Cultura e Società

Ciak si gira

26/06/13

CIAK SI GIRA. Psicoanalisi al cinema, Ed. Effigi,  Arcidosso, 2013 

Recensione a cura di Rossella Valdrè 

           “I film sono come i sogni, soggetti alla stessa, incontrollabile dinamica.
                                               E viceversa, i sogni sono come i nostri film…” 

                                                                                                                      David  Cronemberg*

E’ con quest’ opportuna premessa, che farà da fil rouge a tutto il libro e che ci segnala da subito Stefano Bolognini nella sua prefazione, che si apre il bel testo curato dal gruppo dei colleghi toscani Andrea Marzi, Carbone e Giovannoni: è mutato l’approccio con cui la psicoanalisi, oggi, guarda al cinema. Sganciato ormai da tempo dai pedissequi, seppur interessanti, tentativi interpretanti del passato, abbandonate le letture sature della cosiddetta ‘psicoanalisi applicata’ e lo stile conferenziale, oggi lo psicoanalista – sempre più interessato al cinema e potremmo dire, anzi, inscindibilmente legato ad esso – “punta a far lavorare “(p.5) la mente degli spettatori, insieme alla propria, attraverso associazioni d’idee, suggestioni, metafore, evocazioni interne. Il film offre lo spunto, come ricorda il regista Cronemberg nell’intervista rilasciata a Cannes nel 2010, affinché ciascuno di noi intercetti aree, crepe dall’inconscio, pulsioni normalmente rimosse, in misura analoga a quanto avviene nel sogno, o nel pensiero onirico della veglia (Bion, 1962), consentendoci di transitare beneficamente in quel territorio psichico che Marzi definisce “regno intermedio”(p.69), in bilico tra fantasia e realtà, senza che l’una prevarichi sull’altra, soddisfacendo così desideri spesso inaccettabili alla coscienza, erotici e aggressivi, che la fantasia realizza, laddove la realtà è costretta a reprimerli. Operazione dunque estremamente benefica, terapeutica e catartica, quella che il cinema in particolare ma ogni forma d’arte in generale, esercita su di noi, dall’autore al singolo spettatore. Inoltre, come valore aggiunto, potremmo dire, nelle moderne presentazioni di film in ambito psicoanalitico, il tutto avviene in uno spazio condiviso, in un “campo” di “reciprocità informativa (…), di creazione continua” (p. 88), co-creazione potenzialmente inesauribile, trasformativa e fonte di “infinite attribuzioni di senso” (p.89).
Non si tratta quindi, con Ciak si gira, semplicemente di un ennesimo libro in più su cinema e psicoanalisi, ma di un libro che, nella prima parte, introduce il lettore a una disposizione d’animo la più consona e recettiva possibile perché sia raggiunto direi, e non solo informato, sul film di cui andrà poi a leggere nella seconda parte.
Il libro si compone, infatti, di due sezioni: la prima, preceduta dall’introduzione che ne illustra lo schema generale, vede i ricchi contributi di Albero Angelini, Paola Golinelli e Andrea Marzi; nella seconda, le singole schede di presentazione dei cicli di film che dal 2007 al 2011 sono stati proiettati nella rassegna che dà titolo al libro, Ciak si gira! Psicoanalisi al cinema, frutto della collaborazione del Centro Psicoanalitico di Firenze con l’Associazione Senese di Psicoterapia Psicoanalitica. La parte seconda che contempla appunto le presentazioni dei singoli film, si compone a sua volta di quattro film per anno, raggruppati secondo un ordine più evocativo, direi, che di ‘genere’ o tematico in senso stretto: film italiani recenti particolarmente significativi al nostro discorso; l’universo della famiglia e dell’adolescenza; le vicissitudini “del perdere e del perdersi”, i “tormenti” che l’individuo attraversa in guerra e pace; le ricerche di identità tra “passato e futuro”; e due pellicole finali sul senso del morire, declinate attraverso i vertici apparentemente lontani de Il cigno nero e di Hereafter.
Lascio al lettore la breve immersione nella trama e nell’emozione del singolo film, emozione di cui il commentatore offre uno spunto, completo e al tempo stesso nuovamente insaturo, ma la cui suggestione non può essere che liberamente e personalmente elaborata all’interno di ciascuno di noi, in misura, credo, sempre assolutamente privata e personale. Mi soffermo invece sui capitoli introduttivi che, come detto, fanno da cornice teorica e concettuale alla comprensione del testo.
