, è sempre più legata alla memoria e questo film è come se raccogliesse così tante cose ed esperienze. Così tante cose che erano successe prima e così tante cose che succederanno poi. Non ho invitato nessuna delle persone con cui ho fatto questo film allora, perché praticamente con nessuna di queste persone sono ancora in reale rapporto. È un film cerniera per me ed ha avuto una genesi complessa.
Prima Giuliana Tessitore parlava della mancanza, ecco il vuoto è un po’ il punto di partenza. Intanto il luogo del film, le tre città a cui faceva riferimento e cioè Napoli, Sarajevo e Tebe costituiscono lo spazio del film, non è infatti un film che ha che fare con Napoli e basta, cioè non è un film napoletano, è un film europeo. C’è un triangolo tra tre città che hanno a che fare tutte con l’Europa…perché poi la cultura greca, il pensiero greco e la tragedia greca fondano la nostra civiltà e naturalmente fondano anche l’Europa. Sarajevo che è la città dove non si arriva, ma che è la città a cui si fa riferimento e che è presente in tanti modi anche tutti reali. Il frammento della biblioteca di Sarajevo che l’amico di Leo manda al regista e che poi Leo porterà alla bibliotecaria è un vero frammento della biblioteca di Sarajevo. Io e Andrea Renzi, protagonista del film e interprete del personaggio di Leo, siamo stati a Sarajevo abbiamo incontrato tanti attori del luogo. C’è stato un lungo momento iniziale in cui nel film era previsto che Jasmin, l’attore bosniaco, arrivasse a Napoli, a un certo punto doveva irrompere Jasmin…va detto che dovevamo scrivere questo film con uno scrittore bosniaco che si chiama Miljenko Jergovic’, uno scrittore molto giovane, straordinario, il quale si era mostrato interessato all’idea. Ci eravamo incontrati lui stava a Zagabria ed era interessato, perché diceva che gli sembrava bello che si realizzasse un film che aveva a che fare con l’assedio di Sarajevo senza mostrarne nessuna immagine. Questo per me era un punto molto chiaro dall’inizio: fare un film in cui mai si sarebbe vista una sola immagine di Sarajevo. Nasceva questa come reazione a qualche cosa che accadeva in quegli anni e che secondo me ha molto a che fare con la nostra vita attuale: il fatto che mai nessuna guerra come quella della ex-Jugoslavia si era così tanto vista. Noi avevamo immagini quotidiane in televisione di ciò che accadeva nella ex-Jugoslavia. Una guerra così tanto vista, dall’altro lato era una guerra così poco capita. Mai non avevamo capito niente come nella guerra dell’ex-Jugoslavia. Rimane un bel buco nero nella nostra consapevolezza e conoscenza delle cose. È una guerra rispetto alla quale noi italiani siamo stati anche molto solidali, l’Italia è stata tra le nazioni che si è impegnata di più nella solidarietà nei confronti della ex-Jugoslavia, sapete che qui a Napoli abbiamo avuto De Luca che è salito sui camion a portare aiuti. Eppure era per me così forte la sensazione di vuoto totale nelle nostre conversazioni, a partire da me naturalmente.
Avevo la sensazione che tutti noi, parlando di questa guerra che era dall’altro lato dell’Adriatico, che era lì…i ragazzi di Sarajevo e di Belgrado sono identici ai nostri…l’abbiamo rimossa. Pure tanto vicino attraverso conversazioni o ideologiche o spiegazioni, era un continuo depistaggio. In realtà il nodo profondo di questa guerra, che cosa accadeva e perché era così paradossalmente nuova da un certo punto di vista in Europa e così antica, così barbaramente antica, come se tutti i nostri strumenti fossero saltati appunto le ideologie, era che non sapevamo nulla. Se si provava a chiedere a qualcuno la differenza tra i serbi e i serbi-bosniaci, che è una differenza essenziale per comprendere ciò che accadeva, nessuno sapeva niente. Ricordo di aver letto una frase che mi sembrava molto giusta, che hai tempi del Vietnam tutti conoscevano le carta geografica dell’Indocina, tutti sapevano i fiumi, le città. Ecco era questo senso di vuoto che la nostra capacità di afferrare con la mente, con delle posizioni che avessero un senso. Non mi sembrava il caso di fare un film sulla ex-Jugoslavia riprendendo le immagini della guerra, che non conoscevo e dove sarei andato a fare delle “cartoline”, come mi disse Miljenko Jergovic’. Lui mi disse: “Sono contento che tu pensi un film senza far vedere nulla di Sarajevo, Sarajevo oggi è una cartolina”.
