"SCREEN MEMORIES FROM EASTEN EUROPE" LONDRA, 29 OTTOBRE-1 NOVEMBRE 2009
Elisabetta Marchiori
…ma una storia non dura che nella cenere
e persistenza è solo l’estinzione.
Giusto era il segno: chi l’ha ravvisato
non può fallire nel ritrovarti.
Ognuno riconosce i suoi: l’orgoglio
Non era fuga, l’umiltà non era
vile, il tenue bagliore strofinato
laggiù non era quello di un fiammifero.
Eugenio Montale (Piccolo testamento, 1953)
Andrea Sabbadini ha voluto dedicare la quinta edizione del Festival Europeo di Cinema e Psicoanalisi al cinema dell’Europa dell’Est. Una scelta difficile e coraggiosa, data la complessità delle implicazioni sociali, politiche e culturali radicate in queste opere.
Hanno partecipato diversi colleghi italiani: Paola Golinelli, chair di un panel, Pietro Roberto Goisis, Massimo De Mari, Marco Conci e Roberto Basile. Li ringrazio tutti, in particolare Paola Golinelli, per aver contribuito ha rendere più completo questo report.
Ricordo subito che al collega Basile è stata dedicata un’esposizione delle sue foto dal titolo "Where the words stretch out". In questi scatti ci sono braccioli di poltrone che dialogano con la testata del lettino, maschere africane sdraiate al posto dei pazienti, bamboo che crescono dietro lettini metallici, occhiali, farfalle e cactus che guardano "dove le parole si distendono". Basile, coniugando la sua esperienza analitica con quella di fotografo, ha dato luce a immagini in cui studi psicoanalitici, veri o inventati, permettono di trasmettere con grande intensità aspetti dell’esperienza psicoanalitica.
Dopo il consueto buffet durante il quale molti dei partecipanti si sono potuti incontrare e spesso riconoscere, Michael Brearley, Presidente della BPS (noto per essere capitano della Nazionale di Cricket) ha dato il benvenuto e Andrea Sabbadini ha introdotto il Festival, ribadendo quello che è l’obbiettivo fondamentale di questo evento: il dialogo tra la cultura psicoanalitica e quella cinematografica. Non esistono, infatti, "film psicoanalitic", ma produzioni cinematografiche che possono sviluppare un pensiero psicoanalitico. In questa prospettiva ha introdotto una novità significativa, ovvero alcuni workshops dedicati specificamente a temi riguardanti il mondo della cinematografia.
Il pubblico ha quindi potuto assistere alla proiezione di due film di animazione di Aleksandr Petrov The cow (Russia 1999) e The old man and the sea (Russia, 1999), che lo hanno trasportato nel mondo magico ed onirico di questo artista straordinario. Clare Kitson, esperta di cinema di animazione, ha offerto una panoramica storica del cinema di animazione russo, concentrandosi in particolare sull’opera di Petrov, artista di fama mondiale.
Ecco il programma delle giornate successive.
Venerdì 30 ottobre
Film: A wonderful night in split (Ta divna splitska noc, Arsen Ostoij, Croatia 2004, 100 min).
Discussion: Paola Golinelli (Chair), Arsen Ostoijc, Stanislav Matačić
Film: Jasminum (Jan Jakub Kolski, Polonia, 2006, 115 min)
Discussion: Krzysztof Fijalkowsi (chair), Ewa Mazierska, Danuta Golec
Film: Simple Things (Aleksei Popogrebsky, Russia 2007, 110 min)
Discussion: Igor Kadirov (chair), Aleksei Popogrebsky, Ian Cristie
Workshop: Film editing and working trought. Donald Campbell (chair), Asher Tlalim, Jonathan Sklar
Panel: Animated Dostoevsky- Sreen and discussion of the dream of a ridiculous man (Aleksandr Petrov 1992, 20 min). Katia Golynkina (chair), Aleksandr Petrov, Helen Taylor Robinson.
Panel: Screening desire: Bertolucci’s Il conformista (1970) and Ultimo tango a Parigi (1972). Fabien Gerard (chair), Bernardo Bertolucci, Bruce Skarew, Esther Rashkin
Workshop: The producers. Catey Sexton (chair), Simon Chinn, Irma Brenman Pick
Film British Classic: Brief encounter (David Lean, UK 1945, 86 min)
Sabato 31 ottobre
Film: Elevator (George Dorobantu, Romania 2008, 85 min).
