Bestie senza patria (Beast of no nation)
Di Cary Fukuaga – Stati Uniti, 2015 – In Concorso
Commento di Rossella Valdrè
Sono le centinaia di bambini dispersi per le foreste dell’Africa Occidentale, scampati agli eccidi delle loro famiglie da parte dell’esercito e catturati dai combattenti, le Bestie senza patria di questo splendido, coraggioso e imperdibile film. Tratto dal romanzo di Uzodinma Iweala e diretto, con grande balzo di stile, dal californiano Cary Fukuaga (autore del precedente Jane Eyre e della fortunata serie televisiva True Detective), Bestie senza patria è un film che non si dimentica.
Vicenda corale, di popolo, ma che prende a soggetto – per rappresentarli tutti – la storia di un bambino tra i tanti, il piccolo Agu splendidamente interpretato, il film è insieme ennesima denuncia delle incomprensibili guerre intestine africane, di cui allo spettatore occidentale sembra assolutamente sfuggire il senso e un pur minimo legame con ragioni realistiche (chi combatte contro chi? In nome di quale sigla, di quale potere si uccide?), ma è anche, con un crescendo significativo nella seconda parte, un intenso percorso psicologico nelle menti dei personaggi.
Agu vive una vita tranquilla nel suo villaggio, un papà maestro, fratelli, una madre, una comunità di appartenenza; gioca, guarda il suo piccolo mondo, come tutti i bambini. L’irruzione improvvisa dell’esercito fa strage di ogni abitante del villaggio e Agu, come altri piccoli bambini, riesce a fuggire nella foresta. Qui, un gruppo di combattenti più o meno ragazzini come lui, armati e guidati da una figura a cui devono assoluta obbedienza che si fa chiamare Comandante, lo cattura, e Agu, se vuole sopravvivere, non può che entrare a farne parte. Chiamarli ‘bambini-soldato’, come si legge nelle righe di accompagnamento al film, o cercare una qualche definizione militare per questo gruppo si fuggiaschi disperati a loro volta comandati da un ulteriore Capo politico, sarebbe fuorviante: non poteva darsi definizione più dolorosa e appropriata che Bestie senza patria. Dall’essere bambini con una casa, una comunità di appartenenza, un’identità, Agu e gli altri si trasformano in animali sbandati che imparano a uccidere senza sapere perché, ad obbedire, a fiutare e capire velocemente gli ordini e le regole del gioco.
In un complesso, e psicologicamente assai interessante, rapporto di reciproca sudditanza, è la relazione con il Comandante a occupare la scena, al Comandante devono tutto: figura paterna come lui stesso si definisce, in cambio della violenza e dell’essere obbedito, fornisce una nuova appartenenza, cibo, persino rari divertimenti. “Noi siamo una famiglia”, come lui stesso dice.
Ho parlato di reciproca sudditanza perché anche il Comandante ha bisogno di loro: i bambini sono tutto quello che ha, anche per lui rappresentano il vero possesso, la vera appartenenza, persino la fonte di un misero godimento. Ridotti all’essenzialità dei bisogni, deprivati di tutto, sembra che gli esseri umani di una cosa abbiano soprattutto necessità: appartenenza, sentirsi parte di qualcosa.
Non sorprende, compiendo un salto a una ricerca identitaria ben più insidiosa e perciolosa per l’Occidente, il facile richiamo che i fondamentalismi stanno avendo su molti giovani.
Più ancora che di cibo, Agu e i suoi compagni hanno bisogno di sostituire le famiglie perdute con altre famiglie, non importa se il prezzo è uccidere:
– Un bambino non sa forse premere il grilletto? Un bambino non sa forse uccidere?
Un bambino può essere molto pericoloso…..
Sono le parole del Comandante al momento della cattura. Di villaggio in villaggio, saccheggiano e uccidono, proprio come hanno subito loro. Ma quando il Comandante viene chiamato dal Capo Supremo, il politicante che fornisce le armi e lo riceve nei suoi lussuosi palazzi, che gli comunica che “gli obiettivi sono cambiati” e, forse per non essere troppo in vista alle Organizzazioni umanitarie, verrà deposto dal suo ruolo, anche il Comandante è come se fosse improvvisamente un bambino perduto. Senza munizioni, senza bersagli da colpire e senza armi, abbandonato dai suoi bambini che non hanno più ragione di seguirlo, il film regala una delle sue sequenze a mio avviso più intense: la solitudine del Comandante, vittima anche lui della follia di un continente che uccide se stesso. Il piccolo Agu era il suo prediletto, quello che ne avrebbe seguito le orme; con la sua intelligenza e il suo coraggio, si era fatto notare. Ma anche Agu è costretto a lasciarlo.
Il tentativo di reintegrarsi in una vita in qualche modo ‘normale’, è per i bambini-bestia assai difficile: costretti nei banchi di scuola, alcuni tornano a combattere, perché “non sappiamo fare altro”. Agu resta. La voce fuoricampo del suo racconto, che ci ha seguiti per tutto il film, è però del tutto priva di speranza: chi potrà mai capire cosa ha fatto, quale Dio potrà mai perdonarlo, quale futuro per lui?
Perché il Sole continua a illuminare questa terra? – si domanda
I suoi occhioni seri scrutano un mondo di cui ha visto troppo, di cui ha vissuto il trauma che la sua mente capace di elaborazione e ricordo non rigetterà, ma resterà un macigno dentro di sé. Parlare di trauma, qui, per come siamo abituati a usarlo con forse eccessiva frequenza in psicoanalisi, appare quasi ridicolmente incongruo. Il bellissimo film di Fukuaga, di cui potremmo leggere molti livelli differenti (e con grandiose sequenze che ricordano i migliori esempi del genere, quali “Full metal jacket” o “Apocalipse now”), non ci lascia tuttavia nel baratro della completa assenza di senso: Agu non diventa folle, non diventa assassino a vita, la sua narrazione è tradotta in parole, ha fornito spunto ad un libro e ora a un film, a testimonianza di come, con incredibile capacità di resilienza, in circostanze assurde la mente infantile possa non solo semplicemente sopravvivere, ma persino “vivere”.
Poiché ricordare, raccontare, pensare – come annotava Primo Levi ne ‘I dispersi e i salvati’ – sono davvero ciò che differenza i bambini come Agu, dolorosamente rimasti cuori pensanti, dalle centinaia di perdute Bestie senza patria.
4 settembre 2015