Epff10, European Psychoanalytic Film Festival,
Londra, 31 ottobre – 3 novembre 2019
Report di Elisabetta Marchiori
Si è svolta a Londra la decima edizione di Epff (European Psychoanalytic Film Festival) dal titolo “The end”. Dal 2001, ogni due anni, durante l’ultimo week-end di novembre, questo evento di portata internazionale attrae quasi trecento studiosi e appassionati di cinema e psicoanalisi da ogni parte del mondo, registrando il “tutto esaurito”. Ringrazio la collega di New York Ana Eugenia Ferreira per l’aiuto che mi ha generosamente offerto nello scrivere questo report.
La scelta del tema è stata motivata – come dichiarato dal board – dalla speranza “di offrire ai partecipanti opportunità stimolanti di riflessione nel porre attenzione a come possono essere i finali dei film (lieti, aperti, ambigui, inaspettati) ed esplorare i criteri usati da sceneggiatori e registi per decidere come terminare le loro opere”.
In passato, i film si concludevano con la scritta “The End” (“Fine”) in sovrimpressione nel loro ultimi fotogrammi, una prassi oggi caduta in disuso con i cambiamenti culturali in corso e con l’avvento dei sequel e della serialità ,.
Il tema della fine è centrale anche per portare la discussione sulla conclusione di un trattamento psicoanalitico, che per l’analizzando può essere l’inizio di una nuova fase della vita. Con le possibilità di connessione a cui tutti possiamo attualmente accedere, anche i limiti di un setting che può essere virtuale (terapie via Skype per es.) sono difficili da definire, come difficile può diventare giungere alla conclusione definitiva di un trattamento.
A proposito della fine, e con parole estremamente attuali, Freud ha scritto nel suo articolo “Caducità” (OSF, VIII, p. 174, Bollati Boringhieri, 1982): “Se un fiore fiorisce una sola notte, non per ciò la sua fioritura ci appare meno splendida. E così pure non riuscivo a vedere come la bellezza e la perfezione dell’opera d’arte o della creazione intellettuale dovessero essere svilite a causa della loro limitazione temporale”. Siamo consapevoli – come ancora ha dichiarato il board -che “tutte le cose sono destinate a finire: fiori, edifici in pietra, libri, festival, film … e le nostre stesse vite. Ma si potrebbe anche affermare che nulla finisce mai e che, invece, tutto subisce una trasformazione”.
Anche Epff si è trasformato in questi anni, pur mantenendo una cornice che è diventata una tradizione.
L’apertura del Festival è avvenuta infatti, come di consueto, presso la sede della Royal Society of Medicine la sera del 31 ottobre, con un rinfresco, seguito dalle parole di benvenuto di Michael Mercer, Vice Presidente della British Psychoanalytical Society, e la presentazione del Direttore Andrea Sabbadini.
La serata è proseguita con la proiezione del cortometraggio di Ashtar Al Khirsan “Abdullah and Leilah” (GB, 2017) che affronta il tema della demenza e della memoria, e del documentario “Twilight of a Life” (“Il crepuscolo di una vita”) di Sylvain Biegeleisen (Israele, Belgio, 2015), una toccante “ode alla vita” che ha come protagonista la novantaquattrenne madre del regista dopo l’annuncio che le restano solo due settimane di vita.
Il sabato, presso la multisala Hackney Picturehouse, che ha per la prima volta – spiazzando i fedelissimi per tale novità – ospitato l’evento (usualmente tenuto al BAFTA), il Festival è stato introdotto dal panel condotto da Andrea Sabbadini (chair) “The End: Three Perspectives” tenuto dallo sceneggiatore Sam Vincent, dallo psicoanalista Kannan Navratnem e dallo storico del cinema Peter Evans.
In omaggio e ricordo di Bernardo Bertolucci, Presidente Onorario di Epff, è seguita una tavola rotonda presentata da Leasly Caldwell (chair) in cui sono intervenuti Andrea Sabbadini, l’esperta di cinema italiano Mary Wood e la nostra collega della Società Psicoanalitica Italiana (SPI) Alessandra Balloni. Sabbadini ha voluto ripercorrere le tappe della sua relazione con il regista, accompagnate da spezzoni delle riprese di una loro conversazione organizzata nel 1997 dalla Società Sigmund Freud all’Università di Vienna, nell’anniversario della nascita del padre della psicoanalisi. “La decima e l’undicesima musa” così Bertolucci definisce cinema e psicoanalisi “sono nate nello stesso tempo e hanno profondamente caratterizzato il Ventesimo secolo”. Balloni si è soffermata sulla dimensione temporale nella poetica del regista e della relazione tra poesia e cinema. Questo tema è stato ripreso e sviluppato anche da Wood e nella discussione, molto partecipata e densa di commozione.