Discussion: Gabriella Masacci (chair), Gabriel Pintilei, Michael Brearley.
Film: Own death (Péter Forgács, Ungheria 2008, 118 min).
Discussion: Ildikó Takaks (chair), Péter Forgács, Catherine Portuges
Film: Somnambul (Suley Keedus, Estonia 2003, 129 min)
Discussion: Kari Tuhkanen (chair), Karlo Funk, Camilla Bargum
Workshop: Film censorship. To cut or not to cut? Sergei Grachev (chair), Maggie Mills, Carole Topolsky.
Panel: Inner conflict and emozional Pain. A psychoanalitic view of Brief encounter. Peter Evans (chair) Charles Drazin, Andrea Sabbadini.
Panel: Faith and faithlessness. The role of erotic imagination in Faithless (Liv Ulmann, Svezia 2006) and Love (Karol Makk, Ungheria, 1971). David Bell (chair), Diana Diamond, Lissa Weinstein.
Domenica 1 novembre
Film and psychoanalysis in Turkey
Animated shorts from Easten Europe
Institute of dream (Mati Kütt, Estonia 2006, 10 min)
Le carneval des animaux (Michaela Pavlátová, Repubblica Ceca 2005, 9 min)
The dress (Girlin Bassovskaja, Estonia 2007, 6 min)
Plenary discussion. Co-chaired by Laura Mulvay e Andrea Sabbadini, conclusione.
Il film in bianco e nero A wonderful night in split miglior opera prima all’ultimo Festival di Pola, è considerato il film croato più riuscito degli ultimi cinque anni. Mancano due ore a mezzanotte e tra le stradine buie e deserte del ghetto medioevale di Spalato si intrecciano tre storie d’amore, mentre in piazza il capodanno si festeggia con un concerto e fuochi d’artificio. I protagonisti, in parte attori non professionisti, sono Nick, piccolo spacciatore di droga, che ha appena lasciato la sua ragazza Maria, vedova di guerra con un figlio a carico, per contrabbandare eroina; Maja, una giovane tossicodipendente in crisi di astinenza, venduta dal suo spacciatore magnaccia a Franky, un marinaio americano depresso; due adolescenti, Luke e Angela, che si preparano alla loro prima notte insieme assumendo LSD. I personaggi si incontrano casualmente, mentre non appare casuale l’incapacità che li contraddistingue tutti di vivere i propri sentimenti e di cambiare la propria drammatica situazione personale. Il labirinto di vicoli petrosi, scuri e claustrofobici di Spalato diventa la metafora spaziale del labirinto della dipendenza sia da sostanze e sia psicologica che impedisce un incontro autentico tra Sé e l’Altro.
La proiezione del film ha attratto molti colleghi che hanno poi seguito la presentazione di Stanislav Matačić psicoanalista dello Study Group croato e la discussione, condotta da Paola Golinelli (chair) psicoanalista della SPI, con Arsen Ostijc, regista di questo film pluripremiato, nonchè brillante oratore.
Matačić ha messo in evidenza alcuni elementi portanti della pellicola: il bellissimo bianco e nero delle immagini che evoca una dimensione fuori del tempo, la struttura circolare del racconto che sottolinea il senso di intrappolamento dei personaggi, l’ambientazione nella cittadella medievale con il fulcro nel palazzo dell’imperatore Diocleziano, emblema di un potere che non dà scampo (la droga). A ciò si aggiungono elementi di eccitazione maniacale: la scelta di inquadrare temporalmente la vicenda nelle ultime due ore dell’anno, i fuochi d’artificio, la musica e la droga a fare da corollario alla vicenda di personaggi senza speranza, incapaci di elaborare il lutto per le perdite subite a causa della guerra recente o di vivere il dolore della separazione, e quindi incapaci di sognare un futuro diverso.
Il film risponde pienamente al titolo di questa edizione del festival e alla domanda di quanto il dolore e le memorie traumatiche che provengono dall’Est Europa siano rappresentate o nascoste nel cinema contemporaneo di quei paesi. Infatti il sogno manifesto narrato dal regista disvela le memorie ben più traumatiche della guerra, rappresentando il trauma di un’intera nazione, che compare nel film come male che infesta la città. Dieci anni prima sul set del film la guerra infuriava: finì nell’estate del 1995, ma si è lasciata dietro un sentimento di inquietudine, che traspare chiaramente nelle immagini proposte dal regista.
