Report “79 Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica La Biennale di Venezia 2022.
I film in Concorso”
di Elisabetta Marchiori
La Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ha compiuto novant’anni!
È stata raffigurata da Lorenzo Mattotti come una leonessa alata — un angelo dalle fattezze leonine — d’oro vestita e d’oro circondata, dalla chioma rossa. È stata celebrata con la pubblicazione di un poderoso volume scritto da Gian Piero Brunetta (2022), mio concittadino e amico, professore emerito di Storia e Critica del Cinema dell’Università di Padova, dove ha insegnato per più di quarant’anni, autore di innumerevoli pubblicazioni. È un tomo di più di mille pagine questo, in cui Brunetta, con il suo consueto rigore e la sua indomita passione, racconta con il suo stile ironico, avvincente e poetico, un secolo di storia del Cinema, intrecciandola alla sua storia personale e professionale. È stata infine festeggiata, la Mostra dorata, con l’abbattimento del muro, innalzato durante la pandemia, che garantiva il distanziamento e oscurava la vista del tappeto rosso e delle celebrità, dal ritorno di folle colorate, smascherate ed eccitate.
Per quanto mi riguarda, sono stata colpita da una sindrome da binge watching al limite del patologico: una media di sei film al giorno, senza quasi soluzione di continuità. Certamente per me stare dentro una sala a guardare un film è sempre un piacere, ma la frenesia che mi ha colto è stata stavolta eccessiva e stancante. Mi ha impedito anche di scrivere sui film visti a caldo, nonostante mi ripromettessi tutte le sere di farlo “domani”. E anche di aver bisogno di tempo per “guarire” e far spazio ai pensieri, sui film ma anche su questa particolare esperienza, dovuta a diverse concause.
La prima è senz’altro la deprivazione dovuta a due anni di pandemia, la perdita del rituale del cinema almeno una volta alla settimana, la mancanza dello stato mentale che si sperimenta nella sala buia, la scarsezza di film proposti nelle sale e l’acquisita abitudine di vederli in streaming.
La seconda è la micidiale pressione scatenata dalla difficoltà di prenotare i posti nelle sale. La direzione della Mostra ha cambiato gestore, ma l’auspicato miglioramento non c’è stato: bisognava essere connessi alle sette del mattino tutti i giorni e sperare che sullo schermo comparissero i pallini verdi a segnalare i posti liberi per la proiezione ambita. Comparivano e scomparivano a orari imprevedibili per cui d’istinto io, se non trovavo quello che volevo, ne prenotavo un altro, accumulando prenotazioni: alle otto iniziava la maratona!
La terza è un sentimento di insoddisfazione dovuto ad aspettative forse eccessive rispetto a diversi film, non del tutto bilanciata dalla pienezza della visione gratificante di altri, tra cui alcuni classici restaurati, prenotati per caso. Ecco, per inciso, questo è un effetto collaterale positivo delle disfunzioni della biglietteria on-line: capita di vedere o rivedere film che hanno davvero fatto la storia del Cinema e di comprendere l’importanza di conservare e valorizzare la contemporaneità, oltre che l’importanza storica, di queste opere d’arte. Cito a titolo di esempio lo straordinario “The black cat” (1934), di Edgar G. Ulmer, con Bela Lugosi, liberamente tratto da un racconto di Edgar Allan Poe, il primo “horror psicologico” americano.
Ma veniamo ai ventitrè film in Concorso, cui il report è dedicato.
La giuria, presieduta da Julienne Moore, ha attribuito a sorpresa il Leone d’Oro al potente documentario del premio Oscar Laura Poitrais “All the Beauty and the Bloodshed” (di cui ho scritto https://www.spiweb.it/cultura-e-societa/cinema/recensioni-cinema/beauthy-bloodshed-di-l-poitras-recensione-di-e-marchiori/), dedicato alla fotografa e attivista Nan Goldin. Ho pensato che sia stato scelto forse perché propone tutti i principali temi trattati nelle opere selezionate per questa edizione, molte delle quali dichiaratamente autobiografiche: la ricerca dell’identità in primis, gli eventi traumatici — personali e socio-politici — l’emarginazione, la crudeltà, la giustizia. O forse perché è un film sulla vittoria della bellezza, della creatività e della vita sugli spargimenti di sangue, la distruttività e la morte: sempre e per sempre la lotta tra Eros e Thanatos. Come nel film di Jafar Panhai, Maestro del cinema iraniano attualmente in carcere, in Concorso con il suo “No bears” (“Gli orsi non esistono”), cui Poitrais ha dedicato il suo Premio, augurandosi che si faccia tutto il possibile per liberare gli artisti imprigionati dai regimi nel mondo. Panhai fa del cinema un’arma di resistenza, girando comunque, ovunque e nonostante tutto, senza vittimismo né autocompiacimento, autore e testimone della Storia attraverso la propria storia e quella delle persone intorno a lui.
