75° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, i film premiati
Report di Elisabetta Marchiori
La 75° edizione della Mostra ha registrato uno straordinario afflusso di pubblico e di accreditati, in controtendenza rispetto agli anni precedenti, che facevano temere un inesorabile svuotamento delle sale. Complice di questo successo forse è stata anche la bellissima ragazza dai capelli rossi, disegnata dal fantastico Mattotti, un po’ Rita Hayworth che, dai manifesti attaccati ovunque, invitava con un gesto seduttivo a guardare il mondo e – sembrava – a “farlo quadrare”.
I film presentati in Concorso sono stati caratterizzati dall’essere molto diversi tra loro per qualità e lunghezza, in alcuni davvero eccessiva, ipotizzo per la contaminazione e l’ibridazione in corso con le serie televisive. Alcune trame erano molto scorrevoli e scontate, quasi ingenue, altre frammentate in mille rivoli che tendevano a disperdersi, perdendo incisività, altre ancora penalizzate da un eccesso di estetizzazione.
Qui si aprirebbero innumerevoli filoni di dibattito tutti interessanti, quindi mi limito a fare qualche riflessione sui film premiati in Concorso e nella Sezione Orizzonti e su alcuni aspetti che possono suscitare interesse anche psicoanalitico.
I film favoriti secondo la maggioranza della critica e del pubblico sono stati di fatto premiati, quindi nessuna sorpresa per il Leone d’Oro a Cuarón per “Roma”, rimasto in testa nelle classifiche sin dall’inizio (vedi commento su Spiweb). Certo, sembrava a rischio per l’amicizia tra il regista e il Presidente della Giuria Del Toro, oppure per la produzione Netflix, che di fatto limita la distribuzione nelle sale, ma a Venezia, si proclama a gran voce quel che conta è il Cinema (con la “C” maiuscola). Proclama che si presta a svariate interpretazioni, o le inibisce tutte. Comunque amicizie e soldi non danneggiano, ma possono cambiare di parecchio le prospettive e possono ipotecare il futuro.
Per tornare a “Roma”, la Giuria non ha avuto dubbi e ha votato all’unanimità, e la bravura del regista nel costruire un perfetto film da festival è indiscutibile. Uno “spaccato” del Messico anni ’70, con tutte le sue contraddizioni e i suoi conflitti a livello micro e macro-sociale, in bianco e nero di ricordi e di nostalgia, essendo autobiografico. Una famiglia “spaccata”, di cui è Cleo, la tanto amata domestica indigena, la tata dell’infanzia del regista, il cuore affettivo (del film), dolcissima e forte al contempo (vedi la scena in cui è l’unica a stare in equilibrio su un piede solo in mezzo a una folla che cerca di concentrarsi alla guida di un Guru!!!), quella che non pulisce gli escrementi del cane di casa che imbrattano costantemente il corridoio dell’entrata, ma sa dare davvero tanto amore. Si può immaginare che il regista ci voglia mostrare qualcosa “oltre”, banalmente la rappresentazione che anche i ricchi possono trovarsi “nella merda” (metaforicamente parlando), o che ci sono altre priorità, come gli affetti, appunto. Oppure ci voglia ricordare quanto il non accorgersi delle cose sgradevoli che ti circondano possa aiutare a sopravvivere. “Invidio quelli che hanno la capacità di non vedere, vivono molto meglio”, mi diceva di recente un paziente in seduta.
Netflix concede qualche giorno per le sale, prima di lanciarlo, per Natale, nella sua piattaforma, e sarà bene approfittarne perché in televisione ci si potrebbe distrarre.
Leone d’Argento invece a “La favorita” (vedi commento su Spiweb), film in costume, ispirato a una storia vera, dell’amato o odiato Yorgos Lanthimos, ambientato in Inghilterra alla corte della regina Anna (1702-1707), interpretato da una Olivia Colman che ha meritato per il ruolo la Coppa Volpi.
La storia si concentra attorno alla lotta tra le bellissime e spietate aspiranti ad essere “la favorita” della Regina Emma Stone e Rachel Weis, ottenerne i favori esclusivi e quindi il potere. Una Regina confusa e capricciosa, malata e disgustosa, di cui le due cattivissime si contendono il letto con perverso piacere, snobbando e maltrattando smidollati e poco attraenti uomini politici.