Una panoramica dell’attuale cinema europeo è stata offerta durante il panel “European Cinema Today”, cui hanno partecipato gli esperti di cinema – storici, critici e giornalisti – Peter Evans (chair), Ian Christie, Laura Mulvey, Cathy Portuges e Irina Nistor.
Lo storico del cinema Ian Christie ha presentato un importante contributo dal titolo “Not the End: Reflections on the Changing Ontology of Film”. Egli sostiene che “la fine” dell’opera cinematografica sta scomparendo perché i film sono diventati come i libri: li apri e li chiudi. Le piattaforme streaming permettono di vederli e rivederli quando, dove e come vogliamo, facendo perdere il senso del tempo e della cronologia, insieme alla possibilità di lasciarsi andare in un’esperienza temporale limitata. Anche il fenomeno della serialità contribuisce a rendere lo spettatore incapace di tollerare la frustrazione che la storia cui è affezionato si concluda. La psicoanalista Helen Taylor Robinson (chair) è intervenuta per ricordare le problematiche connesse alle analisi via Skype e a quelle relative al setting, chiedendosi se anche in quest’ambito si incorra nel rischio di poter fare “qualsiasi cosa”. Riguardo la fine dell’analisi, essa può essere determinata dai motivi più vari, ma non è “definitiva”, in quanto inevitabilmente prosegue con l’autoanalisi.
Durante le due giornate successive sono stati proiettati otto film, discussi in seguito durante interessanti panel che hanno coinvolto il pubblico in discussioni vivaci, stimolate dai contributi di psicoanalisti, esperti di cinema, registi, sceneggiatori, attori e produttori .
Il film georgiano “Namme” (2017), di Zaza Khalvashi, è un racconto di formazione dalle atmosfere magiche che, grazie a una ricca simbologia collegata all’acqua, si sofferma sullo scorrere del tempo, sui cambiamenti delle persone e dei luoghi in cui vivono. Namme è il nome della protagonista, figlia del guaritore di un piccolo villaggio, che per tradizione dovrebbe seguire le sue orme, mentre lei desidera divenire artefice del proprio destino.
“El Autor” (2017), dello spagnolo Manuel Martin Cuenca, ha come protagonista Álvaro, un perdente con il sogno di diventare un grande scrittore. Il film è denso di sorprese narrative e senso dell’umorismo, ma è il finale, che non si può svelare, il vero colpo di genio.
“Cold War”, del Premio Oscar Pawel Pawlikowski, premiato per la miglior regia al Festival di Cannes 2018 e all’European Film Awards, si ispira alla travagliata storia d’amore dei genitori del regista, vissuta durante la Guerra Fredda in continuo spostamento da un Paese all’altro. È un film dal finale in sospeso, che consente allo spettatore di cogliere il calore, anche distruttivo, delle pulsioni, che nemmeno i gelidi inverni e la devastazione della guerra riescono a smorzare.
Il “Classico” scelto per questa edizione è stato “Sunday Bloody Sunday” (Domenica maledetta domenica), l’indimenticabile capolavoro di John Schlesinger del 1971, che ha osato mettere in scena un triangolo amoroso per quei tempi scandaloso. Protagonisti sono Glenda Jackson, nel ruolo di una donna divorziata e scontenta della sua vita, Peter Finch nei panni di un medico omosessuale cinquantenne e Murray Head, che interpreta un giovane e bellissimo scultore vanesio, amante di entrambi. Quella maledetta domenica, quella in Murray cui li abbandona, diventa il simbolo del distacco e della perdita, della solitudine di chi ha bisogno di amore e se ne sente privato: un film che tratta temi senza tempo e senza fine.
“Scaffolding” (2017) è il primo lungometraggio del regista israeliano Matan Yair che ha scelto di raccontare la storia vera di Asher, un suo studente, che nel film interpreta se stesso, con disturbi comportamentali e cognitivi. Si potrebbe pensare che il destino di un ragazzo tanto problematico sia segnato, che la fine sia nota, invece può bastare un incontro per cambiare un destino.
Anche in “Mellow Mud” (2016) del giovane regista lettone Renars Vimba è l’incontro con un insegnante a segnare una svolta nella vita di Raya, una ragazza che cerca di sopravvivere con il fratello in condizioni di vita terribili. È questo rapporto che le consente di avere la speranza di uscire, anche fuor di metafora, dal fango.
“Chris the Swiss” (2018), presentato alla Semaine de la Critique a Cannes, è un piccolo, sconvolgente capolavoro della giovane regista svizzera Anja Kofmel, diplomata in cinema di animazione e arti decorative. Si tratta di un documentario-inchiesta sulle circostanze della morte di un giornalista nella guerra civile jugoslava, cugino della stessa regista, la quale usa gli strumenti della sua arte, l’animazione, riuscendo a sposarla perfettamente con riprese della cruda realtà.
