Cultura e Società

76 Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Report di E. Marchiori

3/10/19

76 Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia

Report di Elisabetta Marchiori

La 76 esima edizione della Mostra D’Arte Cinematografica di Venezia ha registrato il record di presenze degli ultimi dieci anni, sia nelle sale sia nei Viali del Lido. Si è sentita la presenza dei giovani – zainetto, borraccia e smartphone – richiamati dalla presenza di star – più o meno splendenti di luce propria – che si sono concesse con generosità ai loro fans.

Tutti felici e contenti, hanno reso l’atmosfera elettrizzante, piena di entusiasmo, come la marcetta che ha introdotto tutte le proiezioni dei film in Concorso, con le immagini animate di Mattotti: personaggi che accorrono per mare, acqua e terra, da tutto il mondo, per ammirare le meraviglie che offre il cinema. E la bellissima ragazza dai capelli rossi, che lo scorso anno invitava con un gesto seduttivo a guardare il mondo e – sembrava – a “farlo quadrare”, si trasforma, in questo breve film di animazione, in una donna con tratti decisi, che da quel quadrato fa nascere una sorta di punto di domanda, mentre il leone di Venezia che regge in una mano sbatte le ali. E i manifesti di quest’anno ritraggono una coppia abbracciata su una barca in mezzo al mare, ripresa da un operatore sospeso sopra di lei. Come a suggerire: il Cinema è amore, desiderio, passione, attenzione, percorso.

Come hanno dichiarato durante la cerimonia di premiazione Lucrecia Martel, la Presidente della Giuria dei film in Concorso, e Susanna Nicchiarelli, la Presidente della Giuria della Sezione Orizzonti, il Cinema è anche pensiero, desiderio di parlare e di discutere, bisogno di capire. I film di questa edizione, quasi nessuno escluso, offrono molti stimoli in questo senso, messe da parte le polemiche sulle piattaforme streaming – accettate come una evoluzione ormai ineluttabile – e evitandone di nuove.

Il Leone d’Oro è stato di “Joker”, il film dell’americano Todd Phillips (quello della saga “Una notte al museo”) che, a caldo, mi ha riportato alla memoria sequenze note e indotto sentimenti contrastanti. Non si tratta del “citazionismo” di Tarantino, quanto di una indiscutibile capacità di riproporre stilemi classici reinterpretandoli in chiave contemporanea. La risata disperata e malata del “Joker”, un Joaquin Phenix più da Oscar che da Coppa Volpi, completamente posseduto dal suo personaggio, così speculare al ghigno dei suoi aguzzini (e che imita quello di Nicholson in “Shining”) e il suo vissuto di bambino abusato e maltrattato, ci immerge in una “scorpacciata di ultraviolenza” da “Arancia Meccanica”. I soprusi e le ingiustizie, le differenze sociali, il successo effimero ottenuto con pietose apparizioni in uno dei tanti reality, talent o talk show, il desiderio frustrato di essere visti, riconosciuti, amati, portano al desiderio di rivalsa che sfocia inevitabilmente in odio e distruttività (“Joker”di T. Phillips. Commento di E. Marchiori).

Inaspettatamente, quasi per contrasto alla pienezza di colori, di movimento e di violenza di “Joker”, il Leone d’argento è stato assegnato all’essenziale film “Sull’infinito” dello svedese Roy Andersson, già Leone d’oro nel 2014 per “Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza”. Il regista, con le sue immagini oniriche in bianco e nero, sembra voler estrarre il senso più profondo di quella che è l’umanità da momenti della vita quotidiana e da eventi storici, dal particolare e dall’universale. Nella sua capacità di estrema sintesi, egli costringe lo spettatore a confrontarsi con la terribile bellezza di “essere vivi e umani” e gli aspetti più difficili da accettare dell’esistenza, dalla sua finitezza alla crudeltà insita nelle relazioni tra le persone.

A “J’accuse”, forse anche per mettere definitivamente a tacere le polemiche sorte da alcune dichiarazioni della Martel riguardo la presenza del film di Roman Polanski, che riproponevano la condanna per stupro che pesa sul regista da tutta una vita, è a quest’ultimo che è andato il per la Premio Miglior Regia. Un riconoscimento del tutto meritato, essendo un’opera tra le più apprezzate dalla critica e dal pubblico. Il film riprende lo storico “affaire Dreyfus”, dal nome dell’ufficiale dell’esercito francese di origine ebraica condannato nel 1895 come traditore e deportato nell’Isola del Diavolo nella Guiana francese in completa solitudine. Si è trattato di un clamoroso caso di errore giudiziario che è diventato il più grande conflitto politico e sociale della Terza Repubblica francese, innescando un dibattito culturale importantissimo. Polanski accende i riflettori sul tema della giustizia e della sua corruzione dal punto di vista dell’accusatore: il protagonista è infatti Georges Picquart (Jean Dujardin), l’uomo diventato capo del controspionaggio che per primo aveva volto i sospetti sull’ebreo Dreyfus (Louis Garrel) ma, quando comprende che è innocente, lotta per la verità contrapponendosi all’esercito, in una lotta impari, di cui vengono messe a fuoco con estrema lucidità le storture del percorso giudiziario.