Me lo diceva negli anni in cui era sotto la pressione più atroce. Mi sembrava che questo rapporto potesse provare a dire qualcosa di noi, e questo significa anche pensare la guerra non come qualcosa che appartiene agli altri, in guerra, ma anche a noi in pace. La guerra è un male endemico, è una cosa che quando le condizioni lo consentono viene fuori. Si è pensato, nel dopo guerra, mai più guerra, dopo la bomba atomica. Se non si è stati capaci, dopo la bomba atomica, dopo l’olocausto, di mantenere un impegno a due…se c’era dubbio, di prove del nove ne stiamo avendo tante, quindi la guerra è qualcosa che è dentro di noi, dentro le nostre vite, individuali, interiori, nelle nostre convivenze quotidiane, familiari, amicali, di lavoro etc. Appunto dicevo non sono più praticamente in rapporto con quasi nessuna delle persone con cui ho fatto questo film. La guerra dentro è una guerra potente, naturalmente nella piccola scala delle nostre vite, ma se si pensa a quanto la scala possa ingigantirsi…lo possiamo immaginare. Questo senso della guerra non immaginata come campo, come un altrove, ma come una cosa che è qui. Ed era lì. Perché questa guerra che era dall’altro lato dell’Adriatico, che noi non capivamo, è del tutto interiorizzata e se si pensa appunto come sono cambiati i tempi, si pensa come sono cambiate le vite. Questa frammentazione che lei diceva……sono andato a Sarajevo e ho incontrato un regista, Pasovic’, un bravo regista, a cui parlavo del mio progetto, e lui diceva un cosa che è una classica cosa che viene detta a noi registi italiani contemporanei: “Ma perché non fate un film come lo facevano i vostri maestri del dopoguerra? Perché prendete queste strade contorte? Perché non raccontate la realtà in maniera diretta, così come i vostri maestri sono stati capaci di fare in maniera così superba?”.
È difficile spiegare che quel modo diretto non è possibile più, dal momento in cui c’è una televisione che gioca con la realtà una partita così truccata. Perché oggi tutte le persone pensano di vedere la realtà in televisione, ma molto spesso non è vero. Non si tratta che di una rappresentazione… …molto spesso di pessime rappresentazioni. In questo modo la realtà sfugge sempre di più. La guerra della ex-jugoslavia è stata proprio quasi un punto di svolta da questo punto di vista: si pensava di vedere tanto, si vedeva tanto, invece non si capiva niente. Questa cosa sta cambiando e cambia non solamente la possibilità di costruzione di un film, di un’opera, di un racconto, di un quadro, ma cambia proprio nella vita, nei rapporti. La frammentazione…È sempre più difficile concepire la vita come un percorso, del resto questo è da un lato un bene da un altro un male. Una volta chi nasceva immaginava di avere davanti a sè un percorso abbastanza codificato, il matrimonio ect., adesso molto meno, la separazione è nella mente delle persone allo stesso modo dell’unione, sono due fattori che entreranno nella nostra vita in una maniera alternativa e dialettica, questo non accadeva prima. Non che non ci fossero separazioni, ma la separazione era un fatto traumatico, era una scelta enorme, di una vita, non aveva nulla dell’ ordinarietà che oggi ha una separazione nelle nostre vite. Questo frammenta, fa le nostre vite diverse da quelle dei nostri nonni……Mi sono perso naturalmente, è un film caotico, è inevitabile…… Quindi voglio dire che “Teatro di guerra” racconta tutte queste cose, racconta dei personaggi, naturalmente è un film collettivo, per rispondere alla domanda di Mario Donadio, quindi è chiaro che i personaggi non hanno una centralità. Però io credo, ho sempre pensato a questo film come a un film anche per certi versi Cechoviano, è una commedia, è una tragedia contenuta in una commedia. Ci sono delle vicende che appunto riguardano aspetti di vita: quella sentimentale, quella di un ragazzo che si droga, cose che appartengono alle vite…… per ritornare al primo intervento vorrei dire sul maschile e femminile che era una delle domande……sicuramente questo rapporto maschile-femminile è presente nel film, almeno nelle intenzioni lo era. Lo era sia nella messa in scena dei Sette contro Tebe (o dei Sette su Tebe, come dite……c’è anche i Sette verso Tebe, sono vari modi di interpretare quella congiunzione), lo era nel senso che nel testo, come avete avuto modo di leggere, era molto forte questo rapporto tra Eteocle e il coro delle donne.