Jasminum è l’undicesimo lungometraggio di uno dei più apprezzati registi polacchi interpretato da ottimi attori, presentato al Festival di Gdinia nel 2006. La quiete di un monastero sperduto nella campagna, dove i monaci vivono in clausura ed il tempo sembra essersi fermato, viene turbata dall’arrivo di una restauratrice (Grazyna Blecka-Kolska, moglie del regista), inviata dalla curia per restaurare un dipinto. La donna, molto bella, porta con sé la sua bambina di cinque anni, Genia, che scombussola con le sue domande l’universo chiuso ed i ritmi quotidiani dei monaci, ognuno dei quali ha una personalità ed una storia particolare, che si rivela nell’evolversi della storia (il priore per esempio è appassionato dei film di Fellini e ne conosce a memoria le battute). Le due ospiti inattese aprono una breccia non solo verso il mondo esterno ma anche verso inaspettate relazioni interiori e interpersonali segrete, in un’atmosfera densa di misteri ed apparizioni tra il mistico e l’onirico. La donna ha un’altra arte, quella di distillare essenze, e durante la sua permanenza riesce a scoprire la formula di un "profumo magico" per aiutare un’amica a sedurre l’uomo che ama.
La voce narrante è quella della bimba, che pone a tutti la domanda "ti stupisci?": possiamo pensare che ci stia raccontando un suo sogno, dove nulla sorprende ed ogni elemento può assumere un senso. E le vicissitudini dei protagonisti possono essere lette come la ricerca di dare appunto coerenza agli elementi frammentati della vita.
La discussione, coordinata da Krzysztof Fijalkowsi (chair), artista, docente di arte e letteratura, con Ewa Mazierska, docente di cinema contemporaneo e Danuta Golec, della Società di Psicoterapia Psicoanalitica Polacca, ha risentito della mancanza di un "rappresentante" del film in questione. Quest’opera di Kolski infatti ha un’impronta molto personale ed uno stile del tutto originale, sicuramente piacevole e spiritoso ma, come è stato notato dalla platea, può non apparire particolarmente significativo della cinematografia polacca.
Ispirato anche al bestseller Il profumo, di Patrick Sűskin, è un film denso e a tratti eccessivo, fa pensare alle essenze che coprono i cattivi odori confondendo l’olfatto, così come il tempo scandito da apparenti buone abitudini può nascondere profondi conflitti interiori, traditi dall’ossessività dei rituali. Sono ben rappresentati, come in un sogno, gli elementi manifesti, come quello dell’amore (per Dio, gli animali, i bambini, Fellini) e quelli latenti, come la negazione del male.
Il film russo Simple Things ha come protagonista il quarantenne medico anestesista Sergei che tutti i giorni è travolto dalla gestione delle "semplici cose" della vita e della morte: il lavoro in ospedale, la moglie incinta, la figlia adolescente scappata di casa. Per sbarcare il lunario, accetta di prendersi cura a domicilio di un noto attore (Leonid Brenov, che interpreta se stesso) che si rivela un paziente particolarmente ostico. Quasi a sfidarlo, gli ruba un quadro e cerca di venderlo ad un antiquario, che pretende l’assenso del proprietario. Sergei accetta di portarli a casa dell’attore, che non lo denuncia ma dichiara di avergli fatto un regalo. Questo episodio permette ai due di avviare un rapporto di fiducia e rispetto, tanto che per riconoscenza l’anziano attore lascia in eredità al medico il suo appartamento. Un blando incidente d’auto consente infine a Sergei di riavvicinarsi alla figlia e alla moglie.
Le immagini del film sono caratterizzate da una ricerca esasperata di rendere la realtà nei minimi particolari della sua concretezza e crudezza.
La discussione è stata presenziata da Igor Kadirov, psicoanalista della Società Psicoanalitica Russa (chair), Ian Cristie, storico del cinema ed esperto di cinematografia russa e il regista Aleksei Popogrebsky. Cristie ha presentato una panoramica dei maestri russi con i quali Popogrebsky si è confrontato (da Eisenstein a Tarkovski), sottolineando l’originalità del suo lavoro, di cui firma, inusualmente rispetto alla tradizion, sia sceneggiatura sia regia.
