di Ramin Bahrani
commento di Massimo De Mari
Il tema, attualissimo, è quello della crisi economica che butta letteralmente le persone fuori di casa, una volta che perdono il lavoro e non possono più permettersi di pagare il mutuo.
Nella fattispecie, ad andare di persona, in nome del governo, a sfrattare le famiglie dalle loro case è Rick Carver, il titolare di un’agenzia immobiliare convenzionata con il governo locale.
Attenzione, siamo in America, il regista di origini iraniane, più volte premiato al Festival di Venezia, non perde l’occasione per sottolineare le storture e gli eccessi del sistema americano.
Lì i giudici, una volta constatato che il proprietario non è più in grado di pagare, non si fanno impietosire dalle storie personali ma emettono una sentenza di sfratto che diventa esecutiva nel giro di pochi giorni.
Rick Carver è interpretato da uno strepitoso Michael Shannon, attore dallo sguardo mefistofelico e la mascella quadrata, a metà tra un cattivo dei film western e un finanziere spregiudicato di Wall Street, assiste imperturbabile a suicidi e scene di disperazione di madri e bambini piangenti e quando non riesce a convincere gli ormai ex-proprietari con le buone, lascia fare ai poliziotti che lo accompagnano, che usano modi decisamente più sbrigativi.
Dennis Nash è una delle tante vittime di Carver, ha perso il lavoro e non è riuscito a patteggiare un rinvio con le banche che hanno messo alla porta lui, il figlio di 8 anni e la madre con cui vive.
Nash porta la famiglia in un motel e si mette subito a cercare lavoro, nella speranza di poter riaccendere il mutuo e ricomprarsi la casa, quella casa dove lui e suo figlio sono cresciuti.
Nella sua ricerca disperata incappa casualmente in Carver che, in cerca di manodopera per i suoi numerosi intrallazzi in ambito edilizio, gli offre un lavoro.
Nash sa fare di tutto, è bravo, sveglio e si conquista in fretta la fiducia di Carver di cui, un po’ alla volta, finisce per prendere il posto, diventando a sua volta il carnefice di tante altre famiglie come la sua.
Andrew Garfield è bravissimo nel cambiamento di registro che caratterizza tutta la seconda parte del film, fino ad un esito sorprendente.
Film piuttosto crudo, poco consolatorio, pone al centro, dal punto di vista psicoanalitico, la questione degli affetti legata alla casa in una dinamica bioniana contenitore/contenuto.
Quando le famiglie vengono sfrattate, il poliziotto invita a portarsi via le cose più importanti, i documenti, le medicine, le fotografie, perché dopo entreranno gli operai a portare via tutto il resto; “Don’t get emotional about houses”, ammonisce Carver, nella sua opera di formazione del giovane Nash, “houses are boxes”: “le case sono solo scatole, non farti coinvolgere emotivamente”.
Ma Nash non ce la fa a condividere quel punto di vista, rivuole la sua casa, è suo figlio che glielo chiede perché lì c’era la sua cameretta, è sua madre che glielo chiede perché è lì che ha vissuto tutta la vita; difficile dunque non coinvolgersi in un film che ci mette a confronto con tutto quello che la casa significa sul piano affettivo, soprattutto per i bambini.
I bambini sono quelli che soffrono di più, in tutti i conflitti, politici, sociali ed economici, mentre gli adulti giocano alla guerra o, come in questo film, si giocano a dadi le case, a centinaia alla volta, con speculazioni sempre più azzardate, come se fossero solo scatole di cemento, vuote di storie di vita e di affetti.
E’ lo sguardo di un bambino, infatti, dolente e rivendicativo, a chiudere un film intenso che vale la pena di vedere.
ANIME NERE
di Francesco Munzi
commento di Massimo De Mari
Ancora un film sulla mafia?
Possibile che del nostro paese dobbiamo continuare a dare al mondo l’idea di una cultura della violenza che non cambia nei secoli?
Sono le prime domande che vengono in mente durante le prime scene di questo film italiano, accolto molto positivamente da critica e pubblico, già viste tante volte in tanti altri film e serie TV nostrane.
Tra aeroporti e paesaggi internazionali si consuma un traffico internazionale di stupefacenti tra spacciatori d’alto bordo e un gruppo di criminali di chiaro stampo mafioso di cui poi si capirà l’origine, non la Sicilia questa volta ma l’entroterra calabro in cui il fenomeno mafioso cambia nome ma non la sostanza.
E’ proprio in questo cambio di ambientazione però che il film diventa interessante perché aiuta a capire il perché certe radici culturali non si possano tagliare facilmente.
Si capisce infatti subito che al centro della storia c’è una famiglia formata da tre fratelli, il cattivo Luigi, interpretato da un bravissimo Marco Leonardi in cui nessuno riconoscerà facilmente il piccolo Totò di Nuovo Cinema Paradiso; Rocco, il buono, integrato al Nord, che ha la faccia molto amata e conosciuta di Peppino Pezzotta, il bravissimo Fazio che coadiuva il commissario Montalbano e Luciano, un dolente Fabrizio Ferracane, rimasto al sud ma non più in sintonia con le dinamiche violente e devianti della famiglia.
Quando il figlio di quest’ultimo, Leo (Giuseppe Fumo), sulla scia delle gesta dello zio Luigi, fa anche lui una bravata per imporsi all’interno della famiglia, il fragile equilibrio all’interno della famiglia stessa e tra quella e le altre famiglie, amiche e nemiche, dei paesi aspromontini, si rompe irrimediabilmente dando vita ad una serie di reazioni sempre più fuori controllo fino al colpo di scena finale.
Essenziale nei dialoghi e negli sguardi, asciutto nella sceneggiatura, il film di Munzi riesce a scavare nei sentimenti dei protagonisti, combattuti tra l’impossibilità di opporsi ad una tradizione rigida nel rispetto di regole antiche in cui non sono tollerati gli sgarbi e il desiderio di uscire da quelle logiche e vivere una realtà diversa in cui sia possibile la convivenza senza bisogno di violenza.
Diatriba antica, quasi epica, che mette di fronte, in senso simbolico, le dinamiche caotiche, violente e imprevedibili dell’inconscio con l’Io razionale di alcuni protagonisti, i fratelli Rocco e Luciano in particolare, che lotta tra le soluzioni perverse e una possibile, quanto difficile, elaborazione positiva dei conflitti.
Non è un film documentaristico né pedagogico, ricco di colpi di scena ma non spettacolarmente gratuito; in esso non ci sono personaggi simpatici eppure ogni personaggio riesce a coinvolgere lo spettatore che alla fine si trova immerso in un clima sospeso, come lo sguardo conclusivo di Luciano, verso la telecamera.
La scena finale permette di capire, più di tante spiegazioni sociologiche, perché certe dinamiche profonde dell’animo umano, quando si intreccino in una storia secolare, finiscano per costituire una gabbia da cui è impossibile uscire.