A pigeon sat on a branch reflecting on existence, in concorso, di Roy Anderson, Svezia, 101′
La trattativa, fuori concorso, di Sabina Guzzanti, Italia, 108′
Sivas, in concorso, di Kaan Müjdei, Turchia, 97′
commento di Elisabetta Marchiori
Con ‘A pigeon sat on a branch reflecting on existence’ Roy Anderson conclude la sua trilogia «sull’essere un essere umano», di cui fanno parte Songs from the second floor (2000) e You, the living (2007).
Trentanove finestre affacciate sulla condizione umana. Trentanove quadri mirabilmente incorniciati, da cui emana una luce livida, che fulminano lo spettatore per la nitidezza dei contorni e la perfezione con cui sono delineati figure e sfondo. Ogni dettaglio ha una sua necessità, ogni movimento dei personaggi un senso, ogni battuta contiene messaggi stratificati, diretti e indiretti, che agganciano lo spettatore a livello conscio e inconscio.
Ogni scena è contemporaneamente di cruda e crudele realtà, e nello stesso tempo è astrazione e metafora. Ogni inquadratura è impregnata di uno humor gelido che strappa risate a denti stretti.
La prima, che giustifica il titolo, è quella di un uomo dall’aria stralunata che fissa un piccione impagliato nella bacheca di un polveroso museo di storia naturale, mentre la moglie lo aspetta perplessa.
Un uomo muore di infarto nel tentativo di aprire una bottiglia di vino; Lotte la Zoppa di Göteborg canta, sulle note di Glory, Glory, Hallelujah, di grappini serviti in cambio di baci; Re Carlo XII entra a cavallo con i suoi soldati, in viaggio per combattere i Russi, in un bar della periferia di qualche cittadina sperduta e vuole portarsi in tenda il giovane cameriere; soldati di un’altra epoca fanno entrare in un grande contenitore, per poi arrostire, un gruppo di indigeni, ad una scuola di flamenco. Questi ed altri sono i personaggi che si susseguono, vanno e vengono, sulle scene fisse ad impianto teatrale.
Le figure più emblematiche, che ritornano, a dare continuità a questi frammenti sconnessi di mondo, sono due venditori del ‘settore del divertimento’ dall’aspetto trasandato, grigi e imperturbabili, i volti cerei e inespressivi, che propongono ad improbabili compratori ‘denti da vampiro con canini extralunghi, il classico sacchetto che ride, il nuovo prodotto in cui credono molto, la maschera dello zio con un dente solo’. Un altro elemento ricorrente è la frase pronunciata al telefono da uno o dall’altro dei protagonisti: ‘Mi fa piacere sentire che le cose vanno bene. Sì, dico, mi fa piacere sentire che le cose vanno bene’. A chi sia rivolta non si sa, ma ha importanza?
Tornano alla mente il teatro dell’assurdo di Beckett, in particolare aspettando Godot, i quadri di Edward Hopper e Bruegel, le foto di Erwin Olaf, sono solo suggestioni per offrire qualche immagine familiare a chi non ha visto il film.
Durante la proiezione, mi sentivo come Alice oltre lo specchio, dove tutto ciò che è familiare diventa strano e dove, come negli scacchi, ci si muove in caselle predisposte, ma in modo imprevedibile.
Anderson ci fa entrare nel gioco creativo, in cui la realtà (interna e esterna) è una produzione partecipata tra artista e spettatore, come dovrebbe accadere nel ‘setting’ analitico.
La coraggiosa e intelligente Sabina Guzzanti ha proposto un’opera, ‘La Trattativa’, come dice lei stessa, fatta da ‘un gruppo di lavoratori dello spettacolo’ con l’obbiettivo di riportare l’attenzione sullo scottante tema dei rapporti stato-mafia. Un collage di scene girate con attori, interviste, materiale di repertorio, animazione grafica, con lo stile inconfondibile dei suoi film precedenti. Agghiacciante, come quello di Maresco, che tocca il tema, ma non colpisce direttamente questo bersaglio, benché non altrettanto originale e sorprendente. Impreziosito dalla colonna sonora di Nicola Piovani e la fotografia di Daniele Ciprì. Applaudito a lungo in Sala Grande, è un film che ci riporta alla realtà, alla ricerca di verità segrete che forse non saranno mai esposte in evidenza, per parafrasare il titolo di un’opera di Elémire Zolla.
Una menzione merita anche il film del giovane regista turco Kaan Müjdeci, ‘Sivas’, che ci parla di un bambino di undici anni, Aslan, straordinariamente interpretato da Dogan Izci, che vive nelle desolate steppe dell’Anatolia, costretto a diventare adulto prima del tempo. La rabbia che gli si è si accresciuta dentro esplode nel momento in cui la scelta per interpretare il principe in una recita scolastica ricade, per ovvie ragioni, sul figlio del sindaco, e non su di lui. Non potrà quindi essere Aslan a baciare la bella bambina, di cui è innamorato, che sarà Biancaneve. L’incontro tra Aslan e un enorme cane da combattimento, Sivas, abbandonato perché dato per morto, segna l’inizio di un tentativo di riscatto da parte del bambino, che si identifica completamente con lui e attraverso di lui attira l’attenzione sia dei coetanei sia degli adulti, fino a quel momento nemici. Nel conflitto tra prendersi cura di Sivas e farlo combattere, nella scelta tra rimanere bambino ed entrare definitivamente nel mondo degli adulti, prende il sopravvento questa seconda possibilità. Combattere, in quel mondo violento, è l’unico modo per vincere, avere soldi, essere rispettati. Terrificanti per la sanguinosa brutalità le scene dei combattimenti fra i cani, che hanno già attirato le proteste degli animalisti. Un film duro, che fa sanguinare la ferita aperta dell’infanzia violata.
Purtroppo il film è stato sottotitolato in modo a dir poco irrispettoso, con frasi senza senso e errori grammaticali eclatanti. Se lo avessero lasciato in lingua originale sarebbe stato meglio, perché è un film in cui le immagini parlano con talmente tanta forza da renderlo comunque comprensibile.