Autore: Sergio Anastasia
Titolo: “After Life”
Dati sulla serie: creata da Ricky Gervais, UK, 2019, 3 Stagioni, Netflix.
“After Life” ha avuto un grande seguito di pubblico ed è stata tanto apprezzata da essere arrivata alla terza stagione. Qual è il suo segreto? L’approccio semplice e onesto con cui rivolge lo sguardo sulla complessità di un tema caro a ognuno di noi: la perdita dell’oggetto d’amore.
Tony Johnson, interpretato dall’attore e regista comico britannico Ricky Gervais, che è anche il creatore e il produttore, è il protagonista assoluto di questa storia leggera, ma estremamente viva e profonda, assieme defunta moglie Lisa (Kerry Godliman), che appare in brevi video registrati durante il matrimonio e poco prima di morire.
“After Life” si potrebbe definire una “commedia drammatica”, per usare un ossimoro.
Tony è un uomo odi mezza età, reso burbero e cinico dalla sofferenza causata dalla morte per cancro della moglie. Per sua stessa ammissione, Tony è portato a fare “stronzate”, nella speranza che, per quell’attimo, il fare e il farsi male lo aiutino a stare meglio.
Un’idea che viene anche supportata dall’atteggiamento di un terapeuta dipinto in modo estremamente caricaturale, altrettanto cinico e forse un pò sadico, mostrando come, quando ci si pone in modo distaccato e inautentico rispetto al dolore, la terapia finisce per risultare inefficace, se non addirittura controproducente.
Ben più capaci di comprensione rispetto al terapeuta, o anche all’insegnate di meditazione, un guru ridicolo che si prende molto sul serio e che appare nella seconda stagione, sono la sex-worker del paese, l’anziana vedova Anne (Penelope Wilton) – che con lui condivide il dolore della perdita – i colleghi del piccolo giornale a distribuzione gratuita di provincia dove lavora Tony. Ma lo sono anche il cognato, fratello di Lisa, Matt (Tom Basden) e Brandy, la bastardina presa a suo tempo per far contenta la moglie, che sacrificano sé stessi per tenere in vita Tony. L’uno passando sopra le sue “stronzate”, anche al lavoro – dove cinicamente Tony maltratta i suoi colleghi e non si cura degli articoli che dovrebbe scrivere – l’altra accontentandosi di cibo in scatola, coccole e passeggiate.
La serie è girata a Londra, ma è ambientata a Tambury, un piccolo villaggio nel sud dell’Inghilterra. Le dimensioni limitate del luogo permettono ai personaggi di apparire sulla scena in modo netto, chiaro, privo di fronzoli. Con le loro caratteristiche di veri loosers (perdenti), sono tutti alle prese con i propri piccoli e grandi lutti. Si, perché “After Life” trasmette emozioni vere, sa cogliere e trasmettere di cosa significhi elaborare un lutto.
Qui quello che conta è sottolineare come la regia di Ricky Gervais si soffermi sul rendere manifesta la mancanza e la perdita, attraverso diversi accorgimenti, come i video ricorrenti, con i messaggi lasciati da Lisa prima di morire, oppure quelli registrati, in cui Tony si prende gioco della moglie.
Tutto richiama all’inevitabile perdita d’interesse per ciò che riguarda il mondo esterno e l’incapacità, dopo il trauma, di scegliere un nuovo oggetto d’amore.
È come se la persona, investita dal lutto, finisca con il rigettare ogni attività che non sia in relazione con l’oggetto d’amore perduto (Freud, 1915), mentre tutto il resto viene svalutato, disprezzato e allontanato.
Puntata dopo puntata viene messo in scena questo atteggiamento e la ricerca continua di ripetere esperienze traumatiche. Una modalità infruttuosa e solo temporaneamente efficace che tutti noi mettiamo in atto, alla ricerca del riparare alla perdita, come coazione a ripetere. Lo facciamo spesso a seguito di ferite e mancanze molto più antiche e profonde, che possono portare ad atteggiamenti meno marcatamente sado-masochistici, ma comunque caratterizzati dalle medesima ripetizione del trauma.
“After Life” è anche un luogo di proiezione di possibili speranze, che potrebbero essere riassunte nelle parole della vedova Anne: “Quello che hai perso, può porre fine al tuo dolore”. Questo può accadere quando si riesce a ritrovare dentro di sé la capacità di amare, di rimanere curiosi nei confronti della vita, di ciò che questa può riservare, nella capacità di rimanere vivi emotivamente in un mondo “impoverito” (è il termine usato da Freud) dall’assenza dell’oggetto d’amore.
Accettare la perdita significa accettare la separatezza e riappropriarsi di qualità che sono nostre e che prescindono dall’altra persona. Significa essere capaci di sopravvivere al ricordo, affrontare il proprio senso di colpa verso coloro che non ce l’hanno fatta, intraprendere un percorso di scoperta, di accettazione e di costante ri-costruzione, come avviene in psicoanalisi.
Bibliografia
Freud S. (1915 -1917). Lutto e melanconia. O.S.F. 8.