Di Angus MaclLachlan
Stati Uniti, 2014
Benchè curiosamente il titolo sia identico all’autobiografia, anche tradotta in italiano nel 2005, del poeta e scrittore inglese Robert Graves, uscita in una prima edizione nel 1929, il piccolo film di MasLachan (noto sceneggiatore americano qui alla sua prima regia) non ha nulla a che vedere col libro. Ma resta un titolo adatto a questa commedia agrodolce, non certo la migliore del Festival (ma frequentatissima, quasi più di altri più meritevoli film), il cui senso è appunto quello di dover lasciare tutto, dire addio a quello che si ha, la vita apparentemente costruita fino ad un certo punto e che si crede sicura e incrollabile, quando si scopre che non è così. Tutto crolla, improvvisamente.
Il nucleo narrativo di Goodbay to all that è simile dunque a quello di molti film contemporanei: un uomo, Otto Walls, ha un lavoro, quella che crede una bella famiglia con moglie e bambina di 9 anni, certezze piccole ma solide, e un giorno si sente dire che la moglie chiede il divorzio, deve andarsene di casa, vedrà la bimba in tempi stabiliti: è già tutto deciso. Ciò che ne fa, a mio avviso, un elemento piuttosto originale (benchè, purtroppo, non del tutto ben sviluppato) è appunto che si tratti di uomo: protagoniste di queste vicende, abbandoni repentini cui deve seguire una lenta, dolorosa ristrutturazione del sé dopo una prima fase d’iniziale smarrimento, sono in genere le donne, se protagoniste principali. Qui l’obiettivo è esclusivamente puntato su Otto (l’attore Paul Schneider, molto amato in America e più noto come caratterista dal pubblico italiano), un uomo mediocre, un po’ ingenuo e pasticcione, un”imbranato”, per dirla con parole semplici, di quelli che possono far innamorare una donna, intenerirla, ma alla lunga la deludono.Dev’essere stato il percorso emotivo di Annie, la giovane moglie infermiera, di cui Otto, placido nel suo tran tran nei boschi del North Carolina, sembra non capire, non intuire nulla. Annie non dà spiegazioni alla decisione del divorzio, ma in un litigio non le sfugge di recriminare che “una donna ha bisogno di sentirsi amata e conosciuta”. Otto fa parte di quegli uomini amorevoli, sia con Annie che con la piccola Eve cui è molto legato, affettuosi e capaci di voler bene, ma che sembrano davvero privi di percezione, d’intuizione psicologica, per cui l’abbandono è un fulmine a ciel sereno che lo lascia assolutamente smarrito. E’ appunto questo smarrimento maschile, questa totale confusione che lo porta, sulle prime, ad agire impulsivamente, con una specie di autolesionismo senza pensiero, il punto centrale, e in qualche modo originale, del film.
Otto si tuffa su facebook, alla ricerca compulsiva (e vendicativa, scoperto che Annie aveva un altro uomo) di donne con cui condividere una notte di sesso sfrenato, che in genere non rivedrà più, attraenti e problematiche, perdendo quasi il controllo, tanto che la bimba, che lo scruta con sguardo serio e intelligente, se ne accorge e non vuole più andare da lui, perché “non è un posto sicuro”. Sarà la decisione di Eve, una sorta di richiamo alla realtà, alla responsabilità, nonché il vuoto perpetuo lasciato da questo genere d’incontri, a riportare Otto su quella ristrutturazione di sé, di cui dicevo all’inizio, che passa appunto attraverso il rapporto con la bambina. Tutto questo è accennato, lasciando il film più spazio (a mio avviso, infelicemente) alla parte iniziale degli incontri, di facebook e i pochi amici con cui può parlare come infruttuose ricerche di risposte, in bilico tra la commedia divertente e il registro drammatico, senza orientarsi defintivamente in nessuno dei due. Peccato. Un’occasione un po’ sprecata su quella che è, originariamente, una buona idea: lo smarrimento dell’uomo contemporaneo di fronte alle scelte femminili, al cambiamento della donna, alla sua crescente consapevolezza di fronte a un maschile, e quindi a un paterno (ne dibattiamo ormai quotidianamente, in psicoanalisi e non solo) debole e inconsistente, più che assente fisicamente.
Ancora un film sulla necessità di fare lutti, di dire addio a ciò che si ha, che si crede di avere, nella presuntuosa e stolida routine del quotidiano; ma, ancora, un film sulla trasformazione, sulla possibilità di cambiare come non solo unica modalità di salvarsi la vita, ma anche occasione di crescita, di quell’evoluzione che forse le troppe certezze, le troppe sicurezze, finiscono con l’occludere.
Un piccolo film non imperdibile, a differenza di quelli finora segnalati (pochi, purtroppo, siamo alla coda del Festival) che potrebbe arrivare nelle nostre sale, che stenta come detto a trovare una sua cifra narrativa, ma per che per essere visto – mi piace segnalarlo – i newyorkesi che sono la stragrande maggioranza del pubblico del Tribeca e me compresa, hanno fatto un’ora di coda sotto la pioggia, in un’infelice giornata fredda, in cui tutto si sarebbe voluto fuorchè fare una coda, oltretutto dagli esiti incerti, sotto l’ombrello, tra le transenne.
Perché lo rimarco? Perché è l’amore per il cinema, non tanto per quel film o quell’altro, nei Festival si va necessariamente al buio, non abbiamo la facile critica che indirizza, ma è l’amore per il cinema a renderci come tutti amici, parte di una grande famiglia in grado di sopportare (lo scrissi già per Venezia) disagi che diversamente mi parrebbero assurdi. E come a Venezia, la facilità con cui nelle code e nelle attese si parla, si condivide, si discute. Di cosa? Di cinema, cinema, questo sogno diurno che ci porta, come il nostro professore iniziale ma nella magia di un’ora e mezzo, fuori dal nostro reale, pur restando nella realtà.
“Non è necessario essere folli per fare del cinema. Ma aiuta molto.”
Samuel Goldwyn