Autore: Flavia Salierno
Titolo: Bir Baskadir (“Ethos”)
Dati sulla serie: scritta e diretta da Berkun Oya, Turchia, 2019, 8 episodi, Netflix
Genere: drammatico
La figlia di un hodja, sorpresa dal padre a ballare musica pop con le cuffie alle orecchie. Due sorelle, una col velo, l’altra modernista e atea, che si insultano con odio. Una psichiatra che entra in un conflitto tutto interno con la sua paziente così devota ad Allah, e al fratello maschio.
In un luogo e in nessun luogo, la serie si presenta col titolo originale “Bir Baskadir”, in turco “un altro”, o “è un’altra”. Quel luogo è Istanbul, ma potrebbe essere altrove.
La riflessione che suscita la visione di questa serie è universale, si estende al di là dei confini della connotazione culturale turca. Non è solo, infatti, il ritratto di una Turchia che si imbatte con le antiche tradizioni e la contemporanea modernità, ma anche più in generale col barcamenarsi tra parti antitetiche, nella loro incomunicabilità. È l’impatto che il confronto col diverso da sé ha in ogni caso, alla ricerca di un modo “etico” di vivere, di una risposta, l’unica possibile, ovvero quella giusta, secondo la quale impostare e regolare la propria esistenza. Un recinto fuori dal quale diventa inaccettabile l’opposto.
Attraverso gli occhi grandi e azzurri della protagonista, passano e si intrecciano le mille diramazioni della trama. Meryem, infatti, giovane proveniente da una famiglia modesta e conservatrice, è afflitta da svenimenti improvvisi e finisce in cura da Peri, alto borghese e elitaria psicoterapeuta, con la testa scoperta. Attraverso gli sguardi della terapeuta, entriamo da subito nello scontro tra culture, nei pregiudizi dati dalla convinzione del pensare di stare dalla parte giusta, prima ancora del transfert-controtransfert tra paziente e professionista.
In realtà anche Peri mostra le proprie fragilità e quelle del mondo moderno di cui va fiera, quando va da Gülbin, la collega-supervisore, che a sua volta si scontra, con disperazione, con il muro dell’incomunicabilità con la sorella, fervente musulmana. Yasin è il fratello di Meryem ed è sposato con Ruhiye, donna con una depressione tale da non riuscire a prendersi cura dei figli, continuamente insultata dal marito. Nella difficoltà di gestione della relazione con la compagna di vita, Yassin si innamora della figlia dell’hodja, Hayrunnisa, che invece si sente attratta dalle donne. Poi c’è Sinan, single incallito e solitario con cui la collega di Peri ha una relazione fugace. Gli ingredienti ci sono tutti per le otto puntate, che condensano una proliferazione di emozioni, contraddizioni e riferimenti storici e culturali. Dove si scontrano anche l’ambito psicologico e quello religioso, e dove sembra che il Maestro delle fede religiosa svolga la stessa funzione della psicoterapeuta.
Berkun Oya, sceneggiatore e regista turco, ha usato il campo e controcampo delle sedute psicoterapeutiche per mettere il fuoco su una lettura della società turca, ma non solo di quella. Punta il dito sulla “supremazia” laica della borghesia islamica, sulla divisione netta tra i ricchi e i poveri, tra laici e musulmani. Potremmo dire la Turchia di Erdogan, ma sarebbe riduttivo, perché si potrebbero nominare alla stessa stregua molti posti nel mondo. L’uso, nella serie, della “consulting room” è la metafora di un dialogo, una cura, che dovrebbe avvenire tra ideologismi integralisti, stimolando alla pluralità delle visioni e delle interpretazioni della realtà. La lettura, l’interpretazione psicoanalitica, presente in tutta la durata della serie, offre l’opportunità di guardare attraverso e dentro i comportamenti dei singoli protagonisti, e degli accadimenti che a loro ruotano intorno. É l’apripista per una trasformazione, necessaria per prendere contatto con la verità (vissuta) delle cose.
La sceneggiatura è praticamente perfetta, nella misura in cui riesce a portare lo spettatore esattamente là dove vuole e in queste riflessioni, lasciandone aperte le considerazioni.
La scelta di volere indirizzare la macchina da presa verso le parti più squallide e malinconiche di Istanbul, piuttosto che quelle bellissime e effervescenti, ci costringe a stagnare nei vissuti depressivi, ad eccezione di quelle inquadrature in cui sembra rinascere la vita. Il primo piano, per esempio, sulla bocca della protagonista, che finalmente assapora lentamente il cioccolatino donatole dallo spasimante. Per inquadrare poi l’espressione soddisfatta e sognante.
Dal particolare al campo lungo, includendo le prospettive soggettive e oggettive, ci troviamo sorpresi nel piatto cucinato alla turca o nel modo di portare il velo, ma anche nei tormenti della psichiatra che non sa come risolversi nel rapporto con la paziente che mobilita in lei aspetti rigettati.
La storia si allarga, si svolge, si dipana, e non ha bisogno di mille effetti speciali. Bastano quelli, ad altissima definizione, delle tante sfaccettature e dell’intrecciarsi delle relazioni umane, che non seguono mai le logiche dittatoriali di nessun tipo di assolutismo umano.
Febbraio 2021