Regia di Ivan Gregolet, Argentina-Italia-Slovenia – documentario – Settimana degli Autori
Commento di Rossella Valdrè
“Only because I know my limitations I can get to know other people ones”.
(Maria Fux)
Si chiude, ma solo per me, con questo Dancing with Maria – documentario a coproduzione, ma girato interamente a Buenos Aires – quello che per me è il fiore all’occhiello della Mostra, la Settimana della Critica da cui provengono la maggior parte dei lavori da me presentati. Raramente riempiono i paginoni della grande stampa, e spero sia dunque motivo di interesse andarli a scoprire in queste pagine.
Ringraziamo inoltre la collega Ambra Cusin, che ha gentilmente segnalato l’interesse di questo documentario sulla figura di una carismatica, oramai novantaduenne ballerina argentina, Maria Fux. Presenti alla proiezione tutti gli operatori dalla cui collaborazione il documentario è nato: il regista Gregolet, che ha impiegato quasi tre anni per questo lavoro, di graduale e paziente ingresso nel mondo anche privato di Maria che, come tutti i grandi artisti, sente come un’invasione (ha raccontato il regista) ogni intrusione nel suo spazio di lavoro, e ha consentito solo col tempo e la fiducia che si instaurasse una relazione che le permettesse di lasciarsi ‘mostrare’ nell’atto vivo del suo lavoro. Sì, poiché come gli Autori stessi dichiarano, la scelta è ricaduta non sul narrarne la lunga biografia, ma concentrandosi su un altro punto di vista: l’ingresso dello studio di Maria. Quel famoso portone in Avenida Callao, arteria centrale in Buenos Aires, da dove numerose persone, anche da più parti del mondo, arrivano per le sue lezioni. Persone qualunque, di ogni genere, provenienza, a cui Maria non chiede nulla che riguardi i dettagli dell’identità: non le servono, è il corpo che parla, è col corpo, come scriveva Grossmann in un noto romanzo, è col corpo che capisco chi sei, che ti conosco. Trovo sia qui, in questa scelta di far parlare, attraverso la danza e non il racconto, i molti corpi delle persone che popolano lo studio, il taglio originale di questo lavoro.
Maria, ancora affascinante signora novantenne in pieno lavoro, a cui brillano gli occhi per la gioia che ancora le conferisce il nutrimento della musica, ha ragione: la mia personale fantasia, mentre guardavo il leggiadro ondeggiare di questi corpi guidati dalla sua voce dolce e calda, andava agli scrittori, ad esempio, a come mi dispiace a volte sentirli intervistare in televisione, o vederli (alcuni) onnipresenti. Perché, mi si dirà? C’era forse bisogno di vedere in faccia Flaubert, o Goethe? No: voglio tenermi la mia fantasia, leggerli, scoprirli attraverso le parole, i libri. L’identità è un fardello inutile che ci svia….
“E il mio angolino nel mondo, il mio rifugio, la riserva naturale destinata a un unico animale, cioè a me, nell’incavo della sua spalla”.
(D. Grossman, Col corpo capisco)
Grande parte di queste persone che varcano la porta del suo studio, per la prima volta o per ritornare (“qui è un posto dove si torna”), hanno corpi malati, imperfetti, molti ragazzi Down, una donna senza una gamba, tra le voci narranti di come le fosse difficile essere accettata in una società che non tollera l’imperfezione, e di quanto la abbia aiutata ad appropriarsi anche della sua parte mancante, il lavoro con Maria.
Qui, benché ci manchi l’intera biografia, abbiamo però dalla voce di Maria il dettaglio più importante, quell’origine da un difetto (come citato in apertura) da cui comprendiamo tutto il senso della sua dedizione e della trasformazione che ha subito col tempo il suo lavoro. Maria nasce nel ’22 da emigrata russa che fugge dai Pogrom e che, gravata dalle molte gravidanze, resta zoppa.
“ Sono diventata la gamba mancante di mia madre”, è la frase centrale del film, a mio avviso.
La gamba mancante di mia madre.
Un lavoro ben riuscito, un lavoro che ci permetta di esprimerci fino alla fine, un lavoro che non è quello che si fa, ma quello che si è, nasce sempre da una riparazione. Maria diventa la gamba mancante della madre e, col tempo, lasciati i palcoscenici, si dedica sempre di più a quello che ci ha mostrato il documentario: dare gambe a chi non le ha, riparare le imperfezioni altrui, integrandole armoniosamente al corpo, quel corpo che sa già tutto, che ha già tutto in sé. Maria non deve inventare nulla; come commenta una persona dal pubblico nel breve dibattito dopo il film, essa è come “una levatrice”: fa emergere dal corpo, quello che il corpo contiene già, senza saperlo.