Si sente proprio un diversa posizione di Eteocle, che eredita dal padre tutto il delirio razionale, che inguaia in quel modo il padre, e di conseguenza ricade anche tragicamente sul figlio, e che è naturalmente anche il grande sostegno della guerra, perché una guerra non può che essere sostenuta da un delirio razionale. Solo la ragione può sostenere delirando la guerra. Non credo che la guerra si fa irrazionalmente, la cosa terrificante è che si fa razionalmente, si fa dando delle ragioni che sono molto spesso le ragioni false e deliranti che conosciamo. Eteocle da questo punto di vista (poi il teatro greco ha questa grande capacità proprio di creare dei veri e proprio modelli umani) ne è l’assoluta rappresentazione, nel suo modo di essere il capitano che fonda sulla ragione la necessità della guerra, dall’altro lato c’è un coro di donne, che nello spettacolo prendeva la forma di Antigone, faceva un cambiamento, interveniva sul testo in questo modo, ma che invece si abbandonava alla paura. Aveva a che fare invece con le viscere, con la sensazione che era più difficile esprimere a parole la capacità di vedere in prospettiva quella che sarebbe stata la fine dello scontro tra i due fratelli. Questo rapporto maschile- femminile che nel testo è fortemente presente, che nello spettacolo abbiamo cercato di mettere in rilievo, credo che si riverberi concentricamente anche nella sua forma di commedia. Vorrei dire che i personaggi positivi di questo film sono le donne, anche se sono i personaggi che apparentemente sfuggono ai processi di buona volontà, che sono rappresentati da Leo, da Vittorio cioè dagli uomini che organizzano tutto questo e a cui danno delle buone ragioni. Le donne invece recalcitrano, sia Luisella Cielo con il suo carattere ambizioso che Sara Castaldi che è la grande attrice. Alla fine queste donne dicono e sostengono le cose più importanti, più vere e più profonde. Personalmente vorrei potermi riconoscere in loro, più che in Leo. Invece naturalmente è chiaro che Leo mi riguarda molto. Roberto Musella mi chiedeva perché Leo non dica della morte di Jasmin. È una risposta difficile. È evidente che nel film è centrale questa scelta narrativa, è chiaro che Jasmin doveva arrivare.
Miljenko Jergovic’, lo scrittore che io volevo coinvolgere doveva venire a vedere lo spettacolo. Noi abbiamo prima rappresentato lo spettacolo, abbiamo filmato le prove e in quel momento avevamo chiesto a Jergovic’ di venire a Napoli, di ritrovarsi nella posizione del personaggio di cui avrebbe dovuto scrivere, cioè arrivare a Napoli, conoscere la città, vedere questa rappresentazione, conoscere le persone, dopodiché scrivere. Va detto che il film è stato realizzato in due fasi: prima le prove, poi la sceneggiatura definitiva e le riprese del film. Jergovic’ non è venuto. Era continuamente atteso, arrivo domani, dopodomani, la settimana prossima, tra un mese, non è venuto mai. A un certo punto noi ci siamo trovati nella posizione che è quella che si vede nel film, cioè l’attesa. Non so perché non sia venuto. Ci siamo incontrati con Jergovic’ per vedere il film. Me ne ha parlato con molto amore, ma credo che sia stato giusto alla fine. Credo che lui abbia fatto sulla sceneggiatura la mossa giusta. Era giusto non venire, l’arrivo di Jasmin alla fine avrebbe certamente creato qualche cosa di posticcio. La verità è che Jasmin non è mai arrivato…questo ponte europeo è rimasto comunque.