Popogrebsky ha dichiarato che il suo intento è di mettere da parte ogni altro livello che non sia la realtà quotidiana, per presentare la vita e le persone così come sono, in modo lo spettatore abbia l’impressione di "incontrarli dal vivo". Per questo fa mangiare rumorosamente la zuppa di pesce ai suoi protagonisti, si avvicina ai loro volti riprendendo dettagliatamente le loro espressioni facciali, in spazi ben definiti e setting rigorosamente reali. Riguardo il protagonista, lo ha definito un uomo in conflitto tra ciò che è giusto e ciò che conviene, schiacciato dal carico della responsabilità del suo lavoro di anestesista-rianimatore, quindi responsabile della vita e della morte dei suoi pazienti.
Il workshop Film editing and working trought, è stato presentato da Donald Campbell (chair) già presidente della BPS, il regista israeliano Asher Tlalim e Jonathan Sklar psicoanalista della BPS e vice presidente della EPF-FEP.
Il regista Tlalim ha prodotto oltre 50 film tra cui My Yiddische Mama’s Dream (1999); The Battle over Mt. Hermon (1987), e Don’t Touch my Holocaust (1994), per il quale ha ricevuto l’ Excellence Award al Jerusalem Film Festival.
Tlalim ha presentato i principi di base della tecnica di regia e ha analizzato scene di film di Lars von Trier e Ingmar Bergman, mostrando poi, tramite scene di film suoi e di un suo allievo quelli che sono stati i suoi processi di pensiero durante la regia, in particolare del film The missing picture. Si tratta di un’opera che segue il tentativo di tre protagonisti di superare il trauma della guerra del Kippur, che ha sconvolto la loro vita. Egli ha affermato che montare un film, scena dopo scena, gli ricorda il lavoro dell’analista in seduta, che a sua volta influenza la direzione che il trattamento prende, ovvero la direzione verso cui emerge e si sviluppa il materiale portato dal paziente, così come il materiale girato viene messo insieme dal regista.
Così anche si può pensare allo spettatore di un film come allo psicoanalista, nel momento in cui può percepire l’incongruenza tra la vita inconscia ed il comportamento di una persona, tra quello che dice e il modo in cui lo dice, ed interpretarlo.
Un regista ha bisogno di istinto, esperienza e capacità tecniche per riuscire a rendere in parallelo, per esempio, il conflitto tra le azioni e le parole di un protagonista del film, in modo che lo spettatore possa cogliere la dissociazione tra le parti della mente mostrate in evidenza e quelle recondite. Egli deve riuscire a rendere con le immagini come l’inconscio sia qualcosa di inevitabilmente presente nella vita del protagonista, per lasciare allo spettatore la possibilità di identificarsi con lui.
Ciò che ha reso particolarmente vitale e calda la partecipazione al panel sono stati l’entusiasmo e la capacità del regista di riconoscersi e legittimarsi la propria "genialità" nella esperienza creativa in generale e filmografica in particolare.
Al film di Petrov The dream of a ridicolous man, tratto dall’omonimo racconto di Dostoevsky, è seguito il panel The film animator, the writer, the psychoanalyst, and the representation of dreams durante il quale si è conosciuto l’artista russo (premiato nel 2000 con l’Oscar) accompagnato da Helen Taylor Robinson, psicoanalista della PBS e Ekaterina Golynkina (chair) candidata della PBS e collaboratrice della BBC in Russia. Petrov si è mostrato persona di grande umiltà e disponibilità ed ha parlato a lungo del suo modo estremamente lento di lavorare, che inevitabilmente evoca il processo del trattamento psicoanalitico. Egli dipinge a olio su vetro prevalentemente con le dita, e per un minuto di film è necessario dipingere circa mille quadri, apponendo minime modifiche. Questa tecnica consente di ottenere immagini forti, suggestive e commoventi, di straordinaria vitalità e profondità, che la tecnologia più spinta non sarà mai in grado di raggiungere e che ricordano l’opera di Goya, Van Gogh, Rembrandt.
Le sceneggiature dei suoi film sono tratte dalla letteratura classica, che, come ci ricorda Italo Calvino "non ha mai finito quello che ha da dire".
