di Pietro Roberto Goisis
Incontro nuovamente Alina Marazzi nella sua casa milanese due anni dopo la nostra precedente intervista. Nel frattempo sono successe molte cose. Tra le più importanti, a proposito del nostro tema, l’uscita del suo ultimo film (“Per sempre”, un viaggio all’interno del mondo delle monache di clausura) e la partecipazione insieme alla presentazione di “Un’ora sola ti vorrei” all’European Psychoanalitycal Film Festival di Londra. Il colloquio avviene alla presenza di Teresa che ormai ha quasi due anni e mezzo e che fra uno sguardo fuori della finestra per vedere la neve, un cartone della Pimpa ed una videocassetta di Piccolo Einstein ci ha fatto una compagnia discreta permettendoci di parlare.
R.G. Alina, tre anni fa è uscito il tuo film, che ormai vive una sua vita autonoma, e l’ultima presentazione di Londra è già alle spalle. Mi piacerebbe sapere cosa ti hanno lasciato questi anni d’accompagnamento al film, se qualcosa è cambiato nel tempo, che bilancio ne puoi fare.
A.M. Le cose ovviamente sono molto cambiate dalle prime presentazioni, anche perché sono successe molte cose, ci sono state varie proiezioni, poi è passato in televisione, successivamente è stato messo in programmazione al cinema, dove è resistito vari mesi. Il mio atteggiamento, il mio stato d’animo è cambiato moltissimo attraverso questi momenti della sua vita, ed ora della sua vita autonoma, slegata da me. Sebbene, ogni volta che ci sia stata una diversa forma della sua rappresentazione, io abbia ricevuto lettere, telefonate, messaggi.Sembra quasi inevitabile che molte persone che lo vedono sentano poi la necessità di entrare in contatto diretto con me. Che è una cosa forse naturale,ma anche un pò strana. E’ bella da un lato, ma mi mette anche un pò in difficoltà, perchè poi lo so che non riesco a rispondere a tutti. Ecco,all’inizio rispondevo quasi a tutti. Ora non ci riesco più, anche perchè non posso passare tutta la vita a rispondere su questo film. Lui ha una sua storia,mette in moto delle emozioni, e questa è un pò la sua funzione. La sua autonomia, quindi, è ora molto piacevole.
Un pò come quella che si prova verso un figlio che si autonomizza …
Si, anche se vederlo in programmazione sui giornali, nelle pagine milanesi dei film, è stato comunque un pò strano, così come sapere che era in TV e che uno poteva accenderla e trovarsi nel bel mezzo del film…un film così particolare, così mio, un pezzo del mio corpo, quasi….all’inizio mi faceva un certo effetto. Poi forse ho imparato ad affrontare questa dimensione, ad affrontare il pubblico, a gestire le domande ed a difendermi da quelle più personali, che poi sono sempre le stesse, su mio padre, sui miei parenti, aiutando anche le persone a passare oltre questo primo passo che è importante, ma mi sembra debba fare da ponte verso una dimensione più ampia. Quella mi sembra una dimensione più televisiva,ora mi pare di saper orientare meglio le discussioni, proteggermi un pò di più da queste intrusioni.
E Londra, in questo senso, com’è stata?
Non è che siano state dette cose che non avevo mai sentito in altri contesti. E’ vero che gli interventi erano più approfonditi, più pensati, erano anche emotivi, ma erano più articolati e sentivo che quello era un contesto di studio, sentivo che il film era un testo e quindi era un’esperienza più complessa, con persone che erano lì anche per portare il loro commento.
Poi, per me, come ho detto a Londra, era molto emozionante vederlo lì in quel contesto, in quel luogo, con quella lingua, a Londra, che è stato il luogo dove io ho iniziato a studiare cinema ed a lavorare con le immagini. Anche parlare in inglese aveva a che fare con il mio primo linguaggio cinematografico. Il fatto che ci fossero in sala delle persone con le quali avevo condiviso delle cose, un ex-fidanzato,gli amici, la compagna di scuola, la professoressa che è sempre stata un pò un mito, la proiezione (l’ho scoperto e ricordato dopo) nella stessa sala dove avevo proiettato il mio primo corto alla fine della scuola, lo stare due ore poi con tutte queste persone a parlare del più e del meno…è stato tutto molto importante, un ritorno ai luoghi.
Un’altra cosa, è successo anche a Londra, è il gran clima d’affetto, d’apprezzamento, di stima che ti circonda nelle proiezioni. Un’idea che mi sono fatto nel corso del tempo è tutto ciò avvenga,al di là degli aspetti estetici e dell’immedesimazione che si attiva, anche perchè tu, come persona, sia per il tuo presentarti come individuo che funziona, sia per il film che hai fatto, sia per come affronti il confronto dopo la proiezione, sei la testimonianza che c’è una possibilità di riparazione…
si, si (sorride Alina)
…che dà molto sollievo a tutti, credo. Mi chiedevo anche se questi momenti d’affetto ed apprezzamento hanno anche una funzione benefica, di ulteriore riparabilità collettiva, per te o se ormai il più è fatto.
