Di Tatti Sanguineti, Documentario, Italia – Venezia Classici
Commento di Rossella Valdrè
Aspetto certamente meno noto del divo Giulio questo presentato, direi quasi celebrato nel bel documentario di Tatti Sanguineti, che dopo cinque anni è riuscito a portare finalmente a Venezia il suo Andreotti: più che il cinema, è l’uomo visto dal cinema. Nell’immaginario collettivo italiano, soprattutto dei meno giovani, il nome di Andreotti non è certo associato alla magia, al sogno e alla fantasia del cinema; eroe dell’equilibrio e del compromesso, sempre contenuto, e astuto, macchiato da infamanti accuse di legami con la mafia, il politico che più a lungo ha segnato la storia politica italiana, appare qui in un altro dei suoi multiformi aspetti. Benché ridotto rispetto alla versione ‘extended’ che aveva in mente Sanguineti (ma che uscirà in dvd e credo varrebbe la pena vedere) la lunga conversazione che l’Autore ebbe con l’allora senatore Andreotti, prima della morte, riguardo al suo rapporto con il cinema italiano, inframmezzata da materiali di repertorio e brani di film, ci fornisce un ritratto che non tradisce il ricordo (oggi, paradossalmente quasi compianto!) dell’intelligenza e lungimiranza andreottiana.
E’ Sanguineti stesso, presente in sala, a presentare un lavoro cui sembra tenere molto; e si comprende, vedendo il documentario, che da tanta conversazione non possa che essere nata simpatia per l’ormai anziano senatore, la sua memoria ricca di aneddoti, le risposte pacate, il gusto per la vita. Un tentativo di riabilitazione, verso un personaggio che, pur con tutte le sue ambiguità e contraddizioni, fece molto per il cinema italiano, affossato com’era dalle macerie del dopoguerra. La stessa presenza al Lido, ricorda l’Autore, fu merito di Andreotti. Come nasce il documentario? Fu l’ex comandante partigiano Rodolfo Sonego a dire a Sanguineti che se avesse voluto capire davvero cosa fosse successo negli anni del secondo dopoguerra in campo cinematografico, avrebbe dovuto parlare con Andreotti. Insieme all’accompagnatore Pier Luigi Raffaelli, i due trovarono un Andreotti piacevolmente coinvolto e disponibile all’argomento, e registrarono così le conversazioni col senatore, accertandosi che tutto fosse precisamente documentato e verificato. Come ha scritto lo stesso Tatti: se qualche pezza d’appoggio mancava, la si cercava per l’incontro successivo. Un curioso dettaglio, fisico e immancabilmente psicologico: poiché non se la sentirono di chiedergli di presentarsi a ogni seduta con lo stesso abito, il risultato fu che documentario (quello in versione intera, non la parte vista oggi) finisce così per presentarci un Andreotti vestito in 21 modi differenti.
Sotto la piega del volto imperturbabile, è la prima sollecitazione che mi ha mosso il documentario (genere, devo dire, che io adoro e di cui vado a caccia come un segugio, ma che quasi solo ai festival, in televisione, si ha la ventura di incontrare), quanti Andreotti esistevano? Quante anime, passioni, inclinazioni? Una certa narrativa ‘popolare’, che poi finisce per non disgiungersi mai dalla reale storia politica e sociale, ha forse appiattito il personaggio (come apparve ne Il divo di Sorrentino, maschera caricaturale) in un’immagine monodimensionale, secondo i criteri estetici anche del tempo, dello stile della Democrazia Cristiana e della cosiddetta Prima Repubblica, ma il documentario ha il merito di aiutarci a recuperare, almeno in parte, la persona a discapito del personaggio, l’intelligenza viva, lo sguardo sul mondo in luogo della maschera.
Non a caso Andreotti racconta di avere amato molto, da vederlo tre volte, Dr. Jeckill e Mr. Hyde: vi si è riconosciuto! Convivono in Andreotti, per quanto riguarda il cinema, due anime scisse, assai poco conciliabili: l’amante dei film, e il censore.
“Per quanto io fossi preda di un profondo dualismo, le due nature in me coesistevano in perfetta buona fede, ed ero ugualmente me stesso sia quando, sciolto ogni freno, ero immerso nella vergogna, sia quando mi affaticavo a lavorare per il progresso della scienza o per dare sollievo al dolore e alla sofferenza”.
(R.L. Stevenson, Lo strano caso del Dr. Jeckill e Mr Hyde)
Sanguineti però in parte ribalta il tavolo che vuole Andreotti solo censore, ‘nemico del cinema’: vero è che vi è la sua firma di una serie di film tagliati (a rivederli oggi, ridicolmente tagliati), ma non furono poi tanti, la decisione va collocata nel contesto complessivo di un’epoca, insomma la parte del censore fu amplificata. Di fatto, essa si radica nella mente dei cinefili dopo i tagli a Umberto D., ultimo capolavoro neorealista, di De Sica del ’52, cosa che evidentemente non gli venne perdonata. Come a dire: un conto è tagliare su un filmetto, un conto è su un capolavoro.