Ancora sul registro del mito, che si sposta su Medea, è anche “Saint Omer”, il film cui è stato assegnato sia il Leone d’Argento sia il Premio per la Migliore Opera Prima. La regista e sceneggiatrice francese di origini senegalesi Alice Diop, classe 1979, anche lei, come Potrais, documentarista di formazione, si ispira alla storia vera di Fabienne Kabou, una giovane madre che ha ucciso la propria figlia di quindici mesi abbandonandola su una spiaggia e facendola annegare tra le onde. Nel 2016 Diop aveva assistito al processo nella cittadina di Saint-Omer, nella Francia del Nord in, come fa la protagonista del film, una giovane scrittrice che aspetta un figlio, le cui vicissitudini emotive, nella relazione con la madre e nell’ambivalenza dei sentimenti provati nella gravidanza in corso, si intrecciano, nella fiction, con quelle dell’infanticida. La regista usa inquadrature fisse all’interno del tribunale spoglio, soffermandosi sul volto imperscrutabile dell’imputata e su quello angosciato della futura madre, a mostrare l’inutilità della ricerca di una verità che rimarrà inafferrabile e di spiegazioni che saranno sempre insufficienti a giustificare sia la condanna sia l’assoluzione.
L’italiano “Bones and All”, recensito da Flavia Salierno (https://www.spiweb.it/cultura-e-societa/cinema/recensioni-cinema/bones-and-all-di-l-guadagnino-recensione-di-f-salierno/), vince due premi importanti: la Miglior Regia per Luca Guadagnino e il premio Mastroianni alla migliore attrice emergente Taylor Russell. Lo sguardo di Salierno vede quello che io non ho subito riconosciuto: una storia d’amore romantica tra due giovani cannibali. Mi sorprendo sempre nel leggere le visioni dei critici e soprattutto dei colleghi, che spesso sono davvero illuminanti. A me le associazioni sono andate verso l’idea del bisogno di negare la morte e il distacco attraverso l’incorporazione dell’oggetto amato, rendendolo onnipotentemente immortale; un evitamento dell’elaborazione del lutto diventando un tutt’uno con tale oggetto divorandolo, un tentativo illusorio di sconfiggere Thanatos. Mi ha fatto riflettere sul mondo interno dell’adolescente — target peraltro del film — con quel bisogno che ha di emozioni forti per sentirsi vivo e anche riconosciuto, dai pari e dall’adulto, sin dall’odore.
In Concorso c’erano altri quattro film italiani: lo zeffirelliano “Chiara” di Susanna Nicchiarelli, l’autobiografico “L’immensità” di Emanuele Crialese (recensito da Silvia Mondini, https://www.centrovenetodipsicoanalisi.it/limmensita/), l’intimistico “Monica” di Andrea Pallaoro e il notevole “Il signore delle formiche” (recensito da Anna Trevisan, https://www.centrovenetodipsicoanalisi.it/il-signore-delle-formiche/ e Vito Sava https://www.spiweb.it/cultura-e-societa/cinema/recensioni-cinema/il-signore-delle-formiche-di-g-amelio-recensione-di-v-sava/) di Gianni Amelio. Quest’ultimo ha messo in scena il processo subito dall’intellettuale Aldo Braibanti negli anni ’60, ritenuto colpevole del “reato di plagio” di cui sarebbe stato vittima il suo giovane amante, sempre proclamatosi consenziente. È un film asciutto e rigoroso, che non mira a destare simpatia o comprensione per i suoi protagonisti, ma infonde, soprattutto, un senso di profonda vergogna per la disumanità dell’essere umano, incita al rispetto e alla presa di posizione nella lotta per i diritti umani.
Questi stessi sentimenti li induce anche “Argentina, 1985” di Santiago Mitre, un film che ricostruisce la storia delle indagini che portarono i procuratori Julio Strassera (uno straordinario Ricardo Darín) e Luis Moreno Ocampo (Peter Lanzani), insieme a un team di giovani coraggiosi, a mettere sotto processo e a far condannare i responsabili delle atrocità commesse durante la sanguinosa dittatura che soggiogò l’Argentina dal 1976 al 1983 (https://www.spiweb.it/cultura-e-societa/cinema/recensioni-cinema/argentina-1985di-s-mitre-recensione-di-e-marchiori/).