Alberto Angelini abbraccia diverse tematiche, tutte intimamente e coerentemente tra loro intrecciate: i meccanismi psichici inconsci nella visione del film (riferendosi in particolare a Musatti, 2000); la psicologia e gli studi sulla percezione; il ruolo delle pulsioni e soprattutto della violenza; l’interessante rapporto tra cinema e Storia, passando attraverso le innovazioni portate da cineasti come Ejsenstein, nonché accenni alle note teorie di Christian Metz, semiologo tra i primi ad occuparsi di cinema e psicoanalisi  (1968, 1980). E’ concetto di fondo al pensiero di Angelini, da me pienamente condiviso (Valdrè, 2013) che “il cinema presenta, il teatro rappresenta. (…) Il cinema, che è fatto di ombre colorate sullo schermo, sembra vero. Il teatro, che è fatto di persone vere, sembra finto. Il cinema possiede un carattere di realtà” (p.31).
Si intersecano qui, sul rapporto tra cinema e realtà, sfumature diverse nelle varie concettualizzazioni: da Pasolini che vi vedeva “la lingua parlata della realtà”, in assoluto anticipo sulla letteratura e sul teatro (1974), al più recente Zizek (2004), più volte citato nel libro, che in una delle sue brillanti analisi arriva ad affermare che il cinema, giocando impressionisticamente col reale, lo de-realizzi, lo addomestichi: in una parola, è più reale della realtà. Cos’è più reale, si domanda, infatti, Zizek, lo schermo o la realtà?  Poiché la realtà è già impregnata dalle nostre proiezioni inconsce, è già per ciascuno di noi una realtà soggettiva, abitata e in qualche caso deformata dai nostri fantasmi, la realtà non può dunque che essere già sempre cinema. Autori come Metz, Baudry e in parte lo stesso Zizek, di ispirazione lacaniana, sottolineano invece il carattere di impressione di realtà, come se questa venisse riflessa in uno specchio. Ma al di là di queste sottili disquisizioni, a mio avviso più teoriche che di sostanza e nelle quali non vi è il tempo di addentrarsi, che sia Angelini che Marzi a più riprese accennano nel libro, è certo che il cinema non solo si configura come una forma d’arte a pieno titolo, ma come un’arte autosufficiente – come per primo la definì Deleuze – che non corrisponde a nessun’altra forma estetica, E di cui, per tornare al nostro discorso, la psicoanalisi ha tutta la legittimità di occuparsi, come scrive Marzi nel suo capitolo, “in quanto (il cinema) si occupa, come la psicoanalisi, di fantasmi e dell’irrazionalità umana” (p. 77). Tutto ciò che riguarda l’umano, ci compete e ci interessa: superata l’epoca del biografismo psicoanalitico e delle sue possibili banalizzazioni e riduzionismi, il libro riprende in più passi le prime intuizioni di Musatti, non a caso primo grande maestro della psicoanalisi in Italia, che sosteneva fosse impossibile, per chi si occupava di cinema non occuparsi anche di psicoanalisi (p.66).  Angelini ripercorre brevemente le varie fasi del cinema, da quello degli inizi, al classico hollywoodiano, al moderno narrativo fino al contemporaneo, segnato perlopiù dalla cifra della sensoralità e della spettacolarizzazione, ma di cui è ancora prematuro poterne parlare in misura compiuta, e non manca di dedicare qualche riflessione al rapporto, che soprattutto in passato fece molto discutere, fra cinema e violenza. Senza addentrarci in questo che sarebbe un tema in sé, si tende o oggi a non accostare direttamente la violenza sullo schermo ai possibili comportamenti nello spettatore; da recenti ricerche sembra anzi che sia proprio l’ipertrofia della violenza a portare a una sorta di desensibilizzazione nello spettatore, di “pigrizia” verso la violenza stessa (King, 2004).
Paola Golinelli si sofferma invece ampiamente su un film non presente tra quelli citati nella rassegna, e ne fa perciò un’analisi a sé particolarmente approfondita: Whisky, degli uruguayani Rebella e Stoll (2004). Affido anche in questo caso al lettore il piacere di addentrarsi nell’intreccio della trama, qui imperniata attorno ad un triangolo amoroso, per sottolineare quello che mi pare l’intento principale dell’autrice, ossia cogliere il delicato parallelo tra la storia dei personaggi e il lavoro analitico. Parallelo che definisco ‘delicato’ perché il testo, come evidenzia Eco (1990) quando parla dell’intenzione del testo, il testo ha in sé qualcosa da dirci, pur restando aperto all’interpretazione: ecco qui un’altra fertile analogia col lavoro analitico e con l’interpretazione (Ferro, 1999).  Vicende come quelle del film, dominate dalla coazione a ripetere e dalla pulsione distruttiva, s’incontrano spesso nel nostro lavoro, trovandoci a volte desolatamente impotenti come i tre personaggi, ma una lettura approfondita suggerisce che forse non tutto è senza via d’uscita, Come nel film, anche nelle nostre narrazioni si colgono a volte interstizi, pieghe, spiragli che si aprono, “piccoli pertugi” (p64) dischiusi alla speranza e al cambiamento.
