Baby Bump (Pancione)
Di Kuba Czekaj- Polonia, 2015
Biennale College – In concorso
Commento di Rossella Valdrè
– Cosa vuoi diventare da grande?
– Un’ombra
Sebbene sia lodevole l’intenzione della novella sezione Biennale College di selezionare e premiare giovani autori e progetti, come è stato per questo giovanissimo regista e la sua equipe, bisogna riconoscere che a tutto vi è un limite: anche allo sperimentalismo.
Il modesto commento che segue, pertanto, si basa più sulle mie faticose intuizioni che sul film (ammesso che si possa definirlo tale). Baby Bump è, infatti, un prodotto del tutto sperimentale, multimediale, che contamina generi come l’animazione, la musica, l’uso di immagini fumettistiche e linguaggio fuori campo creando una miscellanea che, pur trovando qualche momento felice come, a mio avviso, nella frase citata all’inizio, rappresenta una delle infelici occasioni che possono capitare ad un Festival.
Il nucleo “narrativo” è assai semplice, certamente caro e sentito dal giovane regista e ormai frequentato da molta cinematografia: la fatica di crescere per un bambino di 11 anni. Micky House, così si chiama il nostro topolino, scopre improvvisamente il corpo che cambia: brufoli, pene che si irrigidisce, sogni terrificanti, fantasie erotiche…insomma, tutto il corredo di sconvolgenti modifiche che trasformano un bambino in un adolescente. Come molti ragazzini, è isolato dai compagni, preso in giro e non compreso e sempre più turbato dall’avvolgente presenza della madre, con la quale fino a allora sembrava vivere in simbiosi. Con l’avvento dell’adolescenza, sappiamo bene, le angosce edipiche vivono inconsciamente una sorta di “seconda” riedizione e, come aveva ben puntualizzato Laufer, quelle che per il bambino erano solo tenere e impossibili fantasie, diventano improvvisamente spaventose realtà, atti possibili. Occorre sfuggirne.
Se vuole crescere, e quindi vivere, come tutti noi anche Micky dovrà piano piano abituarsi a un corpo che non controlla più, a emozioni che non conosce, e svincolarsi dall’abbraccio materno.
Fumettistica tanto quanto Micky, la madre è una giovanissima donna bionda, soggetto ipermoderno sempre collegato a qualche virtualità, consumatrice di una varietà di oggetti domestici, e legatissima al suo Micky. Non vi sono padri, come sempre….
Micky è confuso su tutto: al corpo che cambia è frastornato da una mente che partorisce fantasie erotiche assillanti e, davanti a sé, il futuro appare un buco nero. Voglio diventare un’ombra perché un’ombra si adatta a tutto, risponde a un surreale maestro (come surreali sono tutti i personaggi, o meglio le icone, che compaiono a tipo “spot” sullo schermo) che lo interroga suonando una chitarra.
E’ il solo tratto, a mio avviso, dove il film intercetta un nodo importante, e spesso misconosciuto e sottovalutato dagli adulti, con cui molti preadolescenti si confrontano: non solo non sapere chi si è e la confusione identitaria, ma non voler essere nessuno. Ombre, Zelig, oggetti mimetici che prendono la forma dell’altro, del gruppo, dell’ambiente. Se Micky, come alcuni adolescenti che capitano alle nostre osservazioni, non superasse tutti questi guadi, lo aspetterebbe uno spettro inquietante di sbocchi evolutivi, che vanno dalla gregarietà, all’imitazione, all’antisocialità fino alla vera psicosi. Poiché la prospettiva di non essere nessuno è mentalmente insopportabile, un’identità negativa appare pur sempre preferibile a nessuna. Ma per questo intelligente ragazzino polacco, non sarà ovviamente così…
Questo plot contenutistico, che ho qui cercato di tradurre in narrazione e in parole, non possiede alcuna linearità; si tratta, come detto, di una sorta di pastiche tra il multimediale e la pop-art, con immagini di grandi seni e oggetti seriali alla Andy Wharol o, più modernamente, che ricordano i grandi quadri di Jeff Koons, mescolati a voci fuori campo che in parte ricalcano il pensiero confuso del bambino e in parte gli ordini dell’ambiente, con un via vai di apparizioni di personaggi iperrealisti, sì da evocare il fumetto e, appunto, la pop-art.
Ma poiché il cinema, a mio avviso, è un’arte a sé, questa mescolanza non ne accresce ma ne sottrae spessore e divertimento, relegandolo a una sorta di spot lungo un’ora e mezza.
Peripezie da festival, ma in fondo benevoli sperimentalismi….il giovane Czekaj (che è, peraltro, al suo secondo film) ha sì voluto dare una forma stilistica diversa all’eterno e antico dramma adolescenziale, ma è uno di quei casi in cui proprio l’eccesso, forse voluto come dichiara lo stesso Jeff Koons dei suoi discussi quadri, finisce per appiattirne l’effetto. Il panico e il terrore che assalgono il piccolo Micky, rischiano di sostare in un incerto terreno stilistico che non ne fa né un’opera divertente né drammatica, sebbene credo il film volesse rendere soprattutto quest’ultimo effetto.
Poiché è del tutto vero, come scriveva La Rochefoucauld, che:
L’infanzia è senza pietà
3 settembre 2015