La 70esima Mostra del Cinema di Venezia
da Rossella Valdrè
Ricordo il rapidissimo pensiero appena uscita dall’interminabile “La moglie del poliziotto” (Die Frau del Polizei), che ovviamente ritenni di non includere nel commento: è uno di quei film che un qualche premio potrebbe prenderlo… Et voilà: Premio Speciale della Giuria al tedesco Philip Groning, autore del lungo e fin troppo manierato film tedesco, che ironicamente non suggerivo, infatti, a tutti i palati cinematografici. Contenta della seppur fugacissima previsione? No: anche se in genere leggo le critiche con granu salis per non esserne condizionata, questa volta sono d’accordo con quanto scrive oggi, giorno post-premiazione alla 70.Mostra del Cinema di Venezia, il Mereghetti su Il Corriere. Sono quel tipo di premi non immeritati in sé, poiché è certo un film autoriale, con una sua poetica e un suo pensiero, ma ben lo definisce ‘film da museo’: una volta visto, lo si può mettere in una bacheca, e lì resta. Niente a che vedere con l’emozione e la forza che mi trasmise, come ho scritto, il piccolo cileno La Ninas Pisque, passato invece inosservato.
Nonostante non lo abbia visto nella mia troppo breve permanenza, sono invece felice del Leone d’Oro a Francesco Rosi per il suo Santo Gra; non tanto perché italiano, sebbene faccia piacere essere finalmente riconosciuti dopo diversi anni, ma l’arte è arte e nulla ha a che vedere, a mio parere, con le appartenenze nazionali; soprattutto perché si tratta di un documentario. Genere frequentatissimo all’estero, il documentario (che ha invece una dotta e precisa tradizione in Italia) è del tutto negletto dalle sale del nostro Paese, privando gli spettatori di opere indimenticabili, spesso più belle di film veri e propri e comunque che si pongono a margine, sul confine tra la documentazione pura e la creatività filmica. Opere originali, che non si limitano a raccontare il vero ma, dove il regista ne è capace, comunque lo rimaneggiano, lo rivedono, lo elaborano, ne fanno una qualche traduzione narrativa. Qualcuno ha scritto, infatti, che il cinema sempre, anche quando pretende, o s’illude, di riprendere fedelmente la realtà, inevitabilmente la rilegge, la trasforma, ne fa opera d’arte, anche in misura sottilissima. Perché dunque il genere documentario sia stato esiliato dalle sale per finire, quando va bene, in improbabili orari televisivi, e se lo possano godere solo i fortunati che hanno l’opportunità, com’è successo a me, di scovarli all’estero, rimane un mistero. Quindi il sincero augurio, almeno da parte mia (benchè resti però molto diffidente che ciò accada) è che questo prestigioso Premio ‘sdogani’ finalmente il documentario dal dimenticatoio e la cattiva reputazione in cui è finito…e si possa, perché no, anche noi presentarne nella nostra area psicoanalitica.
Mi fermo con i commenti ‘a caldo’ (per mantenere l’ottimo clima che ha contraddistinto il lavoro mio e di Elisabetta) sull’esito del Festival.
