“13 Reasons Why”, Prima Stagione
Creata da Brian Yorkey, 2017
Genere: drammatico
Netflix, July Moon Productions.
“13 Reason Why” , la serie TV su le ragioni e il disagio dell’adolescenza: materiale infiammabile, maneggiare con cautela!
di Elisabetta Marchiori e Angelo Moroni
“Spero che questa serie accenda molti dibattiti e aiuti le persone a capire che le più piccole cose che si fanno o si dicono a qualcuno possono cambiare molto, in meglio o in peggio”
(Dylan Minette)
Trailer:
“13 Reasons Why”, la serie televisiva di Netflix creata da Brian Yorkey, tratta dall’omonimo romanzo del 2007 di Jay Asher, è diventata un cult tra i teenagers, grazie a un forsennato passaparola, e ha provocato “un’onda anomala di consensi e polemiche” (tv.fanpage.it).
La produttrice, la cantante Serena Gomez, mentre già è in cantiere la Seconda Stagione, ha dichiarato che non si sarebbe aspettata “tutto questo scalpore. È stato incredibile e complicato e sono successe una valanga di cose”.
Il fatto è che la serie stessa è una vera e propria “valanga” d’impatto emotivo fortissimo, tanto che Netflix, sotto pressione di enti di sorveglianza, associazioni di genitori e di operatori della salute mentale e di vari Paesi del mondo ha imposto, all’inizio di alcuni episodi, “avvertimenti” riguardo la visione dei contenuti e proposto “istruzioni per l’uso”.
Costruito come un thriller, questo “teen drama” è la storia della sedicenne Hannah Baker (Kateherine Langford) e delle ragioni che l’hanno portata a porre fine alla propria vita, registrate in tredici audiocassette, ciascuna destinata a una persona da lei ritenuta in qualche modo responsabile del suo gesto. Lo spettatore le ascolta con Clay Jensen (Dylan Minette), il ragazzo innamorato di Hannah e, quasi condividesse le cuffiette del suo walkman, viene trascinato con lui nelle vicissitudini emotive profonde, complesse e ambigue che, nello svolgersi degli eventi, travolgono Hannah, i suoi coetanei e gli adulti che stanno intorno a loro.
È un materiale scottante, che costringe a “non voltare lo sguardo” e richiama gli adulti a passare del tempo con i propri ragazzi davanti a uno schermo, per guardare insieme e usare “13 Reason Why” come un mezzo, uno strumento attraverso cui affrontare e discutere questioni che mai come in questi tempi d’inquietudine e di fenomeni come “Blue Whale” si sono fatte tanto pressanti: la depressione e il suicidio nell’adolescenza, con i loro aspetti di emulazione e di sfida “fino all’ultimo respiro”, le varie forme di bullismo (il cyberbullismo in primis), la violenza sessuale e l’incomunicabilità tra generazioni, la perdita della capacità di “giocare”.
Autori, produttori, attori e esperti professionisti (psicologi e psichiatri) durante i ventinove minuti intitolati “Beyond the Reasons (oltre i perché)”, il “contenuto speciale” successivo all’ultima puntata, discutono i temi trattati dalla serie, spiegano le motivazioni delle scelte di copione, di regia e di recitazione, condividono esperienze personali. Ci portano inoltre a conoscenza dell’esistenza del sito “Need help now?” www.13reasonwhy.it, che invita i ragazzi a chiedere aiuto quando ne sentono il bisogno e fornisce le necessarie indicazioni per averlo.
Lo scrittore Jay Asher ribadisce quanto sia “pericoloso” il silenzio, “perché c’è sempre speranza” e il suicidio non dovrebbe mai presentarsi come una possibilità di scelta. Eppure è statisticamente la seconda causa di morte negli adolescenti.
Come adulti che son stati adolescenti, e adolescenti che si preparano a diventare adulti, possiamo rifletterci e identificarci nelle contraddittorie dinamiche che animano il mondo esterno e interno dei protagonisti e le loro modalità adolescenziali di “essere nel mondo”. Yorkey è riuscito a mettere insieme un cast capace di rappresentare in modo efficace e convincente le movenze relazionali e le caratteristiche di personalità, solo a tratti stereotipate, di un campione rappresentativo di adolescenti di oggi, in “un’onesta rappresentazione della loro esperienza”.