Si è messo in rilievo che Petrov ha la capacità di trasformare per lo spettatore elementi alfa in elementi beta, permettendo la creazione di "sogni paralleli". Egli ha confermato che ha voluto animare la storia di Dostoevsky proprio perché gli ha ricordato un suo sogno, mentre nel racconto di Hemingway l’aveva colpito la necessità del vecchio di uccidere il pesce, che pure ama, spinto dall’istinto di sopravvivenza. Istinto che si ripropone nel terzo film visto, The Cow, tratto dall’omonimo racconto di Platonov, dove dipinge la relazione estremamente intima tra l’infanzia ed il mondo animale.
Petrov ha ribadito di non avere particolari conoscenze psicoanalitiche, tuttavia Sabbadini, ringraziandolo, l’ha definito un profondo "esperto del mondo interno".
Il panel "Screening desire: Bertolucci’s The conformist and Last tango in Paris di B. Bertolucci" è stato presentato da Fabien Gerard (chair) docente di cinema all’Università di Bruxell, stretta collaboratrice di Bertolucci per 25 anni, Bruce Skarew, psichiatra e psicoanalista dell’IPA, Esther Rashkin, docente di letteratura francese e comparata e candidata IPA, ed il regista Bernardo Bertolucci.
Il periodo più fecondo di Bertolucci è iniziato nel 1969 con La strategia del ragno, anno in cui ha intrapreso la sua prima analisi. In un’intervista con Andrea Sabbadini ha detto: "Ho parlato più dei miei sogni sui film, delle fantasie sui film che non avrei mai fatto, piuttosto che di me stesso; ho analizzato i film mentre li facevo". Sklarew ha presentato la relazione "The masks of conformity: sadism, homosexuality and oedipal torea" nel film Il conformista. Ha sottolineato come la complicata struttura di flashbacks, senza coerenza cronologica, è montata come un sogno surrealista. Bertolucci parla di "una fusione caotica di memorie e fantasie, tutte mescolate insieme". In effetti nel film si trovano diverse scene equivalenti alla scena primaria e vengono aperti diversi orizzonti in relazione alla questione della realtà e dell’illusione.
Rashkin, nel suo lavoro "Encriptet loss: sex, sadism, and colonial politics in Last tango in Paris" ha evidenziato la correlazione tra la violenza verbale, gli agiti sessuali, l’insistenza del protagonista a non rivelare il proprio nome né la propria storia all’incapacità dello stesso ad integrare il trauma del suicidio della moglie. Tutti questi elementi, secondo la teoria psicoanalitica, possono essere infatti sintomi di un lutto irrisolto, e la mancata verbalizzazione del trauma può portare alla formazione di "cripte" intrapsichiche che ostacolano il processo stesso del lutto.
Durante il worksphop The producers, con Catey Sexton (chair) e Simon Chinn, entrambi produttori inglesi, e Irma Brenman Pick, psicoanalista della BPS, è stato discusso e demistificato il ruolo del produttore, sulla base delle esperienze dei partecipanti, prendendo avvio dal documentario Man on Wire (Uk, USA, 2007) di James Marsh, vincitore del Premio Oscar 2009. Il film è dedicato all’impresa compiuta il 7 agosto del 1974 dal funambolo francese Philippe Petit, che diede vita ad una performance straordinaria e irripetibile, camminando avanti e indietro per otto volte su un cavo teso clandestinamente tra le cime delle Torri Gemelle di New York. Marsh racconta la genesi, la preparazione e l’esecuzione di questo folle e meraviglioso intento. Al racconto delle difficoltà incontrate nella raccolta del materiale filmato si sono intrecciate le considerazioni della psicoanalista inglese sulla personalità narcisistico-grandiosa del protagonista, unita a doti di disciplina ferrea nel perseguire il suo obiettivo. Molto significativo appariva nel filmato il ruolo dei collaboratori dello straordinario funambulo, non solo indispensabili per risolvere problemi pratici, per esempio superare gli ostacoli burocratici e organizzare gli eventi da un punto di vista mediatico, ma assolutamente vitali come ricettacoli dell’angoscia di morte e della paura proiettata su di loro dall’artista, che poteva così muoversi senza impedimenti interni al pieno delle sue potenzialità.