“Joker” e “J’accuse” possono situarsi in quello che mi è sembrato il tema cardine di questa formidabile edizione: quello del potere, nelle sue più significative declinazioni. Infatti molti film rivolgono uno sguardo lucido e inesorabile alle dinamiche attraverso cui le persone, le istituzioni e i sistemi possano manipolare da posizioni di potere sia la legge sia la verità, ignorando i diritti fondamentali dell’uomo e la sua dignità, ignorando le emergenze sociali, culturali e ambientali che stanno devastando il nostro mondo e il nostro vivere quotidiano.

Lo fa attraverso film molto diversi tra loro, diretti da registi provenienti da mondi geograficamente lontani e che raccontano vicende storiche o contemporanee, siano documentari, ispirati a storie vere, oppure di finzione. E non è un luogo comune affermare che il cinema “della realtà” riesca ad andare ben oltre la finzione e l’immaginazione dello spettatore, per quanto colto e ben informato su temi di attualità.

Su questo filone anche il film “La mafia non è più quella di una volta” di Franco Maresco (“La mafia non è più quella di una volta” di F. Maresco. Recensione di A. Falci), che ha meritato il Premio Speciale della Giuria, ma si possono includere anche “Il sindaco del Rione Sanità” di Mario Martone (Il sindaco del Rione Sanità” di M. Martone. Commento di E. Marchiorie “Waiting for the Barbarian” di Ciro Guerra (“Waiting for the Barbarians” di C. Guerra. Commento di S. Pesce).

Ancora più incisivi e d’impatto su questi temi, fuori concorso “fiction”, ricordo “Adults in the Room” di Costa-Garvas, su quella “tragedia dei nostri tempi” che è stata la crisi greca, che mostra uomini politici rappresentanti dell’Europa come bambini testardi e capricciosi, incapaci di confrontarsi e risolvere i conflitti, tutti concentrati su loro stessi e sul proprio potere (“Adults in the Room” di Costa-Garvas. Commento di E. Marchiori).

“Seberg” di Benedict Andrews, racconta la storia dell’attrice francese finita nel mirino del programma di sorveglianza illegale dell’FBI COINTELPRO per il suo coinvolgimento con un attivista del Black Power e il suo sostegno al movimento, che le ha minato l’esistenza portandola al suicidio.

Quattro sono i film fuori concorso “non fiction” che fanno luce sulla perversione e la corruzione delle dinamiche politiche nel mondo.

Uno è “Citizen k” di Alex Gibney (UK, USA, 2019, 128’) un “ritratto cinematografico” di quello che è stato l’uomo più ricco della Russia: Mikhail Khodorkovsky. Il film monta spezzoni di interviste e materiale documentario, dichiarazioni di giornalisti, avvocati e altri testimoni, che trascinano lo spettatore nelle assurde dinamiche del potere in Russia. L’ex-oligarca è stato certamente un uomo senza scrupoli, ma è diventato un riferimento per l’opposizione democratica sia per una evoluzione personale sia per la fermezza dimostrata nel fronteggiare un avversario come Putin. Alla domanda su come mai non lasciò il paese come altri oligarchi fecero per evitare la Siberia, risponde: ”Perchè non dò abbastanza valore alla vita per barattarla con la libertà”.

Il secondo è “Kingmaker” (USA, 2019, 100’) della regista e fotografa Lauren Greenfield, ripercorre la terribile storia del regime di Marcos attraverso il racconto della vedova del dittatore, Imelda, una donna scaltra e senza scrupoli, che si propone qui quasi come una madre che ha nutrito il suo paese e di cui esso ha ancora bisogno.

Il terzo è “Collectiv”, diretto dal regista romeno Alexander Nanau, che segue tutte le tappe dell’inchiesta giornalistica che ha messo a nudo la radicale corruzione del sistema sanitario in Romania.

Per ultimo “State Funeral” di Sergei Loznitsa, documentarista russo (ricordo “Austerlitz”, “Austerlitz” di S. Loznitsa. Recensione di E. Marchiori) che, attraverso filmati d’archivio, mostra il funerale di stato di Josip Lenin. Senza alcun commento vocale o didascalia, le immagini parlano del culto della personalità creato attorno alla figura del dittatore e dicono dell’essenza profonda delle natura della tirannia, impattando con tutto il loro potere evocativo sullo spettatore, che ne rimane completamente ipnotizzato.

Seguono questo fil rouge, con sfumature diverse, anche i film premiati – e non solo quelli – nella Sezione Orizzonti.

