74^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica.
Report di Elisabetta Marchiori
La 74esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, risplendente di star sul tappeto rosso e un programma prestigioso, con evidenti miglioramenti nell’organizzazione e nell’accoglienza, ha infuso negli spettatori e nei frequentatori a vario titolo un generale buon umore. Quest’anno non mi ha accompagnata in questa esperienza Rossella Valdrè, ma ho avuto un sostegno prezioso dal collega psichiatra cinefilo Stefano Marino, con cui ho potuto condividere diverse “visioni” e confrontare “versioni” dei film, e che ringrazio per avermi aiutata a scrivere questo report, inevitabilmente parziale e di parte.
La Giuria, presieduta da Annette Bening e composta da Ildikó Enyedi, Michel Franco, Rebecca Hall, Anna Mouglalis, Jasmine Trinca, David Stratton, Edgar Wright e Yonfan, ha visionato i ventuno film in concorso e attribuito i premi, annunciati dal “padrino” Alessandro Borghi, che se l’è cavata bene per essere il primo nella storia della Mostra in questo ruolo.
Un certo disagio è serpeggiato alla notizia che il Leone d’Oro è stato attribuito a “The shape of water”, del messicano Guillermo del Toro. Il protagonista è un mostro marino antropomorfo e squamoso, intelligente, gentile e molto sensibile al contempo, una specie di tritone con pene “a scomparsa”, come fa capire nel linguaggio dei gesti la co-protagonista (Sally Hawkins), una giovane donna muta che fa le pulizie nel laboratorio dove è tenuto in attesa di vivisezione. Un’opera fantastica, “una favola” come è stata definita, ma anche un miscuglio di tanti, forse troppi elementi, tratti da film della Disney come “La Sirenetta”, “Cenerentola” e “La bella e la bestia”, di Spilberg come “ET” e “Il Ponte delle Spie”, da saghe di supereroi (dove tipi del genere affollano i laboratori segreti), con un’atmosfera da fantastico mondo di Amélie.
La sceneggiatura appare piuttosto sconclusionata anche per un film fantasy: certo, può rimandare a riflessioni sull’altro da sé, sul diverso (l’unico amico di Elisa è gay), sull’incontro tra solitudini, sulla contrapposizione tra male e bene, umano-non umano, vivisezione sì, vivisezione no, e chi più ne ha più ne metta, ma sta tutto in superficie, a pelo dell’acqua. Non fosse per alcuni aspetti di violenza e di sesso (non necessari), sarebbe un magnifico film per ragazzini.
Per continuare con i film premiati, il Leone d’Argento e il Premio De Laurentis come Miglior Opera Prima è stato assegnato a “Jusqu’à la garde”, del francese Xavier Legrand, sapientemente girato grazie all’esperienza teatrale del regista, bene interpretato, lineare e di sconcertante prevedibilità, sul tema della violenza domestica, di cui coglie le dinamiche con intelligenza e senza retorica: son sempre le stesse, conosciute, riconoscibili. Sembrerebbe facile prevenire la tragedia, ma non si guarda e non si ascolta con sufficiente attenzione: mostrare il vero volto dell’uomo violento, ascoltare silenzi e grida delle vittime (non ne avessimo abbastanza nella realtà quotidiana), questo l’obbiettivo dichiarato del film.
Il Gran Premio della Giuria è andato a “Foxtrot” dell’israeliano Samuel Maoz, già vincitore del Leone d’Oro con “Lebanon” nel 2009, entrambe opere che trasmettono con angoscia e senso di impotenza, nelle sceneggiature molto diverse, l’assurdità della guerra, che il regista ha sperimentato come soldato. Il film si sviluppa in una struttura a tre atti, con l’utilizzo di diversi generi (dal drammatico all’animazione), collegati dalla metafora di un ballo i cui quattro passi portano sempre al punto da dove sono partiti. Pecca un po’ di autocompiacimento, propone metafore ovvie e simboli scontati, è pieno di riferimenti, ma è senz’altro in grado di coinvolgere profondamente lo spettatore, costringendolo in uno stato di disagio per i repentini cambi di registro che non integrano ma frammentano: come le guerre che si continuano a combattere in ogni dove nel mondo.