A Cate Blanchett è stata attribuita la Coppa Volpi come migliore attrice, protagonista di “Tár” di Todd Field. È un film costruito su misura per questa bravissima attrice che non aveva certo bisogno di un ulteriore riconoscimento del suo indiscutibile talento. Interpreta magistralmente infatti Lydia Tár, una direttrice d’orchestra conosciuta in tutto il mondo, elegante, ricca, potente, appassionata e manipolatrice, senza scrupoli nel sedurre e abbandonare le sue giovani allieve, che diventa vittima del suo profondo narcisismo. In questo film ritroviamo il tema della creatività e della distruttività, declinato sul registro della musica, e dell’estrema solitudine di una persona che, sintonizzata completamente con se stessa, non riesce a entrare in empatia con le persone che la circondano. Qui vorrei segnalare la bravura di Ana De Armas nei panni dell’iconica Marilyn Monroe nel film “Blonde” (https://www.spiweb.it/cultura-e-societa/cinema/recensioni-cinema/blonde-di-a-dominik-recensione-di-f-salieno/), scritto e diretto da Andrew Dominik, basato dalla biografia dell’attrice pubblicata nel 1999 di Joyce Carol Oates, in uscita su Netflix.
È Colin Farrell a conquistare la Coppa Volpi maschile per la sua interpretazione in “The Banshees of Inisherin” (“Gli spiriti dell’isola”) del drammaturgo Martin MacDonagh, regista e sceneggiatore di “In Bruges” (2008) e di “Tre manifesti a Ebbing, Missuri” (2017). È un film il cui tema centrale è l’insensatezza delle guerre fratricide, che vengono colte da due prospettive diverse. In primo piano c’è l’incomprensibile rottura dell’amicizia tra Pádraic (Colin Farrell), un giovane uomo nice — l’aggettivo con cui si auto-definisce — e sempliciotto, e Colm (Brendan Gleeson), un anziano suonatore di violino, burbero e alle prese con l’idea di lasciare dietro di sé qualcosa che si ricordi. È quest’ultimo a innescare una escalation di violenza senza fine, mettendo in atto comportamenti autolesionistici estremi pur di tenere lontano Pádraic, di cui era “the best friend“, accusandolo di essere noioso, di fargli perdere tempo, di fare discorsi inutili. Insomma, non gli va più a genio (“I just don’t like you no more”)! Sullo sfondo, in parallelo, c’è la guerra civile irlandese dell’inizio del secolo scorso, di cui si odono l’eco degli spari in lontananza, nell’isoletta in cui il film è ambientato, e della quale gli abitanti non conoscono le ragioni. Sarebbe stato il mio Leone d’Oro, questo film che ha l’impronta del teatro dell’assurdo, che mette in scena la lotta insensata tra uomini, e che da un’isola lontana e dal passato ci interroga sulle angosce del presente.Un film di ampio respiro e ampi orizzonti, che si distingue rispetto ai tanti film visti in questa edizione, che non riescono ad aprirsi dall’individuale all’universale.
A Venezia ha ricevuto solo premi minori, ma il Toronto International Film Festival ha assegnato il Tribute Award a Brendan Fraser, per la sua interpretazione da Oscar come protagonista di “The Whale” (“La balena”) di Darren Aronofsky (vincitore del Leone d’Oro nel 2008 per “The Wrestler”), l’altro mio candidato al Leone d’Oro. Interpreta Charlie, un professore di letteratura omosessuale e gravemente obeso, a cui restano pochi giorni di vita, che tenta di recuperare il rapporto con la figlia adolescente, abbandonata per poter vivere la storia d’amore con l’uomo che amava e che si è ucciso. Il suo unico sollievo sta nel leggere e farsi leggere uno scritto della figlia che parla della Balena Bianca di Melville. Tratto dall’omonimo testo teatrale di Samuel D. Hunter, autore anche della sceneggiatura, girato nello spazio claustrofobico della casa di Charlie, nel breve lasso di tempo di una settimana, con pochi personaggi che entrano ed escono mentre fuori piove ininterrottamente, nello svolgersi della storia il peso di Charlie e la pesantezza della situazione si sciolgono nell’aspirazione alla redenzione e alla resurrezione. È un film intenso, straziante, di cui è difficile scrivere tanta è la sua semplice complessità.