Pulsionalità, aggressività, trasgressione, violenza, dipendenze, perversioni, fragilità: questo ampio spettro emotivo e le sue sfumature appaiono sullo schermo, episodio dopo episodio, in tutta la loro seducente e insieme dolorosa epifania.
Questo materiale vivente è ben lavorato dalla regia, soprattutto nella costruzione del rapporto tra Hannah Baker e i suoi compagni di scuola, in particolare Clay, rappresentante di quella freschezza e primitività tra l’infantile e l’adulto, che ci tocca empaticamente da vicino come genitori, educatori, terapeuti.
Avere a che fare, a vario titolo, con adolescenti e preadolescenti implica necessariamente tollerarne l’assoluta, incontrovertibile ambiguità, sia che si tratti di adolescenti “normali”, vitali e creativi, sia che si tratti di traumatizzati, tossicomanici, depressi, autolesionisti, antisociali.
Possiamo immaginare tale ambiguità come una sorta di luminosità rifrattiva perennemente cangiante, che descrive a trecentosessanta gradi, anche nell’arco di pochi minuti, una gamma di emozioni che virano velocemente da un estremo all’altro, dalla gioia più travolgente all’umore più nero, in una continua oscillazione dall’individuale al gruppale.
In adolescenza, è al gruppo che è affidato il senso di continuità e coerenza di sé: so chi sono perché mi rifletto negli altri e mi riconosco attraverso gli altri. Esso rispecchia, rifrange, amplifica il fascio d’onda individuale, spesso deformandolo, nascondendolo, rendendolo ancora più inafferrabile, grazie anche ai social network.In questo gioco di luci e ombre, di rispecchiamenti e riflessi anche deformanti, Hannah non è la sola a confondersi e perdersi. Perché non è tanto importante quello che accade, ma come lo si vive, e questo è un nodo focale per comprendere le “ragioni dell’adolescenza” molto ben evidenziato nella storia. Il cervello dell’adolescente non è come quello adulto, il lobo frontale non si è ancora completamente sviluppato: l’adolescente agisce d’impulso, non sa prevedere le conseguenze delle sue azioni, ed è convinto che quello che è ora sarà per sempre.
Così Hannah arriva al suicidio e all’uccisione metaforica del gruppo (e dei suoi aspetti specificamente fallico-maschili), facendo vivere ai coetanei un senso di colpa difficilmente elaborabile, in una sorta di “muoia Sansone e tutti i Filistei”, di fatto agito come una vendetta.
Yorkey descrive il gruppo dei ragazzi in termini “meltzeriani”, tenuto insieme da una sorta di “magnetismo animale” di natura fallica che si evolve lentamente e inesorabilmente, portando il gruppo a diventare un “branco”, che agisce in una dimensione onnipotente, con meccanismi proiettivi primitivi e modalità violente, come difesa dal limite, dalla consapevolezza, dall’assunzione di responsabilità e dal dolore che la crescita impone.
Si tratta di un magnetismo non “alfabetizzato” nè mentalizzato, né tantomeno accolto da adulti significativi, che dovrebbero farsene carico, agendo una funzione di “lobo frontale” vicario. Un “magnetismo” pulsionale che spinge l’adolescente a vivere a tutti i costi una fantasia di eccitazione ed erotizzazione delle relazioni anche a costo di perdere il senso di sé, per esempio attraverso l’uso di sostanze stupefacenti. Si tratta di quella dimensione mentale costantemente sessualizzata che Meltzer (1993), nel descrivere il funzionamento psichico dell’adolescente, definisce come “vita nel claustrum genitale”.
I genitori, in “13 Reason Why”, appaiono inconsapevoli, assenti, disinteressati, se non addirittura abusanti; gli insegnanti sono inconsistenti e preoccupati di mantenere il buon nome della scuola piuttosto di prendersi cura dei ragazzi; la figura di Porter, lo psicologo scolastico, si staglia ad esempio di adulto di riferimento assolutamente inadeguato e inaffidabile.
È proprio questa carenza di “funzioni genitoriali”, sembra volerci dire Yorker, a far sì che il “magnetismo animale” che attraversa il gruppo dei ragazzi, arrivi a travolgere e distruggere, invece che a promuovere il processo di crescita.