Il western fra gli eucalipti “Sweet country” dell’australiano Warwick Thornton, dove gli aborigeni sostituiscono i pellerossa, si è aggiudicato il Premio Speciale della Giuria. Tipico prodotto da competizione, con una storia politicamente corretta, scontata, di una lentezza a momenti esasperante, paesaggi mozzafiato e protagonisti ben connotati tra buoni (gli aborigeni e un astemio timorato di Dio) e cattivi (ubriaconi, oltremodo razzisti, disgustosi stupratori). Peccato che non si vedevano i canguri.
La Coppa Volpi per l’interpretazione femminile ha premiato, come era prevedibile, la settantenne Charlotte Rampling nel film diretto dal giovane Andrea Pallaoro. Scontata la storia di una donna che deve fare i conti con le sue scelte di vita, ruolo che all’attrice riesce particolarmente bene (vedi “Tutto parla di te” di Alina Marazzi), forse anche per le sue vicissitudini personali. Qui le è cucito addosso in modo anche eccessivamente palese e la telecamera indugia quasi voyeuristicamente sul volto e sul corpo dell’attrice, come sempre di poche parole e sussurrate, in una disturbante vicenda di pedofilia.
Per l’interpretazione maschile è stato scelto Kamel El Basha, protagonista di “The insult”, purtoppo non visto, come anche “Lean on Pete” che ha riconosciuto al quindicenne Charlie Plummer il premio Mastroianni come giovane promessa. Un film che Stefano Marino mi segnala come da vedere: la storia di un adolescente magrissimo e biondo che, nella lotta per difendere la grazia del suo cavallo, perde ogni riferimento di vita, ogni figura di attaccamento ed è sempre in procinto di naufragare nello spazio immenso delle grandi pianure. La visione del continente nordamericano e dei suoi abitanti che il film ci restituisce potrebbe essere considerata una ripresa del neorealismo cinematografico in terra statunitense, con un punto di vista ben diverso da quello che permea le pellicole italiane dell’immediato dopoguerra. In Rossellini, De Sica, De Santis, nel primo Pasolini (e in più tardi emuli come l’Agnès Varda di “Senza tetto né legge”) emozioni e sentimenti sono sempre in primo piano, sono i motori primi della vicenda, le ragioni e il destino dei personaggi. Nel realismo hollywoodiano di oggi in primo piano c’è il comportamento, causa e spiegazione delle vicende e delle sofferenze dei personaggi, del destino e della tragedia. È al lavoro una visione estetica caratteristica della cultura nordamericana, freddamente legata al fenomeno e alle sue manifestazioni, indifferente alle intenzioni e ai sentimenti che le orientano, e certamente all’inconscio.
Segnalo che la miglior sceneggiatura è andata al deluso Martin McDonagh, brillante regista britannico di origini irlandesi, il favorito dal pubblico e dalla critica, con la commedia dark “Three billboards outside ebbing, Missouri”, che son curiosissima di vedere.
Tra i film in concorso, vorrei commentare brevemente quelli visti con i miei occhi.
L’atteso “Mother” di Darren Aronowsky, con un cast “stellare” composto da Jennifer Lawrence, Javier Bardem, Michelle Pfeiffer, Domhnall Gleeson e Ed Harris. Un horror poco originale, che utilizza le tematiche del genere rasentando in più sequenze il ridicolo, cosicché lo spettatore rimane in sospeso tra la sensazione di guardare una “cagata pazzesca” (in onore di Fantozzi e del suo creatore Paolo Villaggio) e trovarsi in un incubo da cui non vede l’ora di svegliarsi. La storia è quella di una coppia che vive in una grande casa isolata, per permettere a lui, uno scrittore, di ritrovare l’ispirazione perduta e a lei di realizzarsi come moglie e madre. Da un punto di vista psicoanalitico potrebbe essere punto d’avvio di diversi discorsi, tra cui quello di considerarlo come rappresentazione della personalità narcisistica e perversa, che si nutre dell’altro e lo distrugge, a sostegno di una creatività totalmente deficitaria, ma il prezzo che si paga per sostenerne la visione è, per quanto mi riguarda, troppo alto.
