ASPETTANDO IN TREATMENT
Intervista a Pietro Roberto Goisis
di Barbara Ferrara
E’ in arrivo la seconda stagione della versione italiana dell’omonima serie HBO diretta da Saverio Costanzo: nell’attesa abbiamo chiesto a Roberto Goisis, membro della Società Psicanalitica Italiana, come sarebbe meglio prepararsi all’evento. Per cominciare, e per cominciare con il sorriso sulle labbra, ci suggerisce una cena leggera, accompagnata da un buon calice di vino e un pezzo di cioccolata, che si sa, aiuta sempre. Per il resto, nessun consiglio di visione, se non quello di lasciarsi rapire dai trentacinque nuovi episodi in arrivo.
A guidarci in questo viaggio attraverso la mente e le emozioni, torna la rubrica “Una settimana con il dottor Giovanni Mari” in cui gli psicoterapeuti della S.P.I. (Società Psicoanalitica Italiana) commentano le sedute della serie divenuta di culto anche in Italia. E se per la maggior parte degli spettatori e per alcuni dei protagonisti In Treatment crea dipendenza ed è ipnotica, non crediate che gli psicanalisti veri siano meno appassionati, tutt’altro: “Quando ho coinvolto i colleghi riguardo la nostra collaborazione, erano tutti entusiasti, per primi ci siamo chiesti come potesse stare quest’anno il dottor Mari. Fin dalla prima stagione abbiamo avuto a che fare con parecchi pazienti e uno di questi era proprio Giovanni Mari. Noi lo guardiamo con occhio clinico, nella sua umanità e nelle sue debolezze” – spiega il dottor Goisis.
Questa seconda stagione vede inoltre l’ingresso di alcuni nuovi protagonisti: ad affiancare i veterani Barbora Bobulova, Adriano Giannini e Licia Maglietta troviamo Michele Placido, Isabella Ferrari, Alba Rohrwacher, Maya Sansa e Greta Scarano: “I personaggi sono molto interessanti, sentire gli attori raccontare la loro esperienza e vedere quanta immedesimazione ci sia, è molto bello. Nonostante siano dei professionisti che con quel genere di immedesimazione lavorano, dimostrano di essere stati talmente coinvolti dalla serie da desiderare di farne parte, così come ha dichiarato Isabella Ferrari, o definirla un’esperienza indimenticabile, per citare Alba Rohrwacher. Tutto questo fa parte dello stesso meccanismo per cui anche gli spettatori si sentono presi”.
Quest’anno il dottor Mari torna con qualche problema in più: la separazione dalla moglie, la morte del suo paziente Dario, e la relazione con la sua analista che strada facendo si è complicata: come pensa che se la caverà con i suoi pazienti?
Difficile dire come se la caverà dopo le tempeste della stagione precedente, le difficoltà temprano le persone e queste dovrebbero trasformarsi in opportunità, se il dottor Mari sarà riuscito a trasformare le difficoltà della sua vita in opportunità, probabilmente lo troveremo più attrezzato. Speriamo.
Cosa occorre a uno psicanalista per poter prendere le distanze dal proprio vissuto quando entra in relazione con il paziente?
Per poter aiutare gli altri, uno psicanalista non deve assolutamente prendere le distanze, deve fare un’operazione di coinvolgimento, mettersi nei panni dell’altro ma senza diventare l’altro. Entrare nello stato emotivo, nella mente e nelle emozioni del paziente e saperne uscire, questo è il lavoro che può permette a noi di aiutare le persone, e a noi di salvarci rispetto all’aiuto. Immedesimarsi nell’altro senza diventare l’altro.
Qual è la molla che spinge al cambiamento?
Quando una persona si accorge dei propri pattern relazionali, le modalità con cui vive, ed elabora le proprie azioni, quando si accorge che è disfunzionale e improduttivo, questa è un’ottima ragione per un clic.
Castellitto ha dichiarato che a uno psicoterapeuta non viene richiesto l’equilibrio a tutti i costi e che anzi il non equilibrio è una benzina, se guidato dall’intelligenza e dalla sensibilità. E’ d’accordo?
Sì, Cesare Musatti, il fondatore della psicoanalisi italiana, in un’intervista di tantissimi anni fa diceva che uno, per fare questo mestiere, deve aver conosciuto la sofferenza, aver preso contatto con l’ansia, le preoccupazioni, le oscillazioni dell’umore. E’ indispensabile aver toccato sulla nostra pelle il disagio, in questo senso “chi è senza malessere scagli la prima pietra”.
Cosa si aspettano da voi i pazienti, quelli veri della vita reale?
Alcuni la perfezione, l’essere integerrimi e impeccabili, altri invece sono lusingati e rassicurati dalle nostre imperfezioni e difetti. Varia tantissimo, alcuni credono che io sia l’essere umano migliore al mondo e per questo vengono da me, altri no.
In Treatment si affida alla parola, in quei trenta minuti di seduta si entra nello studio di un’analista e nel personaggio, senza alcuno stimolo esterno: come spiega il suo successo di pubblico?
C’è la grande possibilità per le persone, almeno per chi ha un minimo di attenzione al proprio mondo interno, al di là che abbiano fatto esperienza di analisi o meno, di vedere all’opera in maniera così intensa attori che mettono in gioco lo scambio emozionale, affettivo e di relazione tra due esseri umani. Questo è il grande fascino e il potere della serie.
Si ritrova nell’approccio del dottor Mari? C’è qualche critica, professionalmente parlando, che potrebbe muovergli?
Io sono generalmente condiscendente verso gli esseri umani, e soprattutto verso i colleghi, ognuno di noi fa degli errori, globalmente mi ritrovo nello stile improntato a una psicanalisi di orientamento relazionale. Sicuramente farei delle cose diverse, e magari lui ne farebbe diverse dalle mie. Non sto dicendo chi è più o meno bravo. Quando si è in seduta è il momento più difficile, bisogna improvvisare, senza avere uno spazio in cui decidere a freddo, così come accade nella didattica.
Tre buoni motivi per andare in analisi
Il primo è essere consapevoli che c’è qualcosa che non funziona nelle nostre relazioni, il secondo è fidarsi della possibilità che qualcuno ti possa aiutare, la psicanalisi non è per uomini che non devono chiedere mai, ma per quegli uomini che sono capaci di chiedere quando hanno bisogno, il terzo è che uno dei migliori investimenti di tempo e denaro che una persona possa fare per se stessa.
Tre buoni motivi per non andarci.
E’ un po’ difficile se non ci si fida degli altri e si crede troppo in se stessi, secondo, non conviene andarci se si è troppo complicati, se già si portati a rimuginare troppo sulle proprie cose, e terzo, se uno ha un altro modo per passare il tempo e spendere i soldi occuparsi di se stesso e funziona bene, non ha bisogno di andarci.
La top 5 dei consigli per una buona salute mentale?
Coltivare una ragionevole forma di dubbio, su se stessi e sui propri convincimenti, avere una buona capacità di manutenzione dei propri rapporti interpersonali, se non funzionano si può provare a ripararli, saper trovare il lato piacevole delle cose, credere nella forza del potere trasformativo dei giovani, cercare di volersi bene. Che poi vuol dire imparare a guardarsi dentro e a conoscersi.