Col capitolo di Andrea Marzi, che chiude la prima parte ed è seguito dalle schede dei film, si riprendono le fila, per così dire, della regia complessiva del libro, di cui abbiamo già tracciato qualche cenno in apertura. Sotto il profilo psicoanalitico, Marzi riparte da Freud che, per primo, aveva visto nell’artista qualcuno cui siamo sempre debitori, il cui accesso all’inconscio avviene prima e più facilmente che nel resto delle persone e con la stessa psicoanalisi, qualcuno che ha la fortuna, grazie al suo talento, di trasformare, trasfigurare le rinunce pulsionali in fantasie di cui può godere lui stesso e tutti noi che ne fruiamo, attraverso il piccolo miracolo della sublimazione. Dagli studi di Freud, ai contributi successivi di Winnicott con lo spazio potenziale e “l’area intermedia”, sede elettiva dell’elaborazione culturale, attraverso la Klein e la Segal con i concetti di riparazione e di ‘equazione simbolica’, ai classici contributi di Kris sulla centralità dell’Io nell’elaborazione dei fantasmi originari a fondamento dell’arte, per arrivare a Bion e allo statuto, cui ho fatto riferimento in apertura, del sogno.
E’, infatti, nella sintesi bioniana, arricchita dalle prospettive lacaniane in più punti riprese nel libro, che il cerchio, diciamo così, si chiude: scevro da ogni tentazione riduttivamente interpretante o didascalica, il nostro sguardo all’opera cinematografica (arte, abbiamo detto, autosufficiente e potentemente metaforica) affronta il testo in analogia col sogno, pur riconoscendone le ovvie differenze. Per identificazione e proiezione, così come nel sogno o anche nella seduta, “esistono passaggi dove lo spettatore soffre” (p 47), accede al preconscio e ve ne esce ritornando nei suoi panni quotidiani consueti, può momentaneamente evadere la realtà senza negarla psicoticamente, ricevendo anche tutto quel bagaglio di ricordi e memorie di cui il cinema è importante veicolo di trasmissione (a proposito del rapporto tra cinema e Storia). E’ suggestivo notare, con Angelini, l’elemento d’irriducibilità e d’immaginario sempre presente nel cinema: a differenza del documentario, nemmeno il Neorealismo, perla innovativa del cinema italiano, “riuscì ad essere pura registrazione del reale “(p46).[1]
Sono d’altronde gli stessi autori, registi o sceneggiatori,quando intervistati o nei loro rari scritti, a riconoscere quanto del patrimonio del sogno si trasferisca, più o meno consapevolmente, nelle loro opere, e di quanto quest’operazione sia una sorta di necessaria autoterapia; lo affermava Fellini, Bertolucci, lo abbiamo visto in Cronemberg, persino un pioniere come Jean Renoir trovava che  “al cinema la differenza fra il sogno e la realtà  (fosse) abbastanza fluida” (1954).
La sollecitazione regressiva stimolata dal buio, dal silenzio della sala cinematografica (“l’essenza del cinema è il silenzio”, diceva Chaplin) non è fine a se stessa ma si offre all’elaborazione successiva, alle potenzialità trasformative, e perciò evolutive, che silenziosamente avvengono all’interno dello spettatore. Aggiungerei, di ogni spettatore: nessun’altra forma arte come il cinema, diversamente dal teatro come visto all’inizio, è in grado di raggiungere trasversalmente vaste fasce di persone, sparse per il mondo, differenti per cultura e capacità elaborativa, ma che la “forza espressiva” del cinema, la sua “potenza metaforica” (Pasolini, ib.), riescono a intercettare; persone che non vi avrebbero, con altre forme stilistiche, avuto accesso. La funzione mitica del cinema (Antonello e Bujatti, 2009), un tempo affidata alla tragedia, in quanto eterna e universale è in grado di raggiungere un vastissimo spettro di individui: ossia depotenziare e simbolizzare, proiettandoli sulla scena esterna, i nostri impulsi aggressivi, le nostre paure e ossessioni.