“Suburbicon” di George Clooney, interpretato da Matt Damon, risente di una sceneggiatura dei Cohen piuttosto attempata (venticinque anni) ed è prodotto abbastanza godibile, ma di cui non rimane traccia nel cuore (non nel mio almeno). Dopo il film “Fargo” e tre stagioni di omonima serie televisiva, la sensazione di dejà vu prende inevitabilmente il sopravvento.
Di grande impatto visivo e emotivo invece “The third murder” del giapponese Kore Eda Hirokazu, un legal drama avvincente ed estremamente inquietante, che parte dall’assunto: “Il tribunale non è il luogo in cui si stabilisce la verità”. Un uomo, che ha già scontato trent’anni di galera per un altro delitto, reo confesso dell’omicidio del suo datore di lavoro, rischia la pena di morte. Nel corso della preparazione della linea di difesa emergono tuttavia vicende segrete che metteranno in dubbio tutte le certezze dell’ammissione di colpa del protagonista. Il regista riesce ad addentrarsi nelle pieghe della complessità della natura umana, lasciando un senso di impotenza verso la possibilità di stabilire una verità assoluta e di poter avere fiducia nella giustizia umana.
Con le stesse sensazioni si vive la visione di “Angels wear white”, secondo lungometraggio di Vivian Qu, produttrice (di film come “Fuochi d’artificio in pieno giorno”, Orso d’Oro alla Berlinale 2014) e regista che a Venezia aveva presentato nel 2013 il suo debutto “Trap street”, ottima coproduzione che ha coinvolto Cina, Francia e Svizzera. Un film mirabile, sobrio, asciutto, in grado di denunciare lo sfruttamento sessuale di ragazze fra i dodici e i sedici anni, la sottomissione loro e delle loro famiglie, da parte di potenti corrotti che non appaiono mai e che risultano così ancora più minacciosi e onnipotenti. La giovane protagonista Mia, che lavora in nero in un hotel, sola al mondo e priva di documenti, è testimone di abusi sessuali su due bambine da parte di un insegnante. Questo evento, insabbiato dalle autorità con la complicità dei parenti, sembra condurla inevitabilmente verso un destino già scritto di prostituzione, al quale d’istinto tenta di ribellarsi. Lo sguardo femminile della regista, estremamente sensibile allo sfregio dell’infanzia e dell’essere donna in un paese come la Cina, si avvale di una coerenza stilistica e di una bellezza funzionale delle immagini e della sceneggiatura tali che avrebbero senz’altro meritato un riconoscimento.
“Ammore e malavita”, il musical dei Manetti Bros, trasforma in farsa le vicende di camorra, alternando canti e balli a carneficine. Il risultato in generale è che gli spettatori si divertono: piangere non serve, tanto vale ridere (se riesci). L’importante è che non cambi mai nulla.
Ben scritto, girato benissimo e interpretato divinamente da Ellen Mirren e Donald Sutherland “The leisure seeker” di Paolo Virzì, road movie classico che prosegue idealmente “La pazza gioia”, soffre del vizio tipico del genere: essere film prevedibili nell’imprevedibilità delle vicende e delle persone che verranno incontro ai personaggi. Fin da “Easy rider” sappiamo che, nel percorso, qualcosa accadrà, e puntualmente accade: la forma narrativa dell’”Odissea” lascia pochi spazi di libertà e son rare le opere cinematografiche che riescono a superare questo limite. Ci vengono in mente “Punto zero” di Sarafian, “Nel corso del tempo” di Wenders, “Fratello, dove sei?” dei Coen. Non è il caso del film di Virzì.
