Cultura e Società

American Anarchist

3/09/16

American Anarchist

Di Charlie Siskel – USA 2016

Documentario – Fuori Concorso

Commento di Rossella Valdrè

Nel 1970, un diciannovenne arrabbiato come molti altri – contro la società, i padri, il potere, l’America di Nixon – scrive un singolare libro, “The Anarchist Cookbook” (Il ricettario anarchico), una sorta di manuale per costruire ordigni, esplosivi e bombe fai-da-te. Quel ragazzo, che scrisse il libro di getto, frutto delle sue frustrazioni e rabbia giovanile, si diceva essere un “anarchico” nel senso proprio della parola, cioè desideroso di un mondo senza potere, senza governo e senza autorità, non intendeva affatto insegnare a giocare alla guerra. Ma, ben oltre le sue aspettative che credevano, sinceramente, che passata la prima ondata il libro sarebbe finito, come molti, nel dimenticatoio, The Anarchist Cookbook continuò invece a raccogliere il facile spunto di rabbie e odii adolescenziali di vario tipo, non più anarchici per come inteso da William Powell, l’autore di quel libro, ma autentici assassini. Vendette due milioni di copie e, anche ritirato dal commercio, ha continuato ad essere venduto in rete e, visti gli alti profitti, Amazon si è sempre rifiutata di ritirarlo.

   Oggi l’autore, poco più che sessantenne, di quel libro, per la prima volta (dopo avere sempre rifiutato interviste) si affida ad un sincero, sentito e profondo racconto-confessione nella bellissima intervista che il regista Siskel va a fargli in Francia, dove si è ritirato a vivere, in quasi isolamento con la moglie, da molti anni. Doveva essere destino che Powell accettasse quest’intervista, poiché morì l’anno dopo, giusto in tempo per averci lasciato, al mondo e direi a se stesso, questo prezioso documento.

Ciò che ne emerge è il complesso, autenticamente sofferto quadro di un uomo diventato in seguito scrittore e soprattutto insegnante nelle aree internazionali disagiate a bambini scolasticamente in difficoltà, ormai lontanissimo da quel libro, frutto di rabbie giovanili che molti provano ma, semplicemente, non concentrano in uno scritto pubblicabile, eppure quel libro lo ha da un lato perseguitato per tutta la vita, e dall’altro ne è stato “il compagno”. L’aspetto più interessante, psicologicamente, dell’intervista, è il rapporto che Powell, dentro di sé e non solo rispetto alle molte polemiche che ne seguirono, intrattenne col libro; con grande onestà intellettuale e non frequente, oggi, senso di responsabilità personalità, Powell confessa di provare un grande “rimorso” per le conseguenze, da lui assolutamente inattese, che il libro prese, ma non “rimpianto”.

   Vorrei estrarre questo punto dell’intervista come uno dei più significativi; incalzato dalle domande del regista, Powell riflette, non risponde mai a getto, sembra aver potato tutta la vita quel peso dentro di sé:

–       Prova rimorso?  Prova rimpianto?

–       Sì, rimorso…soprattutto per Columbine, il libro fu trovato a casa di uno dei ragazzi omicidi. (pausa) Rimpianto no….

La strage al liceo Columbine scosse alcuni anni fa tutte le coscienze americane; in casa di quel giovane stragista, come in altri crimini compiuti da giovani, è stato trovato il libro di Williams. Pur non sentendosi direttamente responsabile della strage, ovviamente, il rimorso è per aver scritto un libro che inneggiava ad un anarchismo impossibile ma, in mano ai molti adolescenti rabbiosi, frustrati, in cerca di identità anche negativa pur di avere un’identità, che non di rado oggi possono finire nelle mani dell’Isis, si costruiscono una bomba e fanno saltare in aria l’altro, uno qualunque, un nemico scelto a caso, oggetto della proiezione dell’odio. Per questa antica legge psichica, che oggi Powell ha compreso benissimo, prova rimorso: inconsapevole, lui stesso diciannovenne rabbioso, la sua creatura è andata bel al di là delle sue intenzioni. Non lo rinnega però, il libro “fa parte di me”, della mia vita, indesiderato compagno ma di cui non ci si libera con un colpo di spugna: non c’è rimpianto, quindi.

Anche di fronte ai molti problemi che la fama del libro gli causò nella professione, come il licenziamento da alcune scuole, il regista gli fa notare, tra le righe, come avrebbe potuto difendersi meglio procurandosi un avvocato. Powell non lo fece mai; non cercò mai un avvocato, pagò sempre il prezzo (nell’assurda situazione di essere ormai un apprezzatissimo insegnante) che il fantasma del suo libro giovanile comportava.

L’intervista diventa anche un interessante spaccato sulla violenza negli adolescenti; sappiamo quanta rabbia può provare un adolescente, quanto bisogno di appartenenza, soprattutto nello smarrimento contemporaneo, e quanto dobbiamo stare attenti agli strumenti che, anche involontariamente, gli mettiamo in mano. Qualunque forma di rabbia e fame di vendetta, risentimenti e frustrazioni, hanno trovato per molti ragazzi il ricettario del Male. Powell, oggi, capisce bene quei giovani; la sua stessa infanzia e adolescenza furono marcate dal bullismo e dalla frustrazione, e quella sofferenza (in qualche modo maldestramente sublimata) era finita nel libro.

Figlio, forse non a caso, di un membro dell’Onu, per seguire il padre trascorse parte dell’infanzia in Inghilterra, in scuole “orribili” dove subì umiliazioni e atti di bullismo poi, adolescente, tornò con la famiglia a New York dove ferveva il mondo nuovo dei movimenti giovanili contro la guerra, ai quali aderì sognando, appunto, un utopico mondo senza potere. Né in un Paese né nell’altro si sentiva a casa, estraneo ad entrambi, ostile all’identità; in un altro bel passaggio, che lo ritrae a Hong Kong, si dice più a suo agio dove non lo conoscono, dove non è nessuno, libero.

Che peso – canta una poesia della Dickinson – essere Qualcuno. Che orrendo peso l’identità! Quel peso, Powell lo ha portato.

Avrebbe potuto meglio difendersi sul piano legale, meglio combattere, rinnegare. Non lo ha fatto. Ha scelto la strada, eminentemente riparativa, lui che aveva scritto un manuale sugli strumenti casalinghi del Male, di procurare il Bene: girare il mondo nelle aree che subiscono le guerre, in scuole internazionali, insegnando proprio a quei bambini che, per la loro diversità o il loro handicap, rischiano di diventare oggetto di odio proiettivo o loro stessi futuri violenti.

Percorso psicologico di rara coerenza, di riparazione dalla colpa nel modo più vicino alla nostra sensibilità di analisti, ritratto di un uomo che non è fuggito alle responsabilità ma le ha converte in azione positiva, e invito a ricordare come sempre, in ogni epoca, l’adolescente sia a rischio di diventare un potenziale violento, sia a rischio di “costruire bombe” per dare un senso a una vita che non ne ha, per sentirsi vivo, soggetto ed eroe negativo in un mondo che lo umilia e non si accorge di lui.

Ritirato in un paesino francese, Powell si è ben lasciato alle spalle l’utopia anarchica, per come ingenuamente l’intendeva. Essa non può esistere, è pura illusione. Essa, paradossalmente, è l’opposto della violenza. Prima di essere assassinato, il geniale direttore di Charlie Hebdo scrisse che l’anarchia

“…è impossibile perché richiede la forma più completa di responsabilità umana. Presuppone l’inconcepibile: essere liberi. L’anarchia viene considerata contro l’ordine, mentre l’anarchia è ordine. L’ordine senza potere”.

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