I pazienti del dottor Mari costituiscono un fotogramma abbastanza fedele della realtà di un analista. La pratica clinica di ogni giorno accoglie una sofferenza diffusa, un molteplice confuso e disorientato che travalica il censo, la provenienza, e altre appartenenze più o meno riconosciute.
Non mente il film quando mostra un reale sporco, disordinato, alcolista e tossicomane, che non poco confligge con una certa idea, purtroppo ancora in voga, della pratica clinica come balocco profumato o disciplina asettica e d’elitès. La gente di carne, che corrisponde in pieno ai pazienti che bussano alla porta del dottor Mari, corrisponde sempre meno ai casi clinici esposti nei congressi altisonanti o discussi a più voci.
L’epoca del consumismo salutista ha riempito gli scaffali di rimedi farmaceutici pronto uso per affanni dell’anima da poco sfornati dagli scriba del DSM, capaci di catalogare e tramutare tante sfumature dell’animo umano in ‘patologie’. Anni e anni di negazione della nostra interiorità hanno portato ad una generazione più incline alla pillola che non alla introspezione.
“Dicono che sono brava a insegnare, vorrei che lei mi dicesse di cosa soffro, e cosa secondo lei posso fare”, dice la giovane ragazza anoressica che sta “un po’ male”, e bussa alla mia porta perchè “bisogna curarsi”. Senza una identità definita, non del tutto inseriti nel legame sociale, non completamente dentro alla famiglia, non convinti. Un po’ sofferenti, un po’ gaudenti nel loro soffrire. Un poco boh… In cerca perenne di identità, di accettazione, di una collocazione difficile in quanto privi di un Altro alle spalle che abbia loro fornito una solida base. Questi sono gli italiani del contemporaneo. Il lavoro analitico è difficile, oggi, nella misura in cui la soggettivazione paga il prezzo a miriadi di identificazioni, sovente sintomatiche, delle quali si è perso il conto. Nelle prima puntate infatti l’inconscio si mostra con episodici lapsus, lontani dal paziente sul lettino. Sommerso come è da molteplici oggetti che possono saturarlo, silenziarlo, reperibili fuori dallo studio dell’analista Castellitto.
Per contro, il signore che sta realmente male, si presenta con la carta patinata dello studio professionale, che lo definisce affetto da “depressione di terzo grado legata ad evento stressante”, formula che lo inquieta e sovrasta il suo dire.
“Ho qualcosa? Ma cosa ho?” parole che diventano un’infinita interpellanza in cerca di una diagnosi che li plachi. Etichetta che facilmente trovano anche presso gli studi degli analisti.
La psicoanalisi deve essere attuale, ma demodé: cioè perseguire una pratica della singolarità e rinunciare a categorie onnicomprensive che nascondono il soggetto e schiacciano l’inconscio e le sue produzioni.
Molti psicoanalisti, per contro, hanno tramutato l’analisi in una religione per pochi adepti, sostituendo ai pazienti del dottor Mari tomi di infinite disquisizioni teoriche, sempre più fini, sempre più ‘eleganti’. Edificando luoghi dai quali si può uscire convinti che le psicosi o le depressioni siano raffinate costruzioni, appannaggio di grandi musicisti scrittori, o poeti. Certi che un qualsiasi Herr Schreber aprirà il libro dei suoi deliri accompagnandoci in un percorso di verifica delle nostre teorie. Seccati se questo non avviene.
Il dottor Mari dunque apre la porta a richieste svogliate, scoraggiate e poco inclini a ogni accenno di approfondimento, poiché vedono l’analista come il tedioso padre che, ad ogni costo, vuole condurli alla radice dei loro comportamenti, superato da centinaia di rimedi farmacologici acquistabili ovunque. Bene fa a essere informale senza essere narciso, presente ma non presenzialista. Per questo motivo, e il film lo mostra bene, il transfert appare debole, cercando la prima paziente di mettere subito l’analista al suo pari, come uomo sul quale alimentare fantasie erotiche, stupita della sua non reazione.
L’impassibilità e il silenzio del buon analista, sono considerate oggi una anomalia retrograda, in un mondo liquido, spettacolarizzato, nel quale chi non accetta l’ingaggio o non nutre il suo narcisismo nei luoghi dello spettacolo, appare fuori tempo. Vedremo nel seguito delle puntate, se la capacità dell’analista saprà sgombrare il tavolo da tutti questi preliminari, e aspettare l’inconscio manifestarsi in maniera più completa.
‘Faccio l’analista perché so aspettare’, scriveva J.Lacan. Una massima fuori moda, oggi che i pazienti paiono avere fretta di guarire, come molti analisti di arrivare ad avere dati da pubblicare.
16 aprile 2013