Passando alla Sezione Orizzonti, il biopic “Nico, 1988” dell’italiana Susanna Nicchiarelli, premiato miglior film, racconta gli ultimi tre anni di vita e il viale del tramonto della cantante tedesca dei Velvet Undeground, che fra alcol e oppiacei (”Il metadone mi rende romantica”) consuma le sue ultime tournée in Europa, fra Anzio e Cracovia, Monaco e Londra. Ben girato e splendidamente interpretato, è un film che restituisce l’immagine dell’Europa un attimo prima della caduta del Muro, della fine del punk e, in fondo, della rock music e di una generazione di artisti.
Il Premio Orizzonti per la migliore regia è stato meritatamente assegnato all’iraniano Vahid Jalilvand per “No date, no signature”. Un film cupo e angosciante, intenso e coinvolgente, che trascina lo spettatore nel dramma del senso di colpa che travolge i protagonisti, attorno alla morte di un bambino. Un’opera sulle conseguenze dell’incapacità di assumersi le proprie responsabilità e di tacere quando sarebbe il momento di parlare, in uno scenario che evidenzia le differenze fra le classi sociali in un paese dove di fame ancora si muore. Navid Mohammadzadeh, co-protagonista, si è aggiudicato meritatamente il Premio per la Migliore Interpretazione Maschile.
Posso solo citare gli altri premi della Sezione Orizzonti: Miglior Regia “Caniba”, di Véréna Paravel e Lucien Castaing-Taylor; Migliore Interpretazione Femminile Lyna Khoudri in “Les bienheureux” di Sofia Djama; Miglior Sceneggiatura “Los versos del olvido” di Alireza Khatami; Miglior Cortometraggio “Gros chagrin” di Céline Devaux.
Voglio menzionare per concludere alcuni film visti di questa Sezione che speriamo escano in sala, poiché davvero notevoli.
“Marvin” di Anne Fontaine, regista dell’apprezzato “Agnus Dei”, “romanzo di formazione”, è la storia della ricerca a diventare se stesso del protagonista, seguito da quando è bambino sino all’età adulta. Un percorso che richiede riti di passaggio impegnativi e traumatici, collegati all’omosessualità, in una realtà socio-culturale particolarmente ostica. Il film a tratti risulta poco fluido e dispersivo, perdendo di intensità, ma è un’opera nel complesso molto interessante per le tematiche che propone sull’identità e il rapporto con le proprie origini.
“La testimonianza”, esordio di Amichai Greenberg, una co-produzione austriaca e israeliana, tratta questioni simili da un punto di vista diversissimo. Protagonista è Yoel, un ricercatore ebreo, le cui vicende vengono narrate su due registri: da un lato, l’impegno a ristabilire la verità riguardo un brutale massacro di ebrei, trovando la fossa comune in un terreno destinato alla costruzione; dall’altro, la crisi privata indotta dalla scoperta di un segreto familiare che mette in dubbio la sua Fede e la sua identità.
Per il regista, figlio e nipote di sopravvissuti dell’Olocausto, la materia affrontata è evidentemente incandescente, ma viene plasmata con un’indagine rigorosa, che a tratti commuove con la partecipazione di un anziano sopravvissuto che porta la propria testimonianza. Durante l’incontro con il pubblico, il regista ha detto che la sua ricerca ha l’obbiettivo di andare oltre il dolore dell’esperienza e poter scegliere la vita, come in effetti il suo film mostra con convinzione.
Anche “Invisible”, dell’argentino Paolo Giorgelli, è impregnato di temi forti, quali la gravidanza non desiderata, l’aborto come problematica sociale in un paese in cui è illegale, la depressione nelle diverse età della vita, la solitudine, ma è l’incapacità di farsi vedere, di esprimersi, di condividere, di farsi capire della giovane protagonista Ely che prende il sopravvento. Non è una scelta, non sa fare altrimenti, nessuno sguardo si è posato su di lei per farla sentire di essere qualcuno. Ely, con la sua gravidanza, avrebbe l’occasione di interrompere il transgenerazionale di una cecità mortifera, se il suo sguardo riuscirà a vedere il figlio che ha in grembo.