“Athena”, di Romain Gavras (figlio del celebre Costa-Gavras), ha un titolo che rimanda alla mitologica dea della guerra, ma anche al quartiere della periferia di Parigi dove il conflitto tra residenti islamici e le forze dell’ordine arriva allo scontro violento che il film mette in scena con tanti muscoli, sangue, sudore, fuoco, fiamme e fumo. Sembra la versione videogame del film di culto “L’odio” (1995) di Matthieu Kassovitz e del più recente e sfaccettato “I miserabili” di Ladj Ly (2019, https://www.spiweb.it/cultura-e-societa/cinema/recensioni-cinema/les-miserables-di-l-ly-recensione-di-e-marchiori-e-d-miconi/), con personaggi ritagliati su stereotipi senza profondità.
Rimando alla recensione di Flavia Salierno per il film tra lo storico e l’autobiografico di Aleandro Gonzàlez Iñárritu “Bardo, falsa crònica de unas cuantas verdades” (“Cronaca fittizia di una manciata di vità”) (https://www.spiweb.it/cultura-e-societa/cinema/recensioni-cinema/bardo-falsa-cronica-de-unas-cuantas-verdades-di-a-gonzalez-inarritu-recensione-di-f-salierno/) e a quella di Chiara Buoncristiani per il film “White noise” (“Rumore Bianco”) di Noah Baumbach (https://www.centropsicoanaliticodiroma.it/il-festival-di-venezia-debutta-con-white-noise-quel-rumore-bianco-da-cui-non-si-puo-uscire-di-chiara-buoncristiani).
Riguardo al film iraniano “Shab, dakheli, Divar” (“Oltre il Muro”) di Vahid Jalilvand voglio riportare quanto scritto dal collega Stefano Marino (https://multicultiblog.org/2022/09/11/biennale-cinema-2022-otto-settembre/), perchè non potrei dire meglio: “Ancora una lezione di cinema da questo Paese. Inizia come una storia iper realista, un fallimentare tentato suicidio, un uomo chiuso in una casa, una ingravescente cecità […] Col procedere della narrazione, però, si verificano degli apparenti errori di montaggio, lo stesso dialogo viene proposto in scene differenti, alla luce del sole nei flashback e nella penombra della casa, la scena per pochi attimi appare ripresa da una telecamera di sorveglianza, crescono incongruenze nella trama che include una donna disperata che ha ripetute crisi epilettiche. Questi salti logici, temporali, narrativi, lungi da disturbare o disorientare lo spettatore, generano suspense e attenzione ed espandendosi divengono il cardine della narrazione. Oltre il muro della cecità e dell’oppressione poliziesca, nel frammentarsi della temporalità generata dall’epilessia, ricordo sogno e rêverie si fondono e generano un universo dove i nessi causali e temporali sono sovvertiti e rispecchiano una condizione celata della psiche”.
Incredibile il film del novantaduenne documentarista Frederick Wiseman, un “monologo” di sessantatrè minuti (a compensazione della durata spesso eccessiva di tante opere in Concorso), girato in tre settimane nel 2021 nel giardino La Boulaye, sull’isola di Belle Île, durante il quale Sofia, moglie di Tolstoj, interpretata da Nathalie Boutefeu, recita il suo diario. La coppia, sposata per trentasei anni e con tredici figli, spesso cercava il dialogo attraverso la parola scritta nella relazione difficile e conflittuale. Emerge il ritratto di una donna tanto intelligente quanto infelice e di un uomo tanto geniale quanto crudele, che fa riflettere sull’importanza dell’autoanalisi e dell’auto-narrazione per la sopravvivenza psichica, di cui abbiamo fatto esperienza con l’isolamento cui ci ha costretti la pandemia.
Un altro film con una sola donna, ma “raddoppiata”, è “The eternal daughter” (“La figlia eterna”) di Joanna Hogg, dove l’onnipresente e naturalmente bravissima Tilda Swinton interpreta madre e figlia, in una storia di fantasmi ambientata in un vecchio hotel scricchiolante, immerso tra il nulla e le nebbie, da cui emergono bisbigliando e lacrimando i fantasmi del passato, tra proiezioni, sensi di colpa e segreti. La regista ammette che è un film di sentimenti autobiografici, e offre molto pane per denti psicoanalitici!