Vediamo un po’ di Storia. Giovanissimo sottosegretario con delega allo spettacolo quasi per caso dal ’47 al ‘53, nemmeno trentenne, Andreotti fu il primo politico italiano a intuire l’importanza del cinema, per l’economia come per la cultura. E se, da un lato fece di tutto per non lasciarlo in mano alle sinistre, largamente egemoni durante la ricostruzione e il boom, dall’altro ne favorì il rilancio industriale; si può dire che in questo caso, l’arte del compromesso che lo caratterizzava, il gioco di continuo bilanciamento ed equilibrio, fu la fortuna del nostro cinema. Andreotti tesse la sua tela di alleanze e varò una legge fondamentale, nel ’49, che frenava l’invasione di film americani che avrebbero saturato il mercato, finanziando anzi i film italiani con la tassa sul doppiaggio e diverse altre manovre. In bilico tra il pericolo comunista e il suo deciso desiderio di assecondare la Chiesa e la cultura cattolica in generale (cosa di cui Andreotti va fiero, un vero luogo identitario), si è barcamenato, come si dice, a quanto emerge dal documento, come meglio non si poteva. Assai più rigido e severo (cosa che non sapevo) fu ad esempio tra i suoi successori democristiani, Oscar Luigi Scalfaro.
Col sottosegretariato Andreotti nasce e può crescere così una nuova generazione di produttori, aprono 4000 sale parrocchiali (meglio che niente…), attente alla scelta dei film e dunque destinate a influenzare gusti e umori di milioni di spettatori. La censura era soprattutto attenta da un lato, a non dare all’estero del nostro Paese un’idea troppo miserrima (ad esempio il taglio delle proteste sociali dei pensionati in Umberto D.), questa la chiamerei più propriamente propaganda, dall’altro a non diffondere troppo facili costumi nelle abitudini sessuali, l’idea della donna come puro oggetto, le prese in giro alla Chiesa (ridicoli aggiustamenti su Peppone e Don Camillo). All’occhio di Andreotti e del suo partito, gli interventi di allora furono giustificati “dal clima del tempo”, frase più volta ripetuta: lo chiedeva la ragion di Stato, quell’italietta che andava ingenua e fiduciosa verso il boom economico e che avrebbe affrontato la famosa ‘mutazione antropologica’ (aggiungo io) senza strumenti culturali. Ha ragione Andreotti non certo a censire, ma a porsi il problema dell’educazione di un popolo in parte ancora analfabeta, dunque pronto ad assorbire supinamente qualunque stimolo esterno. E il cinema (siamo in epoca pre-internet) è lo strumento più potente.
Perché il cinema, non dimentichiamo, narra la realtà, è pasolinianamente la sua ‘lingua parlata’ e ‘non c’è film che possa dirsi buono se in esso non passa un po’ di realtà’ (Pasolini, 1975). Strumento dunque potentissimo (come fu in precedenza la radio e sarà poi la rete) se non per forgiare per orientare le coscienze, i gusti, i costumi di un popolo. Tutto questo, Andreotti lo comprese. Detto così sembra una strumentalizzazione solo negativa, a fini politici su masse incolte e manipolabili: ma è più composito l’interesse del senatore al cinema. Ne comprende il potere sull’immaginario collettivo, ne fa uno degli strumenti di coesione politica e sociale, in un Paese ancora fortemente regionalizzato e post-bellico. Del capitolo dedicato alle discusse censure, segnalo: la cordata cattocomunista (da Diego Fabbri a Zavattini), il cinema antifamigliare ed erotico, le edulcorazioni come nel già citato splendido Umberto D. dove la servetta viene messa incinta da un soldato di leva e non da un carabiniere, mentre il pensionato non scrive più “Merda!” sul muro di casa, Lattuada rinuncia al suo Miss Italia, e altre sforbiciate ancora; ma tutte queste ‘epurazioni’ senza alzare i toni o eccedere.
Abile amministratore di se stesso, Andreotti si giustifica sempre: bisogna calarsi nel tempo. E, francamente, non ha torto. Tutto, storicamente, va contestualizzato. Se da un lato l’arte è eterna (e, infatti, i capolavori sono poi sopravvissuti restituiti nella loro integrità come Umberto D. e Ultimo tango a Parigi, altro che fu edulcorato), dall’altro momenti storici fragili e caotici, di lotta interna anche sanguinaria tra diverse fazioni politiche possono, sebbene a torto, far meglio comprendere le pressioni da più parti cui era soggetto il giovane sottosegretario.
Ma torniamo all’uomo, l’uomo inedito che Sanguineti ha affettuosamente seguito: diviso in più anime, complesso e ironico, soprattutto, lui stesso amava il cinema, non basterebbero le ragioni politiche, sennò, a spiegare tanto impegno. ‘è sempre, al fondo delle nostre lotte, dei nostri impegni anche più mascherati dall’opportunità, un cuore che batte. Ciò mi è sufficiente a rendermelo un pochino simpatico…vedeva film fin da bambino, in seguito non abbandonò mai quest’abitudine, anche finito il suo sottosegretariato e nel poco tempo libero che gli restava (immagino, selezionando i film secondo la sua ‘morale’ cattolica’.
Insomma, l’idea forte, e innovativa che emerge dal documento, è che il cinema va aiutato: non è arte marginale, non deve essere legata alla crisi, ma lo Stato stesso deve contribuire perché il cinema lavora internamente – come scrive Evélyne Séchaud riguardo alla cultura in generale – più di quanto non si percepisca coscientemente, nel profondo di noi tutti.
Sarebbe, anni dopo, fosse successo comunque, aggiunge un po’ compiaciuto Andreotti, ma intanto in quegli anni “l’ho fatto io”.
Curiosa situazione per un personaggio tanto discutibile e discusso: ci tocca quasi ringraziarlo…
“ll cinema per la sua esistenziale necessità di ricerca, di denuncia, di novità e di rinnovamento… e per la sua caratteristica irrinunciabile di spettacolo di massa… è per sua natura socialista in senso lato.”
(Alfredo Bini, corsivo mio)