Ritratti di donne opposte, la domestica dimessa, sfortunata e amorevole che darebbe la vita per i figli della padrona, e le due belle giovani, più pestifere delle sorellastre di Cenerentola, che per il potere son capaci di uccidere e se ne fregano del bene della Patria. Figuriamoci se pensano ai figli.
Questi due film mostrano come il mondo veda le donne oggi, ai tempi di #metoo: da una parte la donna bisognosa devota fino alla morte a chi la accoglie come una di famiglia, con una vita grama se non fosse a sua volta protetta, dall’altra la donna “fallica”, senza scrupoli che brama al potere e fa fuori il maschio e pure la femmina, senza bisogno di nessuno.
Una terza visione si è fatta strada, tra polemiche e accuse, nel personaggio di Clare, la protagonista di “Nightingale” di Jennifer Kent (“The Babadook”, 2014) Premio Speciale della Giuria.
Siamo in Tasmania, nel 1820, dove Clare (la brava Aisling Franciosi) una galeotta irlandese, sopravvissuta all’uccisione della figlia e del marito da parte dei colonizzatori, decide di non soccombere. Determinata a vendicarsi, affronta un lungo inseguimento dei suoi aguzzini, parallelo ad una maturazione interiore; con lei un altro perseguitato, l’aborigeno Billy che le fa da guida, interpretato da Baykali Ganambarr, premio “Marcello Mastroianni” come miglior attore emergente.
La Kent, unica regista in gara, conquista un premio “dovuto”, quasi di consolazione o di incoraggiamento, data l’evidente “minoranza”, per questo film di genere “rape and revenge”, accusato di spargimenti gratuiti di violenza e sangue. Si aggiunge il pepe di un piccolo scandalo dovuto a un giornalista che a fine proiezione ha gridato insulti sessisti contro la regista, seguiti da una profusione di scuse. Cosa può aver provocato tanto disturbo alla sensibilità del pubblico? Non è una domanda da liquidare brevemente, perché tocca il nervo scoperto del femminile e della violenza sulle donne, che non si riesce ad affrontare in modo equilibrato: gli uomini sono traditori o stupratori, le donne sono efferate castratrici o miti donne di casa, o devono pagare prezzi altissimi per avere quello che spetta anche a loro, cioè la loro dignità di esseri umani.
Tre “visioni” del mondo femminile dissociate tra loro e, mentre le prime due vantano la maestria di regie impeccabili, pur mancando di spessore e di complessità, la terza, con il suo sguardo al femminile, emana sentimenti di dolore e rabbia autentici e profondi, ma inelaborati, scomposti o controllati in modo infantile.
Passando a visioni “al maschile”, entusiasmo riconosciuto con il premio per la Miglior Regia a Jacques Audiard (“Il Profeta”), per il suo “The Sisters Brothers”, adattamento del romanzo di Patrick deWitt, un sorprendente western di inseguimenti e sentimenti che ha come protagonisti gli inseparabili fratelli Sisters Eli (John Reilly) e Charlie (Joaquin Phoenix). Audiard mescola con notevole sagacia e umorismo Ford, Leone, Tarantino e i Coen in salsa francese, un cast di attori belli e bravi, con un risultato eccellente e per nulla scontato.
Già il titolo è evocativo, e introduce nel Far West un elemento “femminile” che riguarda ogni storia di ogni essere umano, rappresentato nel film da uno scialle rosso (oggetto transizionale) che il fratello “buono” Eli porta sempre con sé, sbeffeggiato dal “cattivo” Charlie.
Un film che seduce lo spettatore e lo diverte, travalicando i confini del genere e trasformandolo in un dramma interiore di profonda intensità, dove sono messi in gioco l’importanza del passato, il rapporto tra padri e figli, la fratellanza e l’amicizia, il bisogno di relazione e di prendersi cura l’uno dell’altro. Qui la donna è la mamma e basta, visto che ce n’è una sola anche per i cow-boys!
Stando sul tema del Far West, il riconoscimento per la Miglior Sceneggiatura è stato assegnato a “La ballata di Buster Scruggs” (“The Ballad of Buster Scruggs”, vedi commento) dei fratelli Coen, altro prodotto Netflix, casa di produzione con cui i due hanno stretto da tempo un forte sodalizio. I Coen sono cantastorie e incantatori, a tutti gli effetti, e hanno una visione tragica della vita: non possiamo sfuggire al nostro destino, né alla morte – che è qui l’unica (e la principale) protagonista femminile – ma facciamo fatica ad accettarli, a confrontarci sul nostro essere “temporanei”. Ecco, i Coen ce lo dicono in faccia, ma con leggerezza e poesia.
