BEATI GLI INQUIETI
di Stefano Redaelli
(Neo Ed., 2021)
Recensione a cura di Daniela Federici
E quante cose mi parevano vere!
E credevo a tutte quelle che mi dicevano gli altri,
ed ero beato! Perché guaj, (…)
se vi affondaste come me a considerare questa cosa orribile,
che fa veramente impazzire: che se siete accanto a un altro,
e gli guardate gli occhi, potete figurarvi come un mendico
davanti a una porta in cui non potrà mai entrare: chi vi entra,
non sarete mai voi, col vostro mondo dentro,
come lo vedete e lo toccate; ma uno ignoto a voi,
come quell’altro nel suo mondo impenetrabile
vi vede e vi tocca…
Pirandello Enrico IV
“Da anni conducevo ricerche sulla follia. Avevo letto migliaia di pagine di romanzi, saggi, articoli, ma studiarla non mi bastava più: volevo vederla da vicino, sentirla, parlarci. Avevo domande che non mi davano pace, alle quali nei libri non avrei trovato risposte”.
Così Antonio, uno studioso che per scrivere il suo libro vuole acquisire un’esperienza da dentro, chiede di soggiornare nella struttura psichiatrica “La casa delle farfalle”, concordando con la direttrice di vivere fra i ricoverati rispettando le regole comuni, fingendosi paziente e assumendo finti farmaci.
Nell’attonito quotidiano scandito dal fumo, dalle medicine e dai pasti, il protagonista trova misura di un lento approssimarsi che compone piano fiducia e familiarità, in un tempo che si fa sospeso.
“Il tempo passa se aspetti qualcosa: scorre se c’è una forza che spinge, un vettore, un fine. Altrimenti si accumula, ingravida, partorisce pensieri strani…”
La curiosità di Antonio è un’attitudine all’ascolto che è gestazione di immagini e parole, che lo porta a entrare più nel profondo dentro di sé, a risuonare e riemergere con abbozzi di trama dal caos.
Il genio paranoico di Angelo, l’inventore che sa come realizzare l’impossibile; la psicoastenia di Simone che ha negli occhi un interrogativo incessante e un’attesa svuotata di risposta; la spossatezza senza riconoscimento di Carlo, che sa come coltivare la terra e prova a insegnargli: “Il deserto è edificabile, si può costruire sul deserto, ci vuole acqua, molta acqua, deve piovere per anni”.
Il latino desertus è participio passato di deserere: lasciare in abbandono. Serere è connettere, annodare, il de privativo indica l’essere privo di un punto di connessione, disunito, staccato; l’etimo è lo stesso di disertare, il cui significato originario era: guastare per ampio tratto, devastare, spopolare, ridurre in deserto.
Follia e deserto hanno in comune l’abbandono, la sconnessione, lo spopolamento, pensa Antonio, sabbia senza una goccia d’acqua o ghiaccio, il vento che spazza e plasma l’invivibile.
Non è forse un deserto anche quel luogo dove nessuno riceve più visite, dove ogni gesto d’affetto è una promessa impossibile da mantenere? Con le sue distese di vuoto, dove i gesti, separati dal desiderio e dal senso, diventano assurdi, uno spazio aperto eppure ancora separato, isole in cui la follia è incubata.
“Nelle culture antiche incubazione voleva dire dormire in un tempio per avere i responsi del dio. Gli incubi erano geni, custodi di tesori nascosti nelle viscere della terra. Portavano un piccolo cappello, se riuscivi a rubarglielo dovevano svelarti il luogo dove il tesoro era nascosto. Io glielo ruberò. Questa casa è un’incubatrice, un tempio. Devo sognare più forte, mettermi in ascolto degli dèi.”
“Ogni voce qui dentro è una storia…”
“Esisto quando mi ascolti, quando scrivi”, gli dice Marta, creatura dal profumo di fiori, che attende di sbocciare, con i suoi piccoli nei con cui ridisegnare storie acuminate sulla pelle.
Cecilia, che ogni tanto è Tom, con le sue poesie e i suoi trucchi, maschere per ogni gesto.
Antonio accoglie in sé quelle forme enigmatiche di esperienza umana, ne custodisce le invenzioni, l’ingovernabile delle voci, il dolore buio, le tempeste e il furore, i discorsi muti.
A volte scrive per farli tacere, quando i marosi travolgono: la scrittura aiuta a fare silenzio.
“Cos’è per lei, un’avventura o la realtà?” gli chiede Angelo.
Sprazzi di desideri, nostalgie di piaceri, illusioni e rimpianti, Antonio appunta ogni cosa, le parole stipate senza punteggiatura, le lettere mai scritte, le epifanie di poesia nel tumulto. Cose che non sono mai uscite da quelle mura, cose nascoste, inaudite.
“Non voglio si perda neppure un frammento del loro discorso esploso, taciuto, bisbigliato…”
I matti sono di vetro e sono feriti, ci fa male guardarli, ma sono anche quelli che leggono l’anima, che ci spogliano, che all’improvviso dicono cose che parlano di noi.
Stefano Redaelli, professore di letteratura che si interessa da anni del rapporto fra scienza, follia, spiritualità e letteratura, ha vissuto una lunga esperienza di ascolto del disagio mentale che, fatta sedimentare e ritradotta in un romanzo, ha creato un’efficace voce narrante nel personaggio di Antonio, cassa armonica della polifonia di voci degli inquieti della casa delle farfalle.