De Luca è andato lì con i camion…non è mai arrivato un Jasmin, non c’è nulla di questo…lui in un certo senso ha fatto la cosa giusta…e quindi io mi sono trovato con un film che è cambiato. Questo personaggio non arrivava è da lì che è nato questo tema narrativo, cioè il fatto che Leo nasconde che Jasmin muore. Muore durante le prove e Leo non lo comunica agli altri. Non so dare una risposta univoca, so che era un punto importante e so che era un punto ambiguo. Ed era un punto importante proprio perché era ambiguo. Si può leggere in due modi: uno è quello della ambizione personale cioè Leo comunque conduce in porto un lavoro che ritiene importante per lui, probabilmente anche per la sua carriera; dall’altro lato però c’è anche un valore importante nel fatto che ad un certo punto lui ha comunque messo insieme così tante esperienze, così tante persone, così tante vite che per un certo tempo hanno alla fine trovato una lingua comune, come possibilità di entrare in relazione attraverso il teatro. Quindi di separare anche delle differenze, che dividono appunto l’attrice Sara Cataldi dal tossico o tutte le varie figure che sono nel film, e capire alla fine che non era tanto importante portare questo spettacolo a Sarajevo, ma averlo fatto questo spettacolo, far sì che queste persone abbiano potuto vivere un’ esperienza. C’è qualche cosa di positivo e qualche cosa di negativo, credo che ci sia un’ ambiguità. Io non la so sciogliere. Nel senso che l’affido agli spettatori, ogni film che faccio per me deve proseguire negli spettatori, in ciascuno nel modo in cui ciascuno ritiene. Mi fermo qui ci sono tante altre questioni.
Thanopulos: Sono stato io che a proporre questo film. L’ho proposto per tre motivi: in primo luogo è un gran bel film, questa è la quinta volta che lo vedo ed eguaglia il record, mio personale, insieme di “Per un dollaro d’onore” di Howard Hawks con John Wayne e Dean Martin e “L’uomo ombra” con Nick Powel e Myrna Loy .
Martone: Sono in ottima compagnia.
Thanopulos: Il guaio è che lo vedrei anche una sesta volta. Quindi prima per un piacere personale che volevo condividere. In secondo luogo perché penso che il tema della guerra fratricida trattato in “Sette su Tebe”, sia un tema molto attuale. Nel titolo greco il vocabolopuò “” può essere tradotto come “su”, “verso” “contro”, ma penso che sia preferibile “su”, mi piace l’idea dell’esercito che incombe, che è già su Tebe, come incombono questi temi dentro di noi. Ma in realtà, complice anche la televisione, che riflette, tuttavia, una nostra difficoltà di elaborazione interna, noi interiorizziamo per nascondere, per reprimere e tutto sommato per scotomizzare l’effetto degli accadimenti tragici sulla nostra vita. Il terzo motivo è questo: come segretario scientifico del centro napoletano di psicoanalisi mi interessa l’incontro con persone come Mario Martone, persone aperte e disponibili che hanno qualcosa da dire. Non per parlare di psicoanalisi in sé, ma per convergere o divergere su campi che interessano entrambi. In questo caso il campo si chiama Katharsis. Non mi sto riferendo, all’esperienza catartica come semplice purificazione, scarica, nel senso moderno del termine, ma nel senso aristotelico che è quello della trasformazione profonda interna a partire dal coinvolgimento con lo spettacolo tragico. Non dimentichiamo che il teatro tragico nell’antica città di Atene è in un contatto profondo con la città, diventa parte di essa. Vorrei concludere facendo un preciso riferimento al mio interesse per il film di Martone ma anche per il suo lavoro in generale. Nel suo “Encomio di Elena” il sofista Gorgia parlando delle emozioni che l’opera tragica suscita nello spettatore, propone qualcosa che va oltre ai sentimenti di (paura) e di (compassione) di cui ha parlato Aristotele più di mezzo secolo dopo. Gorgia parla di : “Un desiderio molto forte (brama) che ama il lutto”. Io penso che questa è la cifra del film “Teatro d guerra”.
Non so se i partecipanti alla discussione vogliono aggiungere qualcosa. L’orario ci consente di offrire la parola ai partecipanti del discorso. Noi andremo alla tavola rotonda per riprendere il dibattito, per far confluire film e discorso. Per cui l’emozione del film e della discussione del film ed il discorso sul conflitto della città nello stesso luogo pomeridiano.
Martone: Volevo dire che Sette su Tebe sarebbe stato il titolo forse giusto per Leo, perché sapete come era l’assedio a Sarajevo. Questo avveniva perché Sarajevo è una città piccola con un centro piccolo, circondato da colline, questo rendeva tecnicamente possibile l’assedio nel senso che i serbo-bosniaci erano appostati sulle colline e quindi erano di fatto “su”, non ci avevo mai pensato, ci si sarebbe potuto lavorare.