“The cousin” è un film che riesce a giocarsi tra dramma e commedia grazie ad un intelligente senso dell’umorismo. Prodotto, scritto, diretto e interpretato dall’israeliano Tzahi Grad, che recita nella parte del protagonista, Neftali, che assume il giovane Fahed, un manovale palestinese, per occuparsi della ristrutturazione del suo studio, quando, nelle vicinanze, una ragazza viene stuprata e i sospetti si rivolgono subito verso “l’arabo”. Temi come il conflitto israelo-palestinese, il razzismo, la paura atavica e la paranoia che si scatena nei confronti di tutto ciò che è altro, estraneo, e che riguarda da vicino tutti noi, vengono trattati con una leggerezza che non è mai superficialità e riesce, grazie all’ironia, a trasmettere un messaggio di pace senza cadere nella retorica.
“Krieg” del tedesco Rick Osterman, è un’altra opera, totalmente drammatica, dedicata alla guerra, una guerra lontana che diventa metafora dei conflitti che ognuno di noi vive dentro di sè e che richiederebbero di essere affrontati ed elaborati, piuttosto che agiti distruttivamente.
Passando alla Sezione Settimana della Critica, è stato premiato “Temporada de caza” dell’argentina Natalia Garagiola, un’edificante storia di rieducazione di un adolescente di Buenos Aires, rimasto orfano di madre, che torna dal padre guardiacaccia sulle Ande, con cui non aveva mai vissuto, che lo aiuta a superare il lutto e la rabbia, anche dell’antico abbandono da parte sua. A quest’uomo semplice e rude si contrappone e si integra la figura del patrigno, intellettuale di città. Forse una rappresentazione dell’adolescenza in parte stereotipata, ma che mi pare sottolinei con forza la necessità di una funzione paterna contenitiva e in grado di accogliere la sfida di questa età critica e così poco compresa.
In questa Sezione, da segnalare il film danese “Team Hurricane” di Annika Berg, interessante esperimento girato con stile innovativo e diverse tecniche che rivolge lo sguardo ad un gruppo di otto ragazze adolescenti mettendo in luce le loro identità, mescolando elementi di fiction e documentario.
Questo film è stato abbinato, nella proiezione, al cortometraggio “MalaMènti”, dell’attore, produttore e regista Francesco di Leva, girato interamente con un telefonino, con l’amichevole partecipazione di Sergio Rubini e Nicola Di Pinto. Direttore del teatro Nest a San Giovanni a Teduccio e reduce da vari successi cinematografici, televisivi e teatrali, come il “Sindaco del Rione Sanità” nella versione di Martone, l’artista propone, in tredici minuti che ricordano il film di animazione “Il valzer di Bashir”, una storia paradossale che ipotizza cosa accadrebbe se due feroci killer della camorra, uccisi tutti i loro avversari, non trovassero altri nemici. Di Leva porta avanti da anni con coerenza l’impegno di mostrare con tutti i mezzi a propria disposizione cos’è la malavita organizzata, per conoscerla e quindi prevenirla.
Il film di Jhonny Hendrix Hinestroza “Candelaria” ha vinto le Giornate degli Autori, sezione di cui ho visto solo “M”, della francese Sara Forestier, edificante storia d’amore fra un dislessico e una balbuziente al limite dell’afasia in uno scenario di marginalità e povertà, e mette in scena uno sfingeo, immobile, Jean-Pierre Léaud, meraviglioso relitto del ragazzino dei “400 colpi” di Truffaut.
Per il progetto Biennale College Cinema, che sostiene la realizzazione di idee originali che devono essere sviluppate con tempi e mezzi ben definiti, mi è parso interessante “Beautiful things” di Giorgio Ferrero, regista, fotografo e compositore. Film documentario in quattro atti, le cui storie asciutte, le immagini nitide, la colonna sonora martellante e rumorosa, anche silenziosamente alienante, dirige l’attenzione sull’impatto dell’uomo sulla natura e ci ricorda che ci stiamo seppellendo nell’immondizia e nel caos, benché si possa continuare a danzare in coppia in un centro commerciale. Si esce dalla sala storditi, incerti sul futuro, ma anche sollevati di essere usciti dalla discarica.