Il film Elevator è una storia semplice che racconta di due adolescenti i quali, esplorando un edificio abbandonato, rimangono bloccati in un ascensore. Gli organizzatori del festival hanno avvertito: sconsigliato a chi soffre di claustrofobia. Ed è effettivamente un film claustrofobico, girato quasi esclusivamente all’interno dell’ascensore, accompagnando lo spettatore nelle reazioni dei giovani protagonisti, con i loro bisogni primari che non possono essere soddisfatti (la fame, la sete), con i loro corpi sudati, sporchi, che si sfiniscono a poco a poco abbandonandosi al loro inesorabile destino di morte.
La discussione con il giovane regista Dorobantu, Gabriella Masacci (chair), attualmente Direttrice dell’Istituto di Cultura Rumena di Londra e Michael Brearley, attuale presidente della BPS, è stata particolarmente vivace. Dorobantu ha raccontato che la sceneggiatura, inizialmente pièce teatrale, è stata tratta da una storia vera, accaduta negli Stati Uniti. I corpi di due persone sono stati ritrovati dentro un ascensore abbandonato, ed è stato appurato che sono rimasti vivi per più di una settimana: si sono chiesti come avevano potuto vivere tutto quel tempo chiusi in un luogo così angusto, e con quali vissuti. Dal pubblico gli interventi hanno evidenziato che non c’è una progressione della paura nei due protagonisti, come se, da adolescenti, non potessero pensare di morire davvero e fuggono in una speranza magica: un messaggio inviato con il cellulare (che non ha segnale) fatto cadere in una piccola apertura sul pavimento, come un messaggio in bottiglia che non sarà mai letto. Il finale, tragico, presenta un elemento di speranza: l’amore si può comunque fantasticare. Ci si chiede come mai i due ragazzi nemmeno per un momento abbiano un approccio di intimità sessuale: da una parte si trovano in una situazione totalmente sconosciuta e inquietante, dall’altra, soprattutto, si trovano a condividere un’intimità fisica evidentemente eccessiva sotto altri aspetti. Soprattutto, però, non sono liberi.
Roberto Basile ha segnalato che è visibile su youtube un video che in poco più di tre minuti sintetizza le 41 ore trascorse da una persona all’interno di un ascensore.
{youtube}p_bMhNI_TY8{/youtube}
Il film Own death è tratto dall’omonimo racconto autobiografico di Péter Nádas, uno dei maggiori scrittori ungheresi contemporanei. Il regista Péter Forgás racconta, attraverso immagini penetranti accompagnate dalla narrazione della voce fuori campo, i pensieri più intimi e le sofferenze del protagonista, colpito da un infarto che lo tiene sospeso tra la vita e la morte. Forgás (presente con una installazione alla Biennale di Venezia del 2009) ha lavorato molto su filmini degli archivi privati ungheresi dagli anni venti agli anni ottanta, con l’obbiettivo di documentare e far riflettere sulle vicende umane drammatiche vissute dai protagonisti della storia, giocando sulla giustapposizione del registro documentaristico e quello onirico. Lo stesso approccio viene mantenuto in questo film, dove il racconto dell’esperienza dolorosa personale si trasforma in un lavoro sull’inconscio collettivo.
L’artista ha presenziato alla discussione con una performance memorabile ed una "presenza scenica" imponente. Ha sottolineato la forza della narrazione che, correlata alle immagini e alla musica, è in grado di comunicare una condizione della mente e dell’anima. Ha ammesso di essere un cultore di Ferenczi e di avere grazie a lui approfondito il tema del rapporto medico-paziente, in particolare nel suo Paese, dove ancora troppo spesso la persona malata è trattata, negli ospedali, alla stregua di un oggetto. Ildikó Takaks (chair), Direttore del Centro di cultura ungherese a Londra e Catherine Portuges, docente di letteratura ed esperta di cinema europeo, hanno contribuito con pertinenti osservazioni ad animare la discussione.
Il film Somnambul (Suley Keedus, Estonia 2003, 129 min) è un’opera drammatica, che prende avvio dal genocidio nazista avvenuto tra il 1939 e il 1949 in Estonia. Molti persone fuggirono dal proprio Paese, come desidererebbe fare la giovane donna protagonista del film, Etla. Tuttavia essa perde l’ultimo battello per la Finlandia ed è costretta a tornare alla casa del padre. Non riesce a trovare pace ed elaborare i lutti che l’hanno colpita, e si rifugia nelle proprie fantasie. Il padre è come lei depresso, e pare trovare conforto solo nella sua passione per gli uccelli: ma i gabbiani che lo circondano sono imbalsamati, e non possono volare verso la libertà.