Un’impressione, una sensazione generale? Woody Allen, com’è noto non amante dei Festival a cui negli ultimi anni confessa di dover andare per motivi di produzione e “far felice mia moglie che ama viaggiare”, dice che nei Festival si è fuori dalla realtà, non hanno niente a che vedere con la vita reale: lì sei in una favola, prosegue, tappeti rossi, donne meravigliose, fan che ti osannano…poi torni a casa ed è tutto come prima. Ecco: in quei tre giorni e mezzo a Venezia, forse facilitata dalla particolarissima posizione anche geografica del Lido, mi sono sentita assolutamente fuori dalla realtà, nel senso però migliore e più fruibile dall’inconscio, mi si consenta, del termine. In un’isola, geografica e metaforica, raggiungibile solo dai graziosi vaporetti delle mie reti internet e del cellulare. Con i piedi gonfi e il mio portatile in spalla tutto il giorno, sopportavo amabilmente code che diversamente mi farebbero impazzire, conversavo durante le stesse con altri appassionati accreditati che, sono certa, galleggiavano nel mio stesso stato d’animo, non vedevo l’ora di sedermi in qualche area wifi e raggiungere virtualmente i colleghi – e con essi tutta la SPI cui sono grata per avermi fornito la cornice in cui collocare questa passione – non solo per riposare i suddetti piedi, ma per la gioia di condividere, di offrire un piccolo commento a caldo di quanto avevo visto, con tutti i limiti ovviamente delle cose un pò frettolose. Ma anche con tutti i pregi di questo beato, e raro, stato d’animo: come a volte avviene scrivendo dopo che si è lavorato, o in certi attimi di seduta, o dentro di noi magari improvvisamente, l’accesso ad uno stato d’animo sospeso, né troppo reale né troppo irreale, come sognato…. Se entrando nel buio della sala cinematografica entriamo per due ore in quella preziosa regressione, essere al Festival è un po’ come soggiacere in quella dimensione pressocchè di continuo…
Il mio commiato con Bertolucci, ultima opera cui ho voluto assistere per la sua vicinanza alla psicoanalisi, ha conferito al tutto una nota di emozione che, devo dire senza smancerie, non mi ha più lasciata.
“Hai mai fatto un sogno tanto realistico da sembrarti vero? E se da un sogno così non ti dovessi più svegliare? Come potresti distinguere il mondo dei sogni da quello della realtà?”
Blade Runner (R. Scott, 1982)
Mi prendo la libertà di rimaneggiare così la citazione
“ e se da un sogno così non mi volessi più svegliare?”
Ecco la Mostra di Venezia per me, se sono almeno in parte riuscita a trasmetterne la complessa sensazione: sembrava di fare un altro lavoro, e invece facevo proprio, e nel modo migliore, il mio lavoro: la psicoanalista.
da Elisabetta Marchiori
‘I sogni sono comodi, si può andare ovunque’ (Miyazaki, da ‘Kaze Tachinu’)
Sono stata altre volte alla Mostra del Cinema di Venezia, ma così a lungo solo più di vent’anni fa. Giovane studentessa son partita, zaino in spalla, insediandomi da una prozia novantenne che abitava a Sant’Elena. Avevo solo voglia di andare al cinema, non sapevo cosa fare e la fortuna ha voluto che mi si avvicinasse una ragazza più o meno coetanea chiedendomi un’informazione. Ovviamente lei era molto più informata di me su tutto ed è finita che mi ha offerto una delle sue due tessere di accredito (la foto era sbiadita e una certa vaga somiglianza c’era): abbiamo fatto insieme una scorpacciata di film indimenticabile, ed è nata una straordinaria amicizia.
Saranno state l’intrepidezza e l’ingenuità della gioventù, ma quell’atmosfera splendente, davvero da sogno, mi pare si sia affievolita negli anni. Certo la Mostra non ha perduto il suo fascino, ma sicuramente è sbiadito. I film escono nelle sale, quelli che trovano distribuzione, quasi in contemporanea. Alcune opere, davvero notevoli, in Italia non si vedranno mai. Ne hanno parlato tutti i giornali, e non mi dilungo su questo.
Mi fa piacere di essere riuscita a vedere, commentare e condividere nel sito film che hanno vinto premi: ‘Il sacro GRA’, ‘Miss Violence’, ‘Philomena’, ‘Still Life’. Ho visto anche ‘Stray Dog’, Gran Premio della Giuria, di Tsai Ming-liang. Diciamo un film difficile, due ore e un quarto di sequenze a telecamera fissa e mute, ci vorrà ancora qualche giorno per digerirlo.
Il fatto che abbia vinto Rosi non mi ha stupito, visto che era stato annunciato da Bertolucci uno stupore che ovviamente si è trasformato in prevedibilità.