È un film estremamente drammatico, di grande impatto visivo ed emotivo, forse l’opera più intensa e originale presentata in questa edizione di Epff. La regista è stata molto disponibile e generosa nel raccontare la genesi del suo lavoro e il suo profondo coinvolgimento professionale e personale. Aveva dieci anni, era una bambina, quando Chris è morto: lo considerava il suo eroe, voleva diventare come lui, quindi è stato necessario per lei cercare di dare un senso alle scelte di quel ragazzo cui era tanto affezionata, e provare a ricostruire quanto poteva essergli accaduto. Per fare questo, ha integrato le sue memorie, rappresentate nelle illustrazioni animate in bianco e nero con documenti, interviste, frammenti di riprese di repertorio e amatoriali, accompagnandole con la sua voce fuori campo e con la narrazione, ricostruita, dei pensieri che ha immaginato potesse avere Chris.
È un’opera sulla fine della vita di un giovane, sulla fine di una Nazione, la Jugoslavia, ed anche sulla fine delle fantasie e dell’illusione nel confronto con la realtà.
La sera si è svolto il tradizionale Party in un luogo particolarmente suggestivo, il Museo del Cinema, edificio in cui ha vissuto da bambino il grande Charlie Chaplin. La cena e le danze, accompagnate da musica brasiliana eseguita dal vivo, si son svolte, tra cimeli e ricordi, in un clima molto familiare.
La domenica mattina, come consulente italiana di Epff, ho presentato un breve contributo dal titolo “Cinema e psicoanalisi in Italia” per illustrare lo stato dell’arte delle iniziative che la Società Psicoanalitica Italiana (SPI) e i suoi Soci promuovono nei diversi Centri con lo stesso spirito di Epff. Tra le tante iniziative citate, mi sono soffermata in particolare sugli eventi patrocinati dalla SPI “Cinemente” il Festival di Psicoanalisi e Cinema organizzato a Roma (chair Fabio Castriota) e la Rassegna “Cinema e Psicoanalisi” ospitata dal Festival dei Due Mondi di Spoleto (chairs Claudia Spadazzi e Elisabetta Marchiori), con il sostegno di IPD (Italian Psychoanalityc Dialogues). Ho illustrato il ruolo importante svolto dallo Spazio Cinema del sito www.spiweb.it, di cui sono referente insieme ad Angelo Moroni, per promuovere iniziative nazionali e internazionali e pubblicare recensioni su film e serie televisive di interesse psicoanalitico che stimolino riflessioni e aprano dibattiti. L’intervento ha stimolato una certa curiosità nel pubblico rimato numeroso, colpito dalle solide radici del rapporto che, da Musatti in poi, gli psicoanalisti italiani intrattengono con il cinema e dalla ricchezza di eventi realizzati.
È seguito il premiato cortometraggio “Cadoul de Craciun” (2018, “Il regalo di Natale”) del giovane regista rumeno Bogdan Muresano che, con amara ironia, racconta di come l’ingenuità di un bambino durante il regime di Ceausescu possa trasformare una letterina a Babbo Natale in una pericolosissima minaccia all’incolumità di un’intera famiglia.
È stato quindi presentato e discusso con la regista Jane Thorburn il poetico cortometraggio di sei minuti “Freud’s Lost Lecture”, creato in collaborazione con la scrittrice, poetessa e drammaturga inglese Deborah Levy. Questo prezioso lavoro di intrecci tra immagini e parole rende con straordinaria immediatezza e brevità un omaggio all’opera freudiana, creando una sorta di “precipitato” dei suoi studi sull’isteria, sul sogno e sull’inconscio.
Come di consueto, il Festival si è concluso con la discussione pleanaria, coordinata da Ian Christie e Andrea Sabbadini.
Quest’ultimo, “anima” del Festival per vent’anni, ha annunciato un finale temuto ma non del tutto inaspettato, cioè le sue dimissioni dal ruolo di Direttore, accolte con dispiacere e nostalgia di tutti gli affezionati. Tuttavia, nutriamo la speranza che chi ha lavorato con lui in questi anni raccolga il testimone, e continui con la stessa determinazione e passione a portare avanti questo progetto a livello europeo, malgrado la Brexit e l’impegno che comporta a vari livelli.
Voglio ricordare che è una relazione su cui non si potrà mai porre la parola “fine” quella tra cinema e psicoanalisi. Come già aveva dichiarato nel 1980 Cesare Musatti (“Il retaggio psicoanalitico”, in Scritti sul cinema, 2000, a cura di Dario F. Romano, ed. Testo & Immagine), pioniere italiano negli studi in questo campo: “Chi si occupa di psicoanalisi non può non fare riferimento al cinema. L’ho scritto cinquant’anni fa, quando mi occupavo delle immagini da un punto di vista tecnico percettologico. E non posso che ripeterlo attualmente (…)”.
Sono passati altri quarant’anni, e non si può che confermarlo con forza, come testimoniano le dieci edizioni di Epff.
Gennaio 2020