Parole chiave: Agonia primitiva, Cure primarie, Madre morta, Funzione paterna, Non luoghi
Autore: Filippo Barosi
Titolo della Serie: “Dostoevskij”
Dati sulla Serie: ideata, scritta e diretta da Damiano e Fabio D’Innocenzo, Italia, 2024, sei episodi, Sky/Now.
Genere: drammatico, poliziesco
“Il deserto cresce, guai a colui che cela deserti dentro di sé”
(F.W. Nietzsche, “Così parlò Zarathustra”, 1883)
“Dostoevskij” è la prima miniserie dei gemelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, registi particolarmenteoriginali del panorama cinematografico cinema italiano, fin dal loro esordio con “La terra dell’abbastanza” (2018). È stato presentato alla Berlinale 2024 in forma di lungometraggio in due parti, per poi essere trasmesso da Sky, suddiviso in sei episodi di circa un’ora ciascuno.
Il soggetto, non pretestuoso ma sviluppato giocando intorno ai canoni del genere, è quello della caccia al serial killer da parte del tormentatissimo poliziotto Enzo Vitello, interpretato da un intenso Filippo Timi. Il misterioso e spietato assassino è soprannominato Dostoevskij, per via della ritualità di lasciare sul luogo del delitto lettere che parlano ossessivamente dell’agonia del vivere e della morte come liberazione. Vitello è deciso a catturarlo, ma ne è anche intimamente sedotto: il punto di contatto emotivo tra i due antagonisti sembra il tragico rapporto di Vitello con Ambra, la figlia tossicodipendente che vive un’esistenza marginale e senza direzione.
Sia il tono dei dialoghi sia la consueta scelta estetica di luoghi-non luoghi (Augé, 2009) della periferia romana, rimandano alla prima, ineguagliabile, stagione di “True Detective” (2014)che, ambientata nel profondo sud degli Stati Uniti, si ispira a sua volta alla disperante retorica di Thomas Ligotti e del suo libro “La cospirazione contro la razza umana” (2016). A questo si aggiunge la scelta di girare il film in 16mm che, conferendo alle immagini una patina affascinante e decadente, si intona alla perfezione con l’atmosfera plumbea della serie.
La serialità permette agli autori di svincolarsi in modo più netto dalle tematiche sociali che permeano i loro film e di espanderne le atmosfere già rappresentate, in particolare nell’intenso “Favolacce” (2020). Come e più dei loro precedenti lavori, “Dostoevskij” è una storia di genitori assenti e di orfani, di figli “sbagliati”, dove lo sbaglio è sia causa prima sia effetto inevitabile di una vita fin dal principio senza amore, senza spazi mentali capaci di ospitare l’esistenza così come la reputiamo degna di essere vissuta. È l’inferno dei viventi, quello in cui la sopravvivenza è legata a mere funzioni biologiche e si finisce a vagare sulla terra come “non morti”. Viene da pensare alle cure primarie, a quei fondamentali momenti di vicinanza e scambio che, come Spitz insegna (1972), sono il vero innesco della vita. Alla serie fa infatti da sfondo persistente una lugubre sinfonia di madri morte, di paesaggi desertificati che sembrano la versione suburbana dei gelidi fantasmi materni del pittore Giovanni Segantini (vedasi “Le cattive madri”, “Il castigo delle lussuriose”), che a sua volta aveva perso la madre da bambino. Le rare, ma importantissime figure femminili della serie, esistono al negativo: sono spettri in pena, ombre vuote profondamente deprivate alle quali è preclusa qualsiasi forma di calore materno. Non sorprende allora che un’oralità caotica e rumorosa sia elemento di rilievo nella costruzione delle scene e dei personaggi, che non possono fare a meno di ricercare oggetti con voracità, per placare la loro inesauribile fame.
Come detto dagli stessi registi, “Dostoevskij” è una serie circolare, che parla di eterno ritorno e della ripetizione come difesa per non ricordare o, meglio, non ri-sperimentare quello che sarebbe o è già stato un crollo intollerabile, un’agonia primitiva (Winnicott, 1974). I fratelli D’Innocenzo non lasciano speranza e questo, insieme all’allergia per certi toni massimalisti e a una ricerca del parossismo non sempre a fuoco con la sceneggiatura, potrebbe essere un giustificato motivo per rigettarne le opere, nonostante l’indubbia qualità tecnica espressa.
“Dostoevskij” è un trattato sensoriale e teoretico sullo squallore e lo schifo del reale e, soprattutto, degli scantinati del mondo interno, dove la condanna alla ripetizione assume forme e proporzioni dantesche. Dissoltasi la tenerezza, il sadismo e la crudeltà sono l’unica via possibile di rapporto con l’oggetto, pur apparendo svuotati delle possibili componenti libidiche che, in non-luoghi come questi, sono una modalità di relazione ineludibile, non una possibilità tra tante.
Conosciamo bene l’importanza del terzo, inteso come funzione paterna separatrice, che permette al figlio di uscire dalla simbiosi con la madre e infine entrare nel mondo. Tuttavia, sembra dirci “Dostoevskij”, se la fecondità del primo amore viene meno, se non si nasce in due e al caldo (come ne “Le due madri”, sempre di Segantini), resta solo una terra di padri mancati: desolata, violenta e senza alcuna promessa di poter tornare, prima o poi, a casa.
Bibliografia
Augé, M. (2009). Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità. Elèuthera, Milano.
Ligotti, T. (2016). La cospirazione contro la razza umana. Il Saggiatore, Milano.
Spitz, R. (1972). Il primo anno di vita del bambino. Giunti, Firenze.
Winnicott, D.W. (1974). La paura del crollo. In Esplorazioni psicoanalitiche (1996), Cortina, Milano.