Fuori Concorso vorrei segnalare il film di Soldini, “Il colore nascosto delle cose”, con Valeria Golino e Adriano Giannini, già in sala, che, dopo il documentario del 2013 “Per i tuoi occhi” (già commentato su questo sito da Roberto Goisis), riprende il tema della cecità come un viaggio “multisensoriale”, sviluppando l’idea del Piccolo Principe di Saint-Exupéry: “Non si vede bene che col cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi”. Da ricordare sempre.
Coinvolgente il documentario “Piazza Vittorio”, di Abel Ferrara, il regista newyorkese che nel 2004 aveva presentato a Venezia il discusso “Pasolini” e che da tre anni vive a Roma, proprio vicino a questo storico luogo di passaggio e di incontro di persone, brulicante di attività. Ha dichiarato: “Il documentario è come un diario: parlo della mia vita, dei luoghi e delle persone che ne fanno parte”. Lo fa con l’ausilio di gente qualunque , dai romani ai migranti, e di artisti come Matteo Garrone e Willem Dafoe. Tutti in quella piazza ritrovano o cercano una storia, una identità, una vita, a dispetto della sporcizia, della povertà, della confusione, della paura.
Diretto e vero, questo film sull’umanità è preceduto dal mediometraggio “Il Signor Rotpeter” di Antonietta De Lillo, interpretato da Marina Confalone, tratto dal racconto “Una relazione per un’accademia” di Franz Kafka, lezione universitaria tenuta da una scimmia diventata uomo che ripercorre le fasi della sua metamorfosi. La visione di questo personaggio grottesco è perturbante e disturbante, poiché lo spettatore riconosce in lui tratti familiari ,poco accettabili nel loro essere bestiali.
“Loving Pablo” dello spagnolo Fernando Leòn de Aranoa, è l’ennesimo, superfluo film su Pablo Escobar, interpretato da Javier Bardem e dalla moglie Penelope Cruz, che veste i panni di Virginia Vallejo, celebre anchorwoman colombiana che fu la sua amante. Tratto dal libro di memorie di quest’ultima, per chi ha dimestichezza della notevole serie televisiva “Narcos” e delle varie altre, e ha visto il film con Benicio del Toro di Andrea di Stefano, questo appare una specie di Bignami edulcorato. Al povero Bardem che ha dichiarato di non avere guardato le succcitate serie (grande errore!) già protagonista di “Mother”, questa interpretazione, in un film girato disgraziatamente in inglese, non fa onore né rende la complessità del personaggio. Molto elegante, sul tappeto rosso e nel film, la griffatissima Cruz.
Il film di chiusura è stato “Outrage coda” di Takeshi Kitano, storia del finale furioso (”coda” va intesa nella accezione musicale) di una carriera criminale. “Beat” Takeshi ritorna ancora una volta al genere del gangster movie con stile asciutto e improvvise accelerazioni della narrazione segnate da sparatorie violentissime.
Quello che il film rivela è il ruolo centrale, ma sempre in tensione, della gerarchia nella cultura giapponese. Più che il denaro, più che il controllo degli affari criminale, contano i ruoli di presidente, vice presidente, vice vice presidente, all’interno della cosca yakuza, dove un presidente che viene dall’alta finanza e non ha tatuaggi è sempre meno tollerato. In tale contesto il nostro gangster in pensione, interpretato come di solito dal regista, agisce come uno spietato Arlecchino facendo naufragare programmi e ruoli.
Questa edizione della Mostra ha confermato una tendenza già visibilmente in atto, ovvero che il cinema vero, non bello o brutto, che piace o non piace, ma autentico, di spessore e di originalità di idee, si produce soprattutto ad est di Istanbul e in Oriente. Sono opere che forse non usciranno mai nelle sale italiane, o ci faranno un passaggio fugace, ma si confermano le depositarie del buon cinema del futuro, interessanti anche per lo sviluppo di riflessioni su tematiche di interesse psicoanalitico e psicologico.
Settembre 2017