Autore: Luca Caldironi
Titolo: Il terzo tempo
Dati sul film: regia di Enrico Maria Artale, Italia, 2013, 96 min.
“Il Terzo tempo” è una opera prima che nasce come saggio di diploma – presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma – del regista Enrico Maria Artale, in concorso nella sezione ‘Orizzonti’ della Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia.
La visione di questo film mi ha mosso una fiorente costellazione associativa di pensieri e di emozioni. Forse l’età del regista, quando ha iniziato a girarlo era solo venticinquenne; forse l’apparente ‘scontatezza’ del tema trattato, l’adolescenza; o forse il Rugby come sport di squadra. Non saprei, ma a volte ci emozionano di più le canzoni d’amore dei testi criptici o complessi. E’ proprio questo che ho avvertito assistendo al film. Il suo alto potere comunicativo, condito da una regia autoriale che riesce a dare tonalità peculiari, spazi per l’identificazione dello spettatore.
Ne ripercorro la trama. L’inquadratura inizia nelle stanze di un riformatorio in cui il protagonista Samuel (un giovanissimo e bravo Lorenzo Richelmy) attende, assieme al giudice, l’arrivo dell’assistente sociale che lo accompagnerà nel percorso riabilitativo fuori dalla struttura. Da subito appare chiaro come il giovane Samuel stia vivendo sulla sottile linea del crinale da cui si intravvedono, nello stesso tempo, opportunità e tragici fallimenti. Il ragazzo non è un criminale efferato, né un pentito da proteggere dopo dissociazioni dalla malavita organizzata, ma un ragazzo come tanti. Una storia familiare pesante e una vita allo sbando, micro crimini e un futuro incerto. Anche questo dato differenzia il film da altri più epici e trasferisce il protagonista in una dimensione più umana e comune che, assieme alle difficoltà e fragilità che anche l’ assistente sociale sta vivendo, delinea i chiaro-scuri che attraversano l’animo umano, le fragilità, le debolezze e la possibilità di riscatto.
La sensazione che ci accompagna in tutta la storia è di fiduciosa attesa. Ecco cosa rende questo film meno scontato di quello che potrebbe sembrare all’inizio. E’ un flusso attraversato da diverse correnti e non si sa mai quella che avrà la meglio. Una strada che incrocia tante Y che possono portare a destini diversi. Ce la farà Samuel a continuare il percorso? Resisterà alla frustrazione e al richiamo del passato? In tutto questo si viene a inscrivere il rapporto con il Rugby, dove “ non ci sono regole, ma leggi”. Il Rugby fa da sfondo alla vicenda umana di cadute e del potersi rialzare. L’assistente sociale, (Vincenzo, un sofferto Stefano Cassetti), trasferisce su Samuel, attraverso la passione per questo sport, il proprio bisogno di riscatto.
Samuel diviene strumento per una doppia possibilità, la propria e quella dell’altro (l’ assistente sociale). Si viene a creare uno spazio di apertura per un terzo, un “terzo tempo” appunto. Da un Samuel che esce dal riformatorio con lo sguardo, per così dire, ‘piatto’, uno sguardo che fatica a riconoscere l’altro, in cui il potere di interlocuzione viene per lo più agito piuttosto che pensato, si inizia a configurare un individuo che ha uno spazio per pensare. L’operazione del pensare è dolorosa, e la vita non fa sconti. A questo punto diviene importante il gioco di squadra. Tutti i personaggi, ognuno a modo suo, sono co-partecipi nel favorire l’evoluzione della situazione in gioco. Samuel diviene simbolo di questa possibilità e sembra avvertirne il peso e la responsabilità. Che sia questo peso che gli fa perdere ripetutamente il treno per Roma – un treno che lo avrebbe riportato alle situazioni del passato – e che gli consente, invece, di prendere l’autobus per lo stadio del piccolo borgo dove si andrà a giocare la partita?
Non è questa “la” partita della vita, ma “una” delle partite della vita, carica di alto valore simbolico. Così come nel Rugby si può andare avanti solo passando la palla ai compagni che stanno più in dietro, anche nel caso di Samuel ognuno deve fare un passo indietro per poter andare avanti.
Samuel sperimenterà che la sua aggressività non è necessariamente qualcosa di cattivo, e che la rabbia, che gli ha fatto danneggiare la fattoria facendo scappare un toro custodito e venerato da tutti, è la stessa che gli ha consentito di rimettere in circolo la propria forza vitale. Come nell’episodio del toro, la forza vitale non può essere costretta dentro un recinto, neppure vagare pericolosamente allo stato brado (se il toro viene trovato dovrà essere abbattuto), ma se, invece, è incanalata nel rispetto e nel riconoscimento dell’altro diviene un motore formidabile.
Mi piace concludere con l’ultima immagine dove compare, quasi in modo surreale, il toro che Samuel aveva fatto fuggire. Appare come figura mitologica, una sembianza minoica.
Testimone irriverente di quella quota irriducibile di selvaticità della vita, la quota che si pone come garante e testimone della parte non addomesticabile del mondo.