Alla discussione hanno partecipato Kari Tuhkanen (chair) e Camilla Bargum psicoanalisti della Società Finlandese con il produttore Karlo Funk. Essi hanno sottolineato come in questo film la realtà si confonda con le fantasie della protagonista, che sembrano evolversi in uno stato dissociativo di tipo psicotico. Come nella maggior parte dei film cui si è assistito durante questo Festival, anche in questo la realtà traumatica schiaccia la possibilità dello sviluppo del pensiero e della comunicazione tra le persone.
Al workshop Film censorship. To cut or not to cut? hanno partecipato Sergei Grachev (chair) e Maggie Mills psicoanalisti della BPS con Carole Topolsky, psicoterapeuta psicodinamica, con l’idea di rendere comprensibile l’idea della censura applicata a materiale filmico, portando esempi concreti di spezzoni di film controversi e permettendo ai partecipanti di sviluppare un’idea personale in proposito.
Nella stanza d’analisi, con il paziente, lo psicoanalista cerca di portare alla luce da luoghi nascosti pensieri, sentimenti ed esperienze , per comprendere come mai la mente ha avuto bisogno di esiliarli, per rendere dicibile l’indicibile, per slegare i processi di censura psichica al fine di liberare ciò che è stato legato, come è particolarmente evidente nei sogni. Il processo psicoanalitico, nel migliore dei casi, produce libertà mentale laddove nulla poteva essere detto e, alla peggio, i meccanismi di censura bloccano la libertà della mente così che nulla è detto. Nella cultura, in particolare riguardo al cinema, la censura svolge un ruolo superegoico reprimendo e punendo pensieri, sentimenti e idee che possono emergere da un film, imponendo limiti prestabiliti. Essa opera in nome del fatto di preservare socialmente la salute mentale dello spettatore, rivendicando la bontà del suo scopo. Questo tuttavia rimane di frequente poco comprensibile e oscuro, mentre si evidenzia una limitazione della libertà di espressione artistica.
Il panel Inner conflict and emozional Pain. A psychoanalitic view of Brief encounter, condotto da Peter Evans (chair), docente di storia del cinema a Londra, l’editore Charles Drazin e Andrea Sabbadini, si è focalizzato sul film classico proiettato venerdì sera, in grado di toccare temi sempre attuali, con immagini di grande impatto emotivo. La storia è quella di un amore impossibile tra un uomo e una donna, entrambi sposati, tra i quali nasce un’intesa immediata. Combattuti tra il desiderio di vivere il desiderio e l’impossibilità di realizzarlo, il loro incontro sarà inevitabilmente "breve" ma di grande intensità.
Drazin ha mostrato in particolare come questioni quale l’amore illecito, il controllo e la repressione, sociali e intrapsichici, sono caratteristici del cinema di Lean. Sabbadini ha analizzato le motivazioni inconsce che spingono i due amanti l’uno verso l’altra.
Il panel Faith and faithlessness. The role of erotic imagination in Faithless (Liv Ulmann, Svezia 2000) and Love (Karol Makk, Ungheria, 1971) David Bell (chair), Presidente della SPB, Diana Diamond e Lissa Weinstein, docenti universitarie di New York che lavorano entrambe in ambito psicoanalitico ed esperte di cinema neworkese.
Il mondo delle rappresentazioni con le sue miriadi di immagini del sé in relazione agli altri e gli affetti e le fantasie che legano il Sé all’oggetto nella realtà e nel mondo interno trova la sua più completa espressione nel cinema. Questa forma d’arte può diventare strumento di esplorazione e la comprensione di alcuni fondamentali processi relazionali e conflitti con i quali ci confrontiamo, compresi quelli riguardanti la formazione e la rottura di relazioni di attaccamento erotico a lungo termine.
La Diamond ha discusso la prima pellicola, che affronta il tema della passione che irrompe nella serenità e felicità di una famiglia composta dal padre, un noto direttore d’orchestra, dalla madre e dalla loro figlioletta. Il racconto della vicenda è affidato all’anziano amante che, tormentato dal rimorso, assume come suo alter ego il marito tradito e rievoca insieme al fantasma della ex amante, ormai deceduta, le tragiche conseguenze del loro adulterio (il duplice suicidio del marito tradito e della figlia).