La letteratura ha lo scopo fondamentale di offrirsi come rappresentazione al pensabile, ed è merito particolare quello di trattare con delicata umanità un tema difficile come quello della malattia mentale. L’autore lo fa con il garbo di chi sa come sfocare i confini delle categorie rassicuranti fra sanità e disagio e come dare corpo all’astratto della follia tracciandone personaggi credibili della sua sofferenza, poesia, ironia. Figure di quell’altra realtà, come la definiva Tobino, in cui le emozioni sono più schiette e intense, una follia intesa non solo come buio della ragione, ma come epifanie di dimensioni profonde e nascoste della personalità.
Non una sacralizzazione né un’apologia – la malattia mentale ha bisogno di essere riconosciuta per essere curata -, ma l’invito ad avere consapevolezza di visioni diverse dalla razionalità, da ciò che ci appare noto e ordinato, un richiamo al prenderci cura degli spazi liminari e vulnerabili della nostra umanità. Così il disagio mentale diventa esercizio d’alterità e la follia metafora e svelamento delle storture e delle ombre dei sani. Perché se qualcuno può pensarsi altro dalla pazzia, l’inquietudine non ha immuni. Tutti possiamo conoscere la frattura di una vita felice, la perdita di quanto amavamo, la nudità della sventura, gli insulti del vivere. Il lamento di Giobbe, è una comunità di destino dell’umano quell’iperbole di precipitare nel deserto.
Come la lettura delle onde di Palomar, lo scrittore ci immerge nella coesistenza irriducibile e riverberante fra la beatitudine illusoria e momentanea di sentirci compiuti e bastanti e l’inquietudine che ci spinge altrove, ad andarci a cercare per meglio comprenderci, a rischio di esporre a dissesto le nostre sicurezze. L’inquietudine è un risuonare di domande, dove la mancanza e perfino la disperazione custodiscono la ricerca di una più autentica pienezza, perché l’abilità del tragico è nella capacità di toccare una potenzialità inespressa.
Per tutta la vita ci troviamo ad avere a che fare con questa antinomia: da una parte il baricentro dell’Io, i propri interessi, l’autoreferenzialità, e dall’altra questo essere sbilanciati e anelanti. È il desiderio, alle origini della nostra vita psichica e il motore della nostra esistenza, quel che ci sospinge fuori dal nostro centro, l’estroversione della nostra soggettività (Thanopulos, Il desiderio che ama il lutto, Quodlibet 2016).
Una società che trova il senso e mantiene dignità per ogni sua espressione, ha modo di convivere senza recludere o esiliare. Così in ciascuno di noi, il disagio chiede di essere accolto e non negato.
La moglie di Lot, dice Antonio alla psichiatra, è diventata di sale perché è stata da sola a guardare, se qualcuno si fosse girato con lei o le avesse tenuto la mano, le sventure della vita non l’avrebbero pietrificata.
Antonio ha accolto e imparato dagli inquieti.
Ha imparato da Carlo a dissodare e preparare la terra alla semina, che “la stessa cura richiede la scrittura. Le parole devono attecchire; una storia va nutrita, tutti i giorni, bisogna chinarsi, sudarci sopra.”
Ha imparato da ognuno le molte forme soggettive del deserto, quando nel laboratorio di lettura ha proposto Il Piccolo principe, perché anche lui, dopo un incidente, era precipitato nel deserto: “È squallido è un luogo di sete”, “Nel mio deserto ci sono oasi di immaginazione”, “Fa troppo caldo, non si resiste”, “Si vede il cielo come in nessun altro posto”, “Il deserto è squallido perché l’uomo conosce se stesso, conosce Dio e poi muore”.
“Ma il pilota non muore perché sa disegnare”, risponde loro Antonio.
Dare rappresentazione ci salva.
“Ho discostato una porta e quel che ho visto ha suscitato nuove domande”, pensa il protagonista, riflettendo su questo altrove anche di sé che ha trovato alla casa delle farfalle.
Antonio lavorava da anni sulla formula dell’infelicità, osservata studiando soggetti con una percezione tragica dell’esistenza, come i figli dei depressi: la sventura li adombra fin dalla nascita, è come vivere sul bordo di un precipizio e l’immagine dell’abisso diventa il prisma attraverso il quale guardano ogni avvenimento della propria vita. Il corollario principale del teorema è legare ogni sventura a un rapporto di causalità – di cui si cercherà ragione in una colpa, un difetto, un destino avverso – finendo con l’attenderla come ineluttabile. Così ci si troverà paradossalmente sollevati all’apparire del male e sospettosi in sua assenza, e ancor più in caso di fortune.
La paura del crollo, direbbe Winnicott, che in realtà è già avvenuto senza poter essere pensato.
Si può guarire di qualcosa che non ci lascia mai?
È Angelo a insegnargli come rovesciare la formula: non più presente e passato a determinare il futuro ma l’opposto: è il futuro che determina il passato, riscrivendolo di un senso altro, fine
dell’irreversibilità, dell’entropia, il determinismo è biunivoco.
C’è un potere salvifico nelle parole.
“La pazienza di essere ingoiati e risorgere”, dice Simone.
Antonio lo ha imparato stando fra gli inquieti.
“Scrivendo rimetto insieme i pezzi. Non è una cura, è un movimento. Tra malattia e beatitudine. Per scoprire chi sono. Dirmi.”
“Proust pensava che i suoi lettori non leggessero i suoi libri, ma se stessi: il libro era solo una lente d’ingrandimento attraverso la quale si sarebbero letti. Se la letteratura è una lente d’ingrandimento, la follia è più potente. È lente e specchio. Non pensate che l’immagine sia deformata. Ci mostra come siamo fatti negli strati più profondi dell’anima, quelli nascosti.”