Questo è stato molto forte all’inizio, alle prime proiezioni, che sono state quelle nei festival,dove ero presente io nel pubblico. Era veramente palpabile l’emozione, si sentiva, si percepiva. Magari non c’erano parole o ce ne erano meno. Qualcuno,però, alla fine si avvicinava molto emozionato e mi diceva delle cose molto belle. Poi dopo il passaggio televisivo hanno cominciato a chiamarmi. Uno dei primi è stato un gruppo legato all’Associazione IDEA. Così ci sono andata, ero curiosa, soffrivano esattamente dello stesso disturbo di mia madre, speravo di ricevere qualcosa anch’io. Tra l’altro ero incinta. Sono arrivata alla fine,loro avevano già visto il film, e già il mio arrivo è stato un colpo per tutti.C’erano persone più o meno sofferenti, tutti padri e madri di famiglia. Io ero per loro davvero un esempio di riparazione, una che dopo aver ritrovato la madre perduta, poteva anche mettere al mondo un bambino e continuare questa relazione. Infatti, un uomo sui 40 anni con due figli, con molta fatica mi ha chiesto che cosa pensavo di mia madre alla fine di tutto quel lavoro, se lei era degna di essere chiamata madre. Mi ha fatto molta pena per quel suo disperato bisogno di trovare sollievo ai suoi sensi di colpa. Un altro mi ha chiesto se non temevo qualcosa sulla trasmissibilità generica della malattia,Gli ho risposto che mi ero informata, ma non mi ero fermata di fronte al rischio. Si sono sentiti molto rasserenati. Era una circostanza molto specifica. E poi innumerevoli lettere di chi ha trovato consolazione dalla storia del film. Poi il film va in giro da solo e so che viene usato come testo in diversi gruppi e contesti, corsi, lezioni, Università, ecc.
A questo proposito vorrei parlare con te dell’uso dei film da parte degli psicoanalisti. Non so se è un’esperienza cheti era già capitata prima di “Un’ora sola ti vorrei”. C’è, come è noto, un particolare interesse del nostro campo nei confronti del cinema, sicuramente più che verso altre discipline o espressioni artistiche. Sarà per la similitudine spesso ipotizzata tra i meccanismi del sogno e quelli del film,sarà per altri aspetti. Io, a volte, ho però l’impressione che si assiste ad un rischio di vampirizzazione da parte nostra nei confronti del vostro mondo.Anche se non c’è quasi più nessuno che arriva e dice: “questo vuol dire così e questo vuol dire cosà”, a volte mi chiedo se davvero possiamo arrogarci il diritto di parlare di un campo che non è il nostro. Io, personalmente, sono molto interessato ai meccanismi che stanno dietro alla creazione di un film,non tanto o non solo sul piano creativo, ma soprattutto su quello di una mente che lavora per trasformare pensieri, ricordi ed emozioni in una creazione artistica. Vorrei chiederti qual è stata la tua esperienza, se questo incontro ti ha suscitato pensieri, reazioni, fastidi, o che altro.
Penso a Bertolucci a Londra, nel discorso che ha fatto quando ha ricevuto la Honorary Membership della Società Psicoanalitica Britannica, quando con simpatia ha detto che lui era in analisi da 30 anni…non è il mio caso, ma io so che molti registi ed artisti,tanti davvero, sono in analisi e, a volte, mi pare che tendano a pensare o a lavorare in “psicanalese”, a raccontare le storie così. Io non ci sono arrivata dopo un percorso di analisi. L’avevo incontrata, ma poi l’avevo sospesa, ero rimasta un pò perplessa. Comunque, fastidio no, questo non l’ho mai provato in questi anni negli incontri che ho avuto. Forse ora sono un pò in difficoltà con le continue richieste che ricevo per presentare il film da varie associazioni,specie se io spiego che per vari motivi non posso esserci; a volte trovo un’insistenza che dà fastidio, come se senza di me tutto fosse diverso, la presentazione, il dibattito, ecc, in una dimensione un pò televisiva, dove ci vuole per forza l’ospite. Si, lì sento un pò la vampirizzazione, l’entrare coninsistenza nel mio privato. Credo che il film sia già ricco di suo, che dica tante cose interessanti, che possa vivere una sua vita autonoma anche senza di me. Certo, lo so che se ci sono io possono uscire delle cose diverse, ma questo disagio non riguarda solo l’incontro con gli psicoanalisti. Altrimenti, nei vari incontri che ho avuto con chi si è interessato al film, se ne è un pò innamorato (come te…), in quei casi non ho mai sentito una posizione di”spiegazione” o di interpretazione, quanto piuttosto uno scambio che parte dei vostri pensieri ed emozioni, ed allora mi è sempre sembrata un’opportunità interessante che mi ha arricchito.