Il film ungherese, bellissimo e poco noto, presentato dalla Weinstein, narra invece di un amore che resiste alla prova difficilissima di una lunga separazione dovuta alla prigionia politica del marito. La moglie e la madre dell’uomo lo attendono per anni legate e sostenute dall’amore per lui, ma anche bloccate nell’impossibilità di elaborare il trauma della separazione violenta che hanno sofferto. La morte della anziana madre e il ritorno dell’uomo rappresenteranno una svolta nel lavoro di elaborazione del trauma per i due componenti la coppia.
Le relatrici hanno mostrato, attraverso le immagini dei film citati, il potere dell’immaginario erotico nel mantenere una relazione anche a fronte di separazioni e tradimenti. Inoltre è stato discusso come le tecniche cinematografiche adottate in questi film possano evidenziare che le relazioni oggettuali interne sono in continuo cambiamento ed evoluzione, trasformando la propria esperienza di Sé e dell’Altro. Infine, sono state evidenziate le condizioni socio-culturali che possono influire sulla fiducia dello sviluppo del mondo delle rappresentazioni e favorire lo spostamento dell’Eros nel mondo degli oggetti e della memoria.
La domenica mattina Talat Parman, psichiatra e psicoanalista di Istanbul, ha presentato un lavoro riguardante lo sviluppo del rapporto tra psicoanalisi e cinema in Turchia.
Sono stati proiettati qundi tre divertenti film di animazione di artisti dell’Europa dell’Est, che hanno evidenziato la grande vivacità culturale della cultura cinematografica del momento.
In conclusione del Festival, sono intervenuti Laura Mulvey ed Andrea Sabbadini, che hanno voluto in particolare sottolineare come il cinema di questa parte d’Europa, dopo la caduta del muro di Berlino, si sia evoluto cercando di staccarsi dal contesto politico e sociale per esprimere aspetti lirici e poetici originali.
Come spettatrice e cultrice di cinema, avendo partecipato con grande interesse e curiosità a tutte le edizioni del Festival, ho trovato quest’ultimo più impegnativo emotivamente dei precedenti.
Riflettendo retrospettivamente sui film visti, uno sguardo d’insieme mi ha consentito di individuare una forte tensione conflittuale tra una condizione umana alle prese con i più basilari bisogni di sopravvivenza fisica e l’aspirazione ad un cambiamento che richiede il superamento del trauma della guerra, del lutto e della separazione.
La povertà, il confronto quotidiano con le semplici cose quotidiane rese difficili da condizioni di vita precarie e disumanizzanti, lo spaesamento, la mancanza di una via di fuga da situazioni di intrappolamento fisico o psichico, la perdita di speranza, l’incapacità di un autentico confronto con l’altro sono elementi che si contrappongono alla speranza di una evoluzione verso elementi identitari nuovi, che sembrano in via di costruzione e ricostruzione. Se da una parte si sente incombere la constatazione dell’impotenza dell’uomo, della sua angoscia esistenziale, dall’altra si apre l’aspirazione alla ricerca di una rinascita interiore che possa far evolvere questa situazione. Come se dalle macerie lasciate dai conflitti bellici, dalla guerra fredda e dai resti del muro di Berlino le immagini cercassero una leggerezza che cerca di significati, che faticosamente si aprono varchi per di liberarsi e disvelarsi, o cercano l’uscita da labirinti. Si rimane forse in uno stato di sospensione del pensiero, in bilico tra il registro della fisicità e della concretezza più estremi, che si esprimono in immagini crude di stile documentaristico, e quello dell’onirico, che si fissa nei quadri di capolavori del cinema di animazione; o forse confusi, nell’impossibilità di distinguere immagini della realtà da quelle della fantasia o del sogno. Il linguaggio filmico rende questa conflittualità con profonde diversità, come immagini essenziali o quasi barocche, trame estremamente semplici o intrecci particolarmente complessi, uso del bianco e nero o di colori estremamente intensi, dimostrandosi mezzi estremamente efficaci per rendere manifesti paesaggi e situazioni reali così come mondi interiori e dinamiche mentali.
Un festival che mi ha fatto immergere in un’atmosfera profondamente psiconalitica, che induce alla ricerca di pensiero e di significato, grazie al confronto con rappresentanti del mondo del cinema non psicoanalisti. In questa prospettiva, queste giornate impegnative e ricche hanno certamente raggiunto lo scopo che Sabbadini aveva auspicato.