Come non pensare al lavoro psicoanalitico? Noi non creiamo nulla che il paziente già non possegga in sé, Freud l’ha sempre ribadito: la psicoanalisi vede la sua sostanziale differenza dalle psicoterapia perché non dirige, non aggiunge nulla, ma porta alla coscienza del soggetto, che poi avrà la libertà di farne l’uso che crede, il soggetto dell’inconscio, la conoscenza profonda, autentica di sé. Come la nota metafora dell’archeologo, lo psicoanalista e quindi Maria Fux, è come il chimico che solo solve, non coagula. E’ un concetto, che forse diamo per scontato ma che tengo sempre, personalmente, a ribadire. Perciò, dopo tanti anni dedicati a calcare le scene – dalla prima esibizione del ’42 alla fine degli ’60 che la vedono come una delle principali ballerine del balletto non solo argentino, ma mondiale, la Fux si dedica a quello che con una parola un po’ restrittiva si definisce Danzaterapia. Nel 1968 presenta al Congresso Internazionale di Musicoterapia, che quell’anno si svolge a Buenos Aires, una relazione sul tema “La danza come terapia” dove per la prima volta si parla dell’importanza della danza come mezzo educativo ed espressivo per gli audiolesi. Da quel momento Maria Fux diventa un punto di riferimento in Europa e nelle Americhe per la formazione alla danzaterapia. Anche in Italia, nel 1980 inizia la collaborazione con Lilia Bertelli con la quale fonderà a Firenze nel 1989 il Centro Toscano di Formazione in Danzaterapia “Maria Fux”. Centri a lei dedicati sono sparsi qua e là nel mondo: da ballerina eccentrica, fuori dalle scuole e dalle Accademie, che perfezionò col tempo un personalissimo stile tutto suo, in alcun modo catalogabile, oggi la Fux, questa anziana donnina sorridente, è nota e punto di riferimento soprattutto come danzaterapeuta.
In Italia, per tornare allo staff del nostro documentario, resta attratta dai suoi corsi Martina, che la seguirà in seguito a Buenos Aires, e che ha collaborato col regista alla realizzazione di questo film, avendo vissuto in prima persona l’esperienza, che dice unica, indimenticabile, del danzare con Maria. Il titolo non è casuale: sottolinea intanto che tutti, e non allievi scelti o chi abbia talento, possono danzare con Maria; e sottolinea che è un danzare con e non un danzare da. Certo, le persone si recano da lei, nel caldo studio in legno dove vive e lavora, ma una volta entrati Maria e l’altro sono come un tutt’uno, si ha l’impressione di una fluida continuità, di una simmetria, senza allievi né maestri: con la sua voce (la voce è importante, si segnala), Maria conduce, come in un canto, lascia che il corpo esprima, tragga da sé, come detto, quello che già possiede e attende solo di venire alla luce, di essere lasciato fluire.
Maria, lo abbiamo accennato, non sembra avere un percorso didattico lineare, non è inquadrabile in nessuna scuola; lei stessa, sarà scuola. Il suo primo spettacolo nel ’42, nasce osservando una foglia che si stacca da un albero: La foglia morta, si intitolerà. Questo è lo stile, se così si può dire questo trarre dalla realtà circostante, dalla natura con le sue imperfezioni, comprese quelle umane, che definisce la cifra personale dell’arte di Maria.
Della biografia, come detto, non ci viene raccontato molto, se non quell’incipit iniziale della zoppia materna che spiega tutto il senso di una vita: curare sé e curare l’altro, dargli quella gamba mancante. Non aggiungendo protesi, che già ci sono, ma supplendo alla mancanza con la danza. Con l’arte, cioè.
L’arte cura, l’arte compie il miracolo delle sublimazioni più riuscite, e ci consente, se siamo fortunati, di far fronte alle nostre mancanze, fisiche, morali. Scrive Louise Bourgeois, grande scultrice da poco scomparsa che mi ha evocato (nel mare delle mie solite mille associazioni) un intento riparato analogo a quello della Fux, su una materia diversa dal corpo direttamente umano:
“il mio lavoro è l’opera di ricostruzione di me stessa e trova origine nella mia infanzia… la memoria e i cinque sensi sono strumenti di cui mi servo.Il mio lavoro riguarda la fragilità del vivere e la difficoltà di amare ed essere amati… Utilizzo un linguaggio simbolico per esprimermi. Bisogna impregnare la materia di sentimenti. (…) L’inconscio è portato alla coscienza attraverso l’arte”.
Arte, danza, psicoanalisi. Tutto si ricongiunge, tutto torna. L’inconscio, con la narrazione analitica, col trattare la materia inerte, con la danza che cura, è portato alla coscienza; magari in un modo che il soggetto non avverte, ma trova un luogo la sua sofferenza.
Dopo una lunga vita attivissima, che l’ha vista per più di vent’anni sulle scene e in seguito girare il mondo con i suoi seguitissimi seminari, la Maria del film è la donna di oggi, una signora di novant’anni che non smette di credere nel potere della vita, della musica e della creazione, che oggi
combatte l’ultima battaglia contro i limiti del proprio corpo. E’ ancora bella, gli occhi divertiti, attenti (“quando ti guarda sembra ti legga dentro”), avvolta in un abito viola come un fiore.
La scena di chiusura, una grande danza su strada, sotto le finestre del suo studio, dal punto di vista di Maria sul balcone, è una sorta di affresco colorato, in armonioso movimento, dove moltissime persone danzano nel quadrilatero delle calle di Buenos Aires. Come realizzarla? Si è chiesto il regista; per lasciare spazio a tutti – racconta – alla fine abbiamo messo un annuncio su internet e hanno risposto 500 persone! Qualcuno, ha preso l’aero per venire…Realizzazione non semplice, ma riuscita: la fotografia finale, dal balcone da dove ne ha la veduta d’insieme, sembri che il cuore della grande città balli sotto di lei.
Maria Fux, un nome da ricordare.
Concediamoci una chiusura con un pò di leggerezza. In fondo il film ci ha fatto portare per mano da un personaggio solare, grata alla vita come dice lei stessa, ancora sorridente, l’occhio vitale, allegro…salutiamoci con lui, una delle sue battute:
“ eh sì, l’uomo consiste in due parti, la sua mente e il suo corpo. Solo che il corpo si diverte di più”.
(W. Allen)