E’ vero che il documentario è un genere più apprezzato all’estero (questo premio lo sdogana definitivamente in Italia), ma mi pare che in questi ultimi tempi ‘faccia tendenza’: tutti conoscono le opere del premio Oscar di Michael Moore, distribuite in Italia. Vorrei ricordare che due anni fa Mazzacurati ha presentato il documentario ‘Sei Venezia’, che ha riscosso molto successo e peraltro ha diversi punti in comune con ‘Il Sacro GRA’. L’anno scorso ‘Sfiorando il muro’, della padovana Girallucci, ha avuto una discreta distribuzione. Quest’anno se ne potevano vedere una serie, a Venezia, compresi quello su Bertolucci ‘Bertolucci on Bertolucci’ di Guadagnino e Fasano e l’interessantissimo ‘The Unknown Known’ di Morris.
La maggior parte dei film che ho visto quest’anno sono tratti da ‘storie vere’ (compresi i vincitori), drammatiche, tristi, cupe. Come ha scritto Natalia Aspesi: una valanga di disgrazie, atrocità, miserie, assassini, alcolizzati, famiglie orribili e stupratori di cadaveri. Si è distinto il melodramma patinato di Leconte e due film più lievi e con una loro dignità, entrambi italiani: ‘Zoran, il mio nipote scemo’, di Oleotto, premio del pubblico alla settimana della critica e ‘Il terzo tempo’, di Artale, premiato per il budget. Bagliori di speranza, a mio avviso, risplendono nei film di Miyazaki ‘Kaze Tachinu’ e di Aramaki ‘Harlock: Space Pirate’. Spero di riuscire a scriverne quando usciranno nelle sale
Per quanto mi riguarda, l’esperienza di vedere film e commentarli così velocemente,‘a caldo’ è stata appassionante e soprattutto nuova. Tuttavia non son riuscita a scrivere su più di uno o due film al giorno, pur vedendone di più, per cercare di associare alla rapidità dello scrivere qualche ‘evocazione’ psicoanalitica. Io sono un’appassionata di cinema, certamente non un’esperta o critico, una spettatrice onnivora ed entusiasta: quando entro nel buio di una sala, qualsiasi film (o quasi) in qualche modo mi coinvolge, mi fa commuovere, arrabbiare, divertire, annoiare … insomma, le emozioni si attivano, così come gli affetti. Poi, fuori dalla sala, cominciano le associazioni libere, i pensieri prendono forma traiettoria: è un piacere poter scrivere e condividere una personale visione e versione del film, come spettatrice, appunto, che è anche psicoanalista.
E’ stata una sfida che son riuscita a portare avanti perché condivisa con altri colleghi e la redazione di SPIWEB. Voglio sinceramente ringraziare tutti.
Ora, cercando di formulare un pensiero conclusivo su questa Mostra, mi è venuto in mente lo scritto di Calvino ‘Autobiografia di uno spettatore’ (in ‘La strada di San Giovanni’, 1999). Ne vorrei riportare alcuni passaggi, sperando di invogliarvi a leggere l’intero saggio: io non saprei scrivere meglio pensieri in cui mi ritrovo appieno, e non credo di poter aggiungere altro.
Il cinema, prima della guerra, rispondeva a un bisogno di distanza ‘di dilatazione dei confini del reale, di vedere aprirsi intorno delle dimensioni incommensurabili’. Dal dopoguerra in poi lo schermo è diventato ‘una lente d’ingrandimento posata sul fuori quotidiano, e obbliga a fissare ciò su cui l’occhio nudo tende a scorrere senza fermarsi’. ‘Io comunque continuo ad andare al cinema. L’incontro eccezionale tra lo spettatore e una visione filmata può prodursi sempre, per merito dell’arte o del caso’. ‘Ma ciò che il cinema dà adesso non è più la distanza: è il senso irreversibile che tutto ci è vicino, ci è stretto, ci è addosso’. ‘Nei tempi stretti delle nostre vite tutto resta lì, angosciosamente presente; le prime immagini dell’eros e le premonizioni della morte ci raggiungono in ogni sogno; la fine del mondo è cominciata con noi e non accenna a finire; il film di cui ci illudevamo d’essere solo spettatori è la storia della nostra vita’.