La carrellata sui film premiati si conclude con “At Eternity’s Gate”, con cui Williem Dafoe si è meritatamente aggiudicato la Coppa Volpi come miglior interprete maschile per il film ritratto del pittore Vincent Van Gogh, diretto dal pittore e artista poliedrico Julian Schnabel. Un’opera che azzarda di mostrarci il mondo attraverso gli occhi dell’artista, come se potessimo dipingerlo, e a commentarlo con lui, facendoci provare le sue emozioni. Le immagini e le parole coinvolgono tutti i sensi dello spettatore che, allentate le difese, si fa trasportare in una dimensione filmica seducente e commovente.
Tra i film non premiati, degno di menzione è “Zan” (“Killing”), di e con il maestro giapponese Shinya Tsukamoto, che ci conduce, attraverso il mondo dei Samurai, nel dramma del volere e potere uccidere un altro essere umano, da parte di un essere umano. Opera di assoluta maestria registica, per “riavvicinarsi all’essenza dell’uomo” il regista – come ha dichiarato- ha condensato “tutte le armi da fuoco in una sola spada”.
La Sezione Orizzonti ha offerto allo spettatore film molto interessanti, a riprova, come già si notava lo scorso anno, che il cinema “vero” oggi viene dall’Oriente e dai Paesi del Nord-Africa, e purtroppo gli spettatori occidentali faranno fatica a vederlo nelle sale.
Il premio per il Miglior Film è stato assegnato al regista tailandese Phuttiphong Aroonpheng per “Kraben Rahu” (Manta Ray), un film dai dialoghi scarnissimi e dalle immagini oniriche, dedicato al genocidio dei Rohingya, che porta davanti agli occhi di un mondo che lo ignora, o meglio lo nega e lo nasconde.
La Miglior Regia è stata attribuita a Emir Baigazin, del Kazakistan, per “Ozen” (“The River”) un film che ci porta in un remoto villaggio, all’interno delle dinamiche feroci di una famiglia tutta al maschile, un padre e cinque fratelli.
Il Premio Speciale della Giuria è stato assegnato al film turco “Anons” (“The annoncement”), dove il regista Mahmut Fazil Coskun racconta con ironia il tragicomico tentativo di colpo di Stato da parte di un piccolo gruppo di ufficiali nel maggio 1963.
Natalya Kudryashova è stata premiata come Miglior Attrice per “The man who surprised everyone”, film dei registi russi Natasha Merkulova e Aleksey Chupov, che affronta il tema dell’identità sessuale in paesi estremamente intolleranti, ma anche quelli dell’accettazione di una diagnosi infausta e del tentativo di ingannarla.
Miglior attore è stato considerato Kais Nashif, protagonista della commedia israeliana di Sames Zoabi “Tel Aviv on fire”, che tratta, con una ironia che scivola nel comico, delle opposte “visioni” del conflitto arabo-israeliano.
Una chicca dal punto di vista psicoanalitico è il sorprendente film del regista tibetano Pema Tseden “Jinpa”, che ci sospinge in un intreccio di sogni che si trasforma nel nostro sogno.
Per concludere Orizzonti, una menzione a due film italiani da non perdere. Il primo è “Sulla mia pelle”, di Alessio Cremonini (vedi commento su Spiweb) sulla vicenda tutta italiana di Stefano Cucchi, visibile su Netflix. Il secondo è “La profezia dell’armadillo” di Emanuele Scarigi, che dà corpo ai personaggi a fumetti di Zerocalcare.
Sono diverse le questioni sollevate da questa edizione della Mostra, che riguardano l’ambito sociale, artistico, culturale e, anche, psicoanalitico: la querelle con Netflix, l’inevitabile contaminazione e ibridazione del cinema con le serie televisive e le enormi questioni economiche sullo sfondo, tutti temi che portano alla difesa della fruizione del film in sala.
Appare infatti amplificato nel pubblico il desiderio di trovarsi immersi nelle storie degli altri e di condividerle, facendo propri i sogni sognati attraverso lo schermo, talvolta nitidi e realistici, talvolta confusi e frammentati, talvolta spaventosi e angoscianti, riflessi del nostro mondo interno e di quello che ci circonda. Lo spazio della sala è infatti uno spazio irrinunciabile per la nascita del pensiero e per la sua elaborazione.
Ottobre 2018