Austerlitz e Paradise: immagini “vere come la finzione”
Austerliz
Regia di Sergei Loznitsa (Germania, 2016)
Fuori Concorso
Genere Documentario
Paradise
Regia Andrei Konchalovsky (Russia, 2016)
In Concorso
Genere Drammatico
Commento di Elisabetta Marchiori
Ho assistito prima alla proiezione di Austerliz e poi a quella di Paradise, le immagini del primo che si sovrapponevano nella mente a quelle del secondo, con un effetto di amplificazione reciproca impressionante, travolgente.
Austerliz è un documentario di Sergei Loznitsa, girato in bianco e nero, con macchina da presa fissa, nel campo di concentramento di Sachsenhausen, diventato meta turistica, una sorta di Disneyland dell’orrore. Una folla rumorosa e disordinata, accaldata, in abbigliamento da gita, invade irrispettosamente i luoghi dello sterminio. Le persone sembrano spaesate, incuranti, inconsapevoli, si fotografano in pose improbabili davanti ai pali di tortura e ai forni, sorridono, scherzano. Guide tatuate spiegano in varie lingue a cosa erano adibiti i luoghi, quale era il destino dei prigionieri, le pentole dove si cucinava la brodaglia, poi la telecamera si sofferma su un gruppo in sosta mentre mangia panini farciti e a una coppia che sgranocchia noccioline.
Loznitsa non ha uno sguardo neutrale, imparziale, oggettivo. Le angolazioni da cui riprende la folla, le sequenza scelte, mi pare abbiano lo scopo preciso di denunciare la mancanza di sacralità, la deturpazione della memoria, forse la sua perdita. Loznitsa riprende le persone che si fotografano e riprendono, e lo spettatore può immaginare quelle foto e quei video.
Immagini di immagini di immagini … Quali sono necessarie, le “Immagini malgrado tutto” di Didi-Huberman e quali le superflue, se non invadenti, oscene? Qual è il confine?
La domanda rimane aperta. A mio avviso, il rischio a cui si espone regista e quello a cui, conseguentemente, è esposto lo spettatore, è di giudicare senza conoscere quello che quelle persone possono aver provato, cosa pensato, come mai si siano trovate in quel campo di concentramento. Il presente collassa sulla Storia in queste tragiche immagini in 2D, violente, che agghiacciano il pensiero, inducendo una sorta di dissociazione affettiva, forse la stessa che si manifesta negli sguardi increduli, perplessi, talvolta inebetiti, dei turisti.
A fare entrare anima e corpo lo spettatore nelle motivazioni umane profonde delle vittime e dei carnefici è invece lo straordinario film di Andrei Konchalovsky “Paradise”: un bel giovane di nobili origini arruolatosi nelle SS, con il compito di scoprire “irregolarità” compiute dai colleghi, una seducente aristocratica ebrea-russa imprigionata in un campo per aver nascosto bambini ebrei, un funzionario francese collaborazionista, raccontano le loro storie da un “limbo” surreale.
Storie che si intrecciano in vita e questo intrecciarsi evidenzia l’umanità che le accomuna, cosi che la domanda che riecheggia, senza risposta, è come si è potuti arrivare all’inferno, quando quello a cui ognuno aspira è il paradiso.
Girato in un bianco e nero pieno di sfumature, luci e ombre avvolgenti, il film non indugia sull’orrore della Shoah, si addentra nelle pieghe più oscure e recondite dell’animo umano, senza pretese di verità, senza giudizio, senza retorica, senza voler aggiungere nulla, ma coinvolgendo con forza decisa e nello tempo senza esasperazione lo spettatore, che si può identificare con alcuni tratti di tutti i personaggi, nei loro conflitti e nelle loro ambivalenze. Un film che rispetta l’evoluzione della Storia e delle singole storie umane, scende in profondità, si eleva stilisticamente, in una visione davvero “tridimensionale” .
Tante sono le riflessioni che si potrebbero fare, però una mi si impone su tutte: come la documentazione in immagini della (pretesa) realtà “nuda e cruda” possa “uccidere” il pensiero, mentre il racconto, la narrazione filmica, di quella stessa realtà, può alimentarlo.