Musella: La risposta che ha dato Martone alla mia domanda mi ha fatto riflettere su una cosa. La sua duplice risposta: da una parte Leo lo fa per se stesso, da un’altra per tenere insieme gli attori. Sono due facce della stessa medaglia, perché in qualche modo quest’operazione crea un legame, che sia un legame intrapsichico oppure un legame libidico di un gruppo. Per cui lui non deve dire. Trattiene per creare un legame dentro di lui che gli consente di portare a termine la rappresentazione, e agli attori consente di tenere insieme gli oggetti diversi delle varie persone. Per cui la risposta mi ha convinto parecchio.
Tessitore: Ci sono due punti che volevo riprendere. Il primo è sull’esperienza del gruppo. Lei ci diceva poc’anzi che non è più in “rapporto reale” con quasi nessuna delle persone con cui ha fatto questo film e quindi le chiedo: come e se ha influito internamente questa esperienza riportata nel film, di avvicinare la guerra fuori e dentro, a realizzare una difficoltà ad incontrarsi nella realtà, se il gruppo dell’esperienza sia stato infettato e diciamo non sia guarito e abbia portato con sé una virulenza anche fuori, nella realtà.
Il secondo punto, è legato in qualche modo anche al primo e riguarda la funzione della Katharsis. Riallacciandomi a quello che Sarantis poc’anzi diceva, cito dalla Poetica di Aristotele:
“la tragedia è imitazione (mimesi) di azione (praxis) grave e compiuta, di una determinata estensione (temporale) dovuta ad attori: per mezzo della compassione e del timore ( fobia) ottiene la purificazione, che è opera di tal genere di passioni”.
Donadio: Volevo aggiungere qualcosa. Sentendo l’intervento di Martone, che ringrazio molto perché molto chiaro, mi è venuto in mente il problema dell’altro da te e dell’altrove della guerra. Un film “Privat” di Costanz, molto bello, è un film sul conflitto Israelo-Palestinese. Martone me l’ha fatto capire meglio. È un film ambientato in una casa che per giunta è in un territorio fuori della Palestina, fatto dalle parti nostre nel Meridione d’Italia. Perché Costanz ha ambientato questo dramma questo spaventoso conflitto in una casa privata, non vediamo mai la guerra in Palestina, che vediamo tante volte nel telegiornale, ma lo vediamo in quest’ambienta quasi teatrale, direi teatrale perché è quasi sempre nello stesso ambito che è una casa. Questo stratagemma, questa scelta ci permette di vedere più profondamente, ci spiazza dai luoghi comuni il dramma di questa situazione, i conflitti interni ed anche la straordinaria forza espressiva, latente in questa situazione. Una seconda cosa che volevo dire è breve. Parte dalla discussione, ma anche dalla lettura di alcun testi di Martone sul tema. Un piccolo libro che parla delle peripezie di questo Teatro di guerra, il diario è molto bello, il suo viaggio a Sarajevo in cerca dell’attore bosniaco, e quest’attore non si trovava. Quando va là registra un forte sospetto sulla volontà di rappresentare qualcosa che ha a che fare con Sarajevo. Le persone sono molto diffidenti, tutti si sono precipitati su Sarajevo ma tutti sono diffidenti e ci sono delle cose molto belle, loro dicono: l’attore bosniaco deve essere un attore che è stato a Sarajevo durante gli eventi, che ha vissuto gli eventi. Questi eventi tragici, singolari ed emblematici. È segnato per sempre è come se avesse avuto un virus che lo ha contagiato per sempre e la cosa terribile è che sente di non poterne parlare ad alcuno, perché in qualche modo sente questo elemento di solitudine potente. Perché quest’esperienza è traumatica, difficile da raccontare e raccontare ad altri che non ne siano stati contagiati. Questo mi pare un punto bello che si risente nel film di Martone.
Siamo tutti contagiati, dobbiamo scoprire questo contagio, ci sono esperienze che mettono in luce questo contagio. In fondo anche nel lavoro analitico c’è un contagio. L’analista si contagia del malessere del paziente ed insieme cercano di darne una rappresentazione che non è mai completa è sempre in qualche modo un po’ illusoria, frammentaria e questo percorso è fondativo o almeno speriamo che sia così.
Il film e il dibattito del mattino faranno da motore affettivo e verranno ripresi più volte nella tavola rotonda del pomeriggio.
1 febbraio 2006