Un libro dunque di piacevolissima lettura, utile allo specialista così come all’appassionato di cinema o al lettore semplicemente curioso, che non si limita a presentare un elenco di film (la cui riduzione e traduzione in parole è peraltro sempre complessa) ma s’inserisce con una sua propria originalità nel moderno filone che vede non tanto la psicoanalisi ‘interpretare’ o fornire nuove teorie sul cinema, ma se ne nutre e se ne arricchisce a sua volta in un continuo interscambio creativo.
Ci ritroviamo, nello scorrere delle pagine, nella felice osservazione di Jean Cocteau:

                                                                                “Vede, il film non è un sogno che si racconta, ma un sogno che stiamo sognando tutti insieme….”

Bibliografia 

–          Antonello P.P, Bujatti E. (2009) : “ La violenza allo specchio. Passione e sacrificio nel cinema contemporaneo”, Transeuropa, Massa Carrara
–          Bion W. (1962): Apprendere dall’esperienza. Armando, Roma, 1972
–          Brown T., Vidal B. (2013): The Biopic in Contemporary Film Culture. London, Routledge Eco U. (1990): I limiti dell’interpretazione, Bompiani, Milano
–          Cappabianca A. (2003): Ambiguità. In: Enciclopedia del cinema. Roma, Treccani
–          Ferro A. (1999): Psicoanalisi come letteratura e terapia. Cortina, Milano
–          King. G. (2004): Killing Funny. In: (by Schneider: New Hollywood’s comedy of Violence), Manchester University Press
–          Metz C. (1968): Semiologia del cinema, Garzanti, Milano, 1972
–          Metz C. (1980): Cinema e psicoanalisi. Il significante immaginario, Marsilio, Venezia, 1993
–          Musatti C. (2000): Scritti sul cinema. (a cura di Romano D. F.), Testo e Immagine, Torino
      –   Pasolini P.P. (1974): Tre riflessioni sul cinema. In: Saggi sulla letteratura e sull’arte. I Meridiani, Mondadori, Milano, 1999
–          Renoir J. (1954): Cahiérs du Cinéma, n. 38. Testo rivisto dal regista nel (a cura di Mollion L.), 1973
–          Winnicott D. W. (1971): Gioco e realtà. Armando, Roma, 1974
–          Valdrè R. (2013): La lingua sognata della realtà. Cinema e psicoanalisi nell’esplorazione della contemporaneità. Antigone, Torino (in corso di pubblicazione).
–          Valdrè R. (2013): Cinema e violenza. Banalità del Male nel cinema contemporaneo: la violenza in guanti bianchi. In (a cura di Francesconi M, Scotto di Fasano D.): Il sonno della ragione. Saggi sulla violenza, Ipoc, Milano (in corso di pubblicazione.)
 –    Zizek S. (2004): Dello sguardo e altri oggetti. Saggi su cinema e psicoanalisi. Campanotto, Udine

Note

* Mostra del Cinema del Festival di Cannes, 2011

[1] Pur non essendo questa la sede per disquisirne, aggiungo che anche nel genere ‘documentario’ esistono interessanti letture che ne mettono in discussione il carattere di pura e semplice riproduzione del reale (si vedano tutti gli studi sul ‘biopic’; Brown e Vidal, 2013). Osserva Cappabianca (2003) che  nel cinema in generale, diversamente da quanto si pensava all’inizio della sua scoperta in cui lo si riteneva uno specchio fedele della realtà, la nozione di realtà diventa immediatamente ambigua nel momento stesso in cui essa si predispone ad essere ripresa. Per tali motivi ancora di più, nel genere documentario, il rapporto realtà-finzione resta un nodo fondamentale sottoposto sempre a una qualche manipolazione, anche per motivi che vogliono essere ‘positivi’, ad esempio ideologici, censori, ecc…

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