di Mariana Rondòn
Venezuela, Perù, Argentina, Germania – 2013
“E’ un film che parla della differenza”, commenta nella breve e intimidita introduzione la bravissima, e giovane regista venezuelana Mariana Rondòn.
E’ molto di più: un piccolo capolavoro, questo Bad Hair (Pelo malo, letteralmente Capelli cattivi se mai giungerà alle nostre sale), che conferma l’originalità del cinema sudamericano, un misto di neorealismo e penetrazione psicologica davvero toccanti, e stilisticamente perfetti (pur in film ‘poveri’, realizzati con pochi mezzi come questo, con attori quasi tutti alla loro prima prova). Di quali differenze, diversità narra il film?
Potrei dire tutte, tutte quelle che in una realtà umana difficile possono presentarsi: sociali, identitarie, psichiche, generazionali…. Protagonista è il piccolo Junior, un bambino di 9 anni che vive con la madre e il fratellino minore in una poverissima favela di Caracas, che evoca il desolante panorama di quasi tutte le megalopoli sudamericane. Una povertà così diffusa, quasi ai limiti della fame, da non essere nemmeno consciamente avvertita dai bambini, i nuovi ‘accattoni’ pasoliniani vittime inconsapevoli, come qualcosa che esiste rispetto a qualcos’altro. Ma la differenza – per restare sulle parole della regista – che Junior avverte dolorosamente, incessantemente, si concentra sui capelli, su quei ricci ribelli di bambino negro che si vorrebbe invece con i capelli lisci, tirati e brillanti come il suo idolo, un giovane cantante di cui impara a memoria le canzoni.E’ sul corpo, sul miraggio di una possibile, povera bellezza da concorso televisivo anni ’50, che i bambini (veri protagonisti di questo film) concretizzano il loro desiderio di cambiamento, di riscatto. La sua unica amichetta, nell’alveare della favela (peraltro, magistralmente rappresentato come una griglia di fondo che intrappola esseri umani come insetti, l’uno sull’altro) è, infatti, una bimba grassa, derisa dagli adolescenti che si trascinano nella disoccupazione, e che sogna ossessivamente di farsi fotografare per partecipare ai concorsi di bellezza che vede nelle poche e vecchie televisioni della favela.
Ma il desiderio di Junior è contrastato dalla madre, una giovane donna sola, disperata e confusa dalla perdita del lavoro, disposta a tutto pur di ritrovarlo, che si dibatte ogni giorno per la sopravvivenza, delegando anche a Junior gran parte dell’accudimento del fratellino piccolo, più coccolato e apparentemente amato dalla madre. La madre è tutto il mondo per lui: in quei pochi metri quadrati la segue, la desidera, la scruta coi suoi occhioni acuti e malinconici, i grandi occhi dei bambini poveri. Un desiderio edipico, nella totale assenza di padre e di un qualunque maschile minimamente fruibile per un’identificazione (come il pediatra le spiega con parole semplici), che diventa furibondo, assoluto, ponendolo in un penoso conflitto tra ottenere l’amore della madre che gli impone infine di tagliarsi i capelli, e rinunciare appunto, castrare la parte di sé più investita, dove ha riposto ogni risorsa identitaria. I capelli, nel film, pur delicatamente e nell’assoluta assenza di vuoti simbolismi, ricorrono come metafora di qualcosa a cui l’uomo deve rinunciare, di cui deve privarsi, nella breve scena di un rito religioso e di protesta politica in cui i manifestanti si rasano a zero, nella pubblica piazza.
Perché la madre è tanto ostile a questo che, sebbene ossessivo, appare in fondo un innocente desiderio? Per paura della differenza: teme che sia sintomo di una precoce omosessualità, di qualcosa in lui che non funziona. Ma il piccolo Junior non è omosessuale; è in cerca di un’identità.
Dolorosamente, accettando infine il taglio dei capelli per non essere rifiutato definitivamente dalla madre, sembra imboccare la strada (che la regista lascia aperta e quasi sospesa) di una possibile evoluzione come ‘ragazzo’, e non più bambino. Accetta la castrazione, diremmo noi, la perdita, il lutto di una parte di sé, pur di crescere….
Tutto questo, e non solo, che sembra un concentrato di psicoanalisi, scorre in poche parole essenziali, in un registro che privilegia il visivo neorealistico di mostrare la realtà piuttosto che interpretarla: una vita, quella dei pochi ma efficacissimi personaggi, ridotta così all’osso, così brutalizzata da miseria e degrado, da non avere tempo per il racconto affidato alla parola, al linguaggio. Eppure, in tutti ci sono intuizioni, percezioni psicologiche: la mamma a modo suo intuisce che deve imporsi, mancando un padre come le dice il pediatra; la bizzarra nonna coglie di lui altri aspetti, portata invece ad assecondarlo nel lisciare i capelli; e infine Jumior stesso…sembra capire, capire tutto l’essenziale.
“L’essenziale lo si sa subito, oppure mai”, scriveva Lou Salomè.