Autore: Giovanni Miotto
Titolo: “Better Call Saul”
Dati sulla serie: creata da Vince Gilligan e Peter Gould., USA, 2015-2020, 5 stagioni, Netflix
Genere: Drammatico
In questi momenti di isolamento, in cui il contatto umano è diventato di per sé pericoloso, è quasi indispensabile affidarsi ai personaggi dei romanzi, dei film e delle serie tv, per dare adito ad un dialogo interiore che permetta, immedesimandosi nell’altro, di ritrovare le parti di sé più scomode e addolorate.
Queste caratteristiche sono molto evidenti nella serie “Better Call Saul”, spin – off di “Breaking Bad” (vedi commento di Elisabetta Marchiori) che si sta avviando alla conclusione con la sua quinta stagione: la trama si sviluppa in un lungo approfondimento sul percorso di crescita emotiva e umana di James McGill/Saul Goodman (Bob Odenkirk), scalcinato avvocato con un passato da truffatore e un fratello ingombrante.
Nulla ethica sine aesthetica, Ethik und Ästhetik sind Eins, vale per la psicoanalisi così come per la fruizione di una serie come questa. I creatori, Peter Gould e Vince Gilligan (“Breaking Bad”, “X-Files”) tratteggiano i personaggi con delicatezza minimale, quasi stilizzata, cospargendo però le puntate di indizi, spunti, dettagli apparentemente insignificanti ma rivelatori, aiutati anche dalle interpretazioni magistrali degli attori.
Fotografia e sonoro sono di estremo impatto e molto curati, i ritmi sono lenti, gli sceneggiatori più che le parole usano il tempo e lo spazio per definire un movimento interiore, sullo stile di Tarkovskij, con la vegetazione fluviale e gli austeri paesaggi baltici sostituiti dall’arsura desertica del New Mexico.
A cavallo tra presente, passato e futuro, con una linea temporale fluida, tra dilatazioni e restringimenti, tra ricordi e squarci d’avvenire: ci si ritrova come immersi in un flusso di libere associazioni, dalle quali intuire come (si) è diventato (i) ciò che (si) è. La trasformazione da Jimmy a Saul passa per drammi famigliari, errori imperdonabili, perdite traumatiche e anche qualche momento di amara ilarità. In tutto questo Jimmy/Saul, nella sua liricità sempre profondamente umano, è un po’ Sisifo, un po’ Orfeo, a tratti Icaro, a volte Ulisse e, verso la fine, anche un po’ più consapevolmente di prima (e arriverete a dire finalmente!) Narciso.
Si tratta di un romanzo (decisamente non borghese) su un uomo, a volte troppo umano, a volte dolorosamente umano. Ma si tratta principalmente di una piacevolissima esperienza estetica, di un’opera aperta la cui sceneggiatura minimale e i lunghi silenzi permettono la co-costruzione dell’esperienza.
P.s. avere visto “Breaking Bad” prima non è fondamentale ma è molto consigliato, in quanto, oltre che della “creazione” di un uomo, questo telefilm riguarda anche la “creazione” di un mondo, con conseguente presenza di una moltitudine di rimandi e citazioni all’opera principale, che solo raramente sfociano nell’autocelebrazione.
Aprile 2020