È stato scelto infatti come miglior film “Atlantis” del regista ucraino Valentyn Vasyanovich, sulle drammatiche conseguenze dei conflitti di potere tra le nazioni sulle singole persone e sull’ambiente in cui vivono. Con immagini crude e crudeli, si sofferma sul disastro in termini umanitari ed ecologici provocato dalla guerra. Alla desertificazione desolata della terra devastata, dal recupero dei cadaveri cui si vuole restituire l’identità, si contrappone l’istinto di vita, la forza della sopravvivenza, incarnata dall’incontro tra l’ex-soldato Serjei e Katya, una volontaria che lo coinvolge in quel lavoro di “disotterramento” dei corpi che diventa per lui – con lei – percorso di recupero del trauma e del lutto.

A Théo Court, regista di origine cilena, è stato attribuito il premio per la Miglior Regia con “Blanco en Blanco”, un film con delle immagini magnifiche e inquietanti, che porta lo spettatore, sequenza dopo sequenza, con ritmo lento e inesorabile, a porre il suo sguardo sul massacro del popolo Selkam da parte dei coloni nella Terra del Fuoco. L’occhio dello spettatore diventa l’occhio del fotografo Pedro (Alfredo Castro), chiamato per ritrarre – con un certo voyerismo – la moglie bambina di un potente proprietario terriero e poi costretto a testimoniare, con il suo lavoro, la brutalità della barbarie. Il regista si è ispirato alle foto autentiche che testimoniano l’orrore perpetrato da un potere – in questo caso quello dei proprietari terrieri – che guida le azioni disumane di uomini senza scrupoli, attratti dal denaro e dal piacere dell’uccidere.

Dal Sud-Africa arriva “Moffie”, di Oliver Hermanus, un film sul lavaggio del cervello perpetrato per quasi un secolo dalla politica dell’apatheid sui giovani addestrati al razzismo, all’omofobia e alla violenza durante il servizio militare.

“Virdict”, del filippino Raymund Ribay Gutierrez affronta il dramma della violenza domestica che non può trovare giustizia a causa di un sistema legale iniquo che si traduce nell’impunibilità dell’aguzzino.

“Chola”, del giovane Sanal Kumaer Sasidharan, con una incredibile capacità di coinvolgere lo spettatore, segue le drammatiche vicissitudini di una ragazzina indiana costretta a pagare un prezzo altissimo per essersi illusa di poter vivere qualche ora di libertà lontano dal suo villaggio, sfuggendo al controllo della madre: uno squarcio realistico sul potere maschile in India, in una cultura che impone alle donne di obbedire ai maschi dominanti.

Certamente, si possono seguire altri percorsi, altre associazioni libere altrettanto plausibili per creare intrecci tra i tanti film, che ogni spettatore guarda e vive in modo diverso.

Per spezzare questo drammatico fil rouge è doveroso menzionare i vincitori della Coppa Volpi, entrambi apertamente schierati in favore dei diritti civili: per l’interpretazione maschile l’italiano Luca Marinelli, un po’ sopra le righe, con l’ambizioso film di Pietro Marcello “Martin Eden” e per l’interpretazione femminile, convincente ma non eccezionale, della francese Ariane Ascaride in “Gloria mundi” di Roberto Guédiguian. Ampiamente meritato il Premio Marcello Mastroianni come miglior attore esordiente a Toby Wallace, co-protagonista di “Babyteeth” dell’esordiente australiana Shannon Murphy.

Concludo con due film che coinvolgono profondamente lo spettatore toccando corde completamente diverse: dal potere mortifero al potere della vita.

Il primo è “No.7 Charry Lane” che è valso al cinese Yonfan il premio per la migliore sceneggiatura: un’opera poetica, un omaggio al Cinema come sogno e anelito alla libertà, che mescola dolcezza e dramma, vissuti dai protagonisti attraverso la visione di film, le cui scene si mescolano alle magnifiche sequenze di animazione.

Ma è “Roger Waters Us + Them” di Sean Evans e Roger Waters, membro fondatore e forza creativa dei Pink Floyd, con l’energia sprigionata dalla musica, a catapultare lo spettatore in un’atmosfera di libertà che diventa assoluta e nello stesso tempo rimane rispettosa, a ricordare che l’essere umano ha altri “poteri”: creatività, empatia, condivisione, rispetto della persona, capacità di agire per il bene comune. Vediamo sul palco cantare e suonare un anziano signore, che con la sua musica e con la vitalità di un ragazzino invita il suo pubblico di ogni età ad agire, a fare qualcosa per difendere i diritti umani e salvare il pianeta. E viene in mente Greta Thunberg, che ragazzina è davvero, con la sua serietà da adulta e la sua caparbietà di bambina, a muovere folle di ragazzi e ragazze sfidando il potere, animata dalla stessa vitalità e dagli stessi obbiettivi. Vecchie e nuove generazioni che, insieme, possono – devono – perseguire il bene comune: e qui ci possiamo commuovere.

È il potere del Cinema.

 

Settembre 2019

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