Ragazzi lasciati nella loro solitudine, senza alcun modello significativo cui identificarsi, e con cui anche scontrarsi e disidentificarsi, creativamente. Come scrive Ogden (2017) è centrale nella costruzione della mente di un individuo “l’dea che pensare/sognare la propria esperienza vissuta nel mondo costituisca uno degli strumenti principali, forse lo strumento principale, attraverso cui si apprende dall’esperienza e si conquista la crescita psicologica. Inoltre, l’esperienza vissuta di qualcuno spesso è tanto disturbante da superare la capacità dell’individuo di fare qualcosa psichicamente, ovvero di pensarla o sognarla. In queste circostanze ci vogliono due persone per pensare o sognare l’esperienza”.
L’adolescenza è certamente un’esperienza emotiva complessa e non confortevole, talvolta disturbante, durante la quale la mente del soggetto maggiormente necessita di non essere lasciata sola, la dimensione relazionale è fondamentale per la sua evoluzione.
“13 Reason Why” fa “arrivare” in tredici episodi l’essenza di quello che è stato scritto in quintali di pagine di letteratura più o meno scientifica, in modo sintetico, diretto, senza retorica. Si tratta di materiale che abbiamo definito vivente, scottante, ma che è anche grezzo, compresso, “zippato”, tutto da “decomprimere”, “estrarre”, pensare, verbalizzare, elaborare. In una parola, infiammabile: da maneggiare con cautela, pazienza e tatto.
È questo forse che spiazza gli adulti, sempre preoccupati che sia “troppo presto” per parlare di “certi argomenti”, quando è già “troppo tardi”, ma non sanno come farlo, e vorrebbero evitare la fatica.
Ecco un modo, che ha un prezzo, ma lo vale: vedere insieme la serie, per capire – e va bene a qualsiasi età – che non si può essere perfetti, che si possono trovare le parole per dire, cogliere i “segnali” di disagio, non avere paura: l’omertà e i patti del silenzio possono diventare ostacoli invalicabili e far credere che non esista via d’uscita.
Come dice un Brandon Flynn, l’attore che impersona uno dei “bad boys”: “Immagino sia giusto sedersi con la propria mamma e dire ‘ho tutti questi problemi’, e tutto sta succedendo troppo in fretta, sono troppo giovane e non riesco a reggere”, ma nessuno ha questa consapevolezza”!.
Ed è proprio così: se utilizziamo una metafora marina, l’adolescente è come un pesce che nuota in acque sabbiose dalle quali emerge quando vuole (se lo vuole) e nelle quali poi si inabissa nascondendosi in luoghi (mentali e fisici) dove nessuno riuscirà mai a trovarlo.
Occorre conoscere e rispettare tale modo di essere per poter incontrare l’adolescente là dove si nasconde, perché ha bisogno di essere cercato, e trovato.
Come scrive Winnicott (1971): “Dove vi è una sfida del ragazzo o della ragazza che cresce, vi sia un adulto a raccogliere la sfida. E non sarà necessariamente una cosa gradevole”.
Testi di riferimento
Andreoli A., Borgia E., Giaconia G. (1995), Le ragioni dell’adolescenza. Il disagio giovanile tra neuropsichiatria infantile e psichiatria. Guerini, Milano.
Goisis P.R. (2014), Costruire l’adolescenza. Tra immedesimazione e bisogni. Mimesis, Milano.
Meltzer D. (1993), Claustrum. Uno studio dei fenomeni claustrofobici, Raffaello Cortina, Milano.
Moroni A. (2011), Giovani a disagio. Psicopatologia dell’individuo e del gruppo nell’adolescente di oggi. Foschi, Forlì.
Moroni, A. (2016), Il Perturbante come organizzatore narrativo del Sé nel passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Gli Argonauti, 150, 2016.
Pellizzari, G. (2009), La seconda nascita. Fenomenologia dell’adolescenza. Franco Angeli, Milano.
Ogden, T.H. (2017), Vite non vissute. Esperienze in psicoanalisi, Raffaello Cortina, Milano. Winnicott D.W. (1971), Gioco e realtà, Armando, Roma.
Link su Spiweb
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