Sui processi creativi, non c’è quindi il tuo diretto rapporto con la psicoanalisi, ma c’è comunque necessariamente l’incontro con il tuo mondo interno…
Certo, poi tu lo indirizzi in termini scientifici, io nel fare un film…
In questo senso c’è una cosa interessante che ho visto accadere a Londra nelle varie edizioni del Festival nei dibattiti dopo le proiezioni, quando, dopo gli interventi dei vari partecipanti, accadeva che i registi fossero incuriositi, non tanto dalle interpretazioni che ricevevano, quanto da uno scambio che partiva dalle reciproche esperienze emozionali ed a loro capitava di dire: “Ah, interessante, a questa cosa non avevo pensato!”. Era davvero uno scambio fruttuoso di pensieri e sensazioni.
Si, ho capito, ora non mi vengono in mente degli episodi, ma so che sicuramente è successo. Poi,sai, ognuno ci vede le proprie cose, quello che è più vicino a sé. Ricordo che a Londra nel dibattito degli analisti tedeschi hanno detto che il mio film era come il romanzo dei Buddenbrook…è chiaro che era vicino al loro background. Chi ci vede di più la storia della borghesia, chi la mamma, chi il padre, ecc.
Un ultimo aspetto che vorrei affrontare si riferisce al tuo ultimo film. Nell’altra intervista, parlando del futuro, tu dicevi, con grande efficacia, che non sapevi cosa avresti fatto, che per ora ti bastava aver fatto questo film. Ora un altro l’hai fatto… e qui, citando Billy Crystal quando dice a Robert De Niro in “Terapie e pallottole”: “Signor Vitti, ora io mi devo esporre…”, anche io ora mi esporrò… facendo lo psicoanalista. Il tuo ultimo film si occupa della fede, ovviamente. A me è venuto in mente che tu non hai mai parlato della scomparsa di tua mamma come di una assenza, ma sempre come di una mancanza, molto legata quindi al tema della nostalgia, che si può provare, secondo me, solo se si è potuta sperimentare una presenza. E credo che per potersi aspettare una sorta di ritrovamento di chi si è perduto, bisogna fare i conti con la fede, con la fiducia. Forse non è un caso, quindi, che tu ti sia trovata a trattare questo tema. L’altra cosa che mi ha colpito è la dimensione temporale dei tuoi titoli…un’ora sola, per sempre…se unissimo i due titoli verrebbe “Un’ora sola ti vorrei per sempre”, come se ora il desiderio fosse quello della stabilità, che forse riguarda anche Teresa ed il tuo nuovo ruolo…per sempre figlia, per sempre madre.
Mi fa piacere questa osservazione. Proprio ieri una persona mi ha scritto che vedeva una continuità nel mio lavoro, nel mio interesse alla dimensione temporale, dall’ora al sempre. La fede, invece, è entrata in connessione all’inizio della lavorazione quando ho mostrato il film precedente ad una badessa e lei, fra i vari commenti ed apprezzamenti, ha detto che a mia madre era mancata la fede. Certo, poi a me questo tema interessava molto, la scelta estrema di una donna che prende i voti, che si ritira. Poi loro, le monache, quelle che hanno accettato di incontrarmi, si sono messe molto in gioco con me ed io l’ho apprezzato molto,ed io pure sono cambiata molto durante il film e credo che la cosa si veda, ed è il senso del film.
Questo ultimo lavoro è stato davvero strano, al di là del mio interesse, dato anche il momento che vivevo; era appena nata Teresa, avevo poco tempo, quel poco lo usavo cercando di andare a parlare con delle monache di clausura…forse ero io davvero un po’in clausura, nella mia difficoltà a muovermi da casa ed a trovare la disponibilità dei miei interlocutori. Poi nel montaggio abbiamo dovuto costruire una storia ed è venuta fuori una cosa molto più teorica, una specie di trattatello, certamente meno emozionante del film precedente. So che qualcuno è stato deluso, ma non è che se ho fatto un film così, allora sarà sempre così…no, quello è unico. Questo è stato un film di passaggio, molto legato al momento che vivevo e nel quale mi sono anche molto demoralizzata perla fatica che facevo a trovare interlocutori disponibili. E mi piace che qualcuno ci trovi una continuità, dato che per me è stato un film importante e necessario. Poi il prossimo sarà sulla liberazione sessuale, perchè ormai è chiaro che l’approdo è quello! Dall’ascetismo, alla sessualità. E’ inevitabile,direi.
Ecco, questo è proprio il senso di quello che ti dicevo prima. Cosa sta dietro ad un processo creativo. Su questo credo che i nostri due mondi possano incontrarsi e che possa essere un incontro fecondo ed utile.
Si, penso che se uno riesce a mantenere una messa a fuoco su quella cosa che sta cercando di fare,che magari non è tanto chiara, sull’intuizione che ha avuto, si, che possa essere utile. Poi magari il risultato non è sempre quello che tu ti aspetti oche desideri, ma è sicuramente molto arricchente ed ogni volta impari qualche cosa in più.
Sono due menti che si parlano e si conoscono. Bello!