Parole chiave: Killer; Cannibalismo; Trauma; Introiezione
Autore: Elisabetta Marchiori & Angelo Moroni
Titolo: “Dahmer. Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer”.
Dati sulla serie: creata da Ryan Murphy & Ian Brennan, USA, 2022, Netflix, 10 episodi.
Genere: drammatico, biografico.
È ottima la squadra che Ryan Murphy, regista, sceneggiatore e produttore statunitense, già noto per “American Horror Story”, “Hollywood”, “Pose” e da ultimo “The watcher”, chiama a raccolta per “Dahmer”, una delle serie Netflix più viste di sempre, tra cui spicca Janet Mock, nota attivista politica e scrittrice transgender, chiamata a scrivere la sceneggiatura. Gli attori sono tutti eccezionali, in particolare Evan Peters (Quicksilvernel film “X-Men-Giorni di un futuro passato”) nel ruolo di Jeffrey Dahmer “il cannibale di Milwaukee”, capace di interpretare intensamente la sofferta determinazione all’omicidio di uno dei serial killer più efferati.
È il 1991 quando, nella cittadina di Milwaukee, Tennessee, Jeffrey Dahmer viene finalmente arrestato dalla polizia a seguito della fuga dell’ultima sua potenziale vittima. Gli investigatori scoprono nel suo appartamento resti umani congelati, immersi nell’acido e in formaldeide, teschi e altre ossa, oltre agli strumenti che usava per trasformare le sue vittime in “zombie viventi” con iniezioni di acido muriatico nel cervello, per ucciderle, squartarle, smembrarle, oltre a una quantità di foto delle sue “opere”. Dal 1978 fino ad allora Dahmer aveva ucciso diciassette ragazzi tra i quattordici e i trent’anni — commettendo atti sessuali di necrofilia e cannibalismo — tutti omosessuali e di etnia afro-americana o asiatica, adescati nei luoghi di ritrovo delle comunità gay. Per questo, dopo un processo di grande impatto mediatico, viene condannato all’ergastolo, che non sconterà in quanto viene ucciso in carcere da un altro detenuto sofferente di schizofrenia.
La narrazione si muove con magistrale equilibrio essenzialmente su due registri: il primo è quello delle vicissitudini del protagonista e del suo sviluppo evolutivo e di personalità in un’ottica psicologica e psichiatrica; il secondo è quello dell’ambiente e della società, razzista e omofobica, che appaiono facilitare i suoi comportamenti e non proteggono né le vittime né i loro familiari. L’utilizzo di flash-back e flash-forward colgono i legami tra le esperienze affettive di deprivazione e di abbandono di Dahmer e l’estrinsecazione successiva dei suoi comportamenti efferati, di cui nessuno intorno a lui coglie i segnali molto evidenti. La madre (Penelope Ann Miller) era gravemente depressa, tanto da tentare a più riprese il suicidio, e in gravidanza assumeva farmaci potenzialmente pericolosi per il feto, mentre il padre Lionel (Richard Jenkins) era un chimico e uno scrittore, spesso assente e con comportamenti violenti, che non è a suo agio con quello strano bambino solitario, la cui unica passione è la tassideremia. Dopo litigi violentissimi, i genitori di Jeff finiscono per separarsi quando compie diciotto anni. Lasciato solo, compie il primo delitto proprio nella casa di famiglia, a diciannove anni. Abbandonata l’Università Statale dopo tre mesi, è costretto ad arruolarsi nell’Esercito, da cui viene congedato a causa dell’alcolismo; e va a vivere con la nonna paterna, l’unica figura accudente della sua vita. Anche lei si accorge ben presto che qualcosa non va. Il padre lo costringe a trovarsi un appartamento, dove intensifica la sua attività omicida. Pur essendo in libertà vigilata a causa di una condanna per pedofilia, pur essendo stato segnalato per atti osceni, per aggressioni e per il fetore e i rumori provenienti dall’appartamento, continua ad agire indisturbato.
Ma perché ancora Dahmer, sui cui sono stati già girati documentari e film? Avevamo bisogno di una serie su di lui, che ha scatenato anche le proteste dei familiari delle vittime ancora esposti senza essere stati interpellati? Cosa offre allo spettatore, oltre a soddisfare la pulsione voyueristica e a fornirgli l’illusione, come fa ogni film in cui sono messi in scena violenze e orrori, di poter fare i conti con i propri lati oscuri e con le minacce interiori, senza rischi? Non c’è nulla di catartico nella visione di questa serie: forse lo spettatore viene indotto al binge watching perchè alla fine di ogni episodio è la sua faccia che si riflette sullo schermo nero — una sorta di black mirror? — al posto di quella di Dahmer. Difficile tollerarlo: Dahmer riflette l’incarnazione della nostra mostruosità, del killer che è dentro di noi, ma anche delle perversioni insite nella nostra società..
Se a Venezia hanno premiato un film che ha come protagonisti due “romantici” adolescenti cannibali con storie di traumatismo pesanti — “Bones and All” di Guadagnino (2022) — la questione merita evidentemente un approfondimento. Quella è fiction, un’allegoria cinematografica, questa serie riguarda una storia vera: il punto che le accomuna è che, per sopperire alla mancanza dell’oggetto, per colmare lo spazio vuoto che è abisso senza fondo, i protagonisti, incapaci di introiettare, devono “ingerire” l’oggetto.
La serie non offre giustificazioni a Dahmer, ma non le offre nemmeno a noi. La nostra è una società colpevole di omissione di soccorso, incapace di offrire oggetti stabili interiorizzabili, non solo negli anni in cui “il cannibale” uccideva, ma anche oggigiorno. Sembra anzi sempre più cieca, sorda, muta di fronte ai segnali di disagio che bambini e adolescenti esprimono in vari modi, quasi sempre inascoltati. Un’assenza di ascolto che sempre più spesso prende la forma della non-presenza nella mente dell’altro, esperienza emotivamente invivibile di vera non-esistenza del soggetto che genera un dolore inelaborabile e un vuoto incolmabile, che possono arrivare ad esprimersi con pura distruttività omicida, primitiva e selvaggia. L’intera comunità psicoanalitica si sta impegnando con particolare serietà in questo momento in progetti aperti a livello sociale e istituzionale, oltre che clinico, per far fronte a questa emergenza.
Novembre 2022