Anche il film di Rebecca Zlotowsky, “Les enfants des autres” (“I figli degli altri”), leggo su Internazionale (n.1480) essere autobiografico. Quando c’è una storia vera di sofferenza, come quella di una donna che non ha figli e si trova circondata dai figli degli altri, sublimando il proprio istinto materno impegnandosi nel lavoro e tenendo a freno la rabbia per i vissuti di frustrazione, c’è anche la necessità di dare spazio alla riflessione. La maternità, come sappiamo, porta con sé sentimenti di profonda ambivalenza, cosi come la mancata maternità (https://www.spiweb.it/cultura-e-societa/cinema/dal-xx-congresso-della-spi-i-due-eventi-a-cura-del-gruppo-cinema-e-psicoanalisi-report-di-e-marchiori/) e la ricerca spasmodica della stessa. Il film è interpretato da Virginie Efira e da Roschdy Zem, che ha portato in Concorso come regista “Les miens” (“I miei”), un’altra vicenda autobiografica “la mia storia d’amore con la mia gente” — afferma Zem —, drammatica ma trattata con gradevole ironia … finalmente!
“Love life” di Koji Fukada racconta una vicenda tragica e molto complessa: una giovane coppia di neo-sposi perde il figlio che la donna ha avuto dal primo marito, sordomuto. Lo spettatore vive con i protagonisti il dolore della perdita, esperito e agito in modi molto diversi da ciascuno di loro, e la difficoltà a condividerlo.
Florian Zeller, acclamato romanziere, drammaturgo, sceneggiatore e regista, dopo il pluripremiato “The father” (“Il padre”, 2019, https://www.spiweb.it/cultura-e-societa/cinema/recensioni-cinema/father-nulla-e-come-sembra-di-f-zeller-recensione-di-m-montemurro/), che ha fatto vincere l’Oscar a Antohny Hopkins, porta dal teatro al cinema “The son” (“Il figlio”). Della sua trilogia teatrale manca a questo punto solo “La mère” (2010). “È in parte ispirato a emozioni che conosco personalmente” — ha dichiarato Zeller — e di nuovo si addentra in dinamiche familiari disfunzionali e in rapporti difficili e conflittuali, in particolare qui nella relazione tra un padre e un figlio adolescente, che ha radici lontane (il nonno odioso è, non a caso, Hopkins). È un film che propone temi davvero importanti, purtroppo attraverso una storia nota e scontata con personaggi rigidi e poco empatici.
In conclusione, ripensando a tutti questi film insieme, posso ipotizzare che il passaggio attraverso la pandemia e il senso di incertezza e precarietà vissuto a livello globale abbia portato tanti registi a mostrare al pubblico ciò che hanno visto guardando dentro di sé e ripensando alle loro storie personali, esponendosi in prima persona, con memoir e autobiografie. In questo caso le storie sono quindi incentrate su un unico personaggio, per lo più girate in luoghi chiusi o comunque ben delimitati. Ho l’impressione che questa tendenza, presente anche in letteratura, rispecchi creativamente una crescente difficoltà a relazionarsi con l’altro in un rapporto bidirezionale “nutriente”, che noto anche nei racconti che emergono nella stanza d’analisi. È come se il bisogno di essere visti e confermati della propria esistenza attraverso lo sguardo dell’altro facesse passare in secondo piano la necessità di una reciprocità di sguardi. La visione di ogni film porta a un dialogo sempre più intimo e stretto con il suo spettatore, forse per questo le emozioni e i pensieri che fa scaturire da ognuno possono essere così diversi e divergenti
Ma ora basta, è tempo di andare al cinema, quest’anno l’offerta è ricca, anche le altre sezioni (Orizzonti, Orizzonti Extra, Giornate degli Autori, Giornate della Critica, Documentari, Cortometraggi) hanno proposto molti film che meritano la visione e la condivisione, e speriamo che abbiano distribuzione.
Alla fine, è stata una eccezionale festa di compleanno per la Mostra che, grazie ad Alberto Barbera, direttore della sezione cinematografica della Biennale, ha attraversato coraggiosamente la pandemia senza mai fermarsi. Quindi concludo unendomi a Brunetta per un “augurio di lunga vita e un ‘evviva’ alla Mostra e a tutti quelli che contribuiscono al suo presente e al suo futuro” (p.7).
Brunetta G. P. (2022). La Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, 1932-2022. La Biennale di Venezia/Marsilio, Venezia.
Ottobre 2022