Ci
siamo incontrati la prima volta per la presentazione del volume “Psicoanalisi e
cultura italiana” di Michel David, che allora era lettore di francese a Padova.
Da allora ho seguito i suoi interventi in Facoltà di Lettere, nel Circolo
Filologico di Gianfranco Folena, dove erano invitati grandi personaggi come
Starobinski e Franco Fortini ed erano sempre presenti, allora giovani, Alberto
Limentani filologo romanzo ed Enzo Mengaldo esperto di letteratura italiana
contemporanea. Zanzotto era la stella più splendente di intelligenza, capacità
di combinare immagini ed eventi, sempre vivo di creatività poetica. Quel che
pensava e ci diceva a commento di libri o di fatti politici e di scoperte
scientifiche per lui erano pensieri usuali, per noi folgorazioni. Aveva il
sorriso del saggio, l’amabilità di un buon nonno, la cultura vastissima del lettore
intelligente e la curiosità del genio. Era inoltre determinato e combattivo, quando
occorreva. Zanzotto ha seguito il pensiero di Freud, Lacan e Jung senza mai
travisarlo. La sua capacità di penetrazione dei processi psichici era stupefacente.
Già cinquant’anni fa era soprannominato “Stae mal”, che era la sua usuale
risposta alla domanda “Come stai?”. Ma era ben consapevole che il suo era un
malessere psicoaffettivo e lo diceva, anche a me, sorridendo perché prevedeva
che sarei stato tentato di giocare il ruolo dello psicoterapeuta, ma del
terapeuta che non potrà avere successo.
Certo
per lui era più importante l’emozione del paesaggio e delle sue modificazioni e
ferite. Quando parlava dei papaveri o dei topinambur, delle Crode del Pedré,
delle colline di Rolle, del Montello o dell’Isola dei Morti, si animava in una
descrizione delle corrispondenze poetiche tra il mondo esterno e il mondo
interno di cui ha saputo tracciare mappe precise come fa la Brain Imaging conl’uso
della Risonanza Magnetica Funzionale. o Nucleare.
Ci
siamo visti spesso a Padova, nel corso di decenni. La prima volta che andai a
trovarlo, trentacinque anni fa al suo paese, Pieve di Soligo, sopra Conegliano,
sapevo l’indirizzo, ma non trovavo la strada. Chiesi attraverso il finestrino
dell’auto a una signora del luogo che non conosceva la via, ma quando dissi
solo “Andrea” si illuminò e mi spiegò: “El sta in via Zanzoto”, con una sola
‘t’, e mi diede tutte le necessarie indicazioni.
Consiglio
a chiunque la lettura di “Mistieroi” e del “Filò”, scritto su commissione di
Fellini per il Casanova. Sono opere in dialetto, ma le note aiutano. Chi
volesse approfondire la conoscenza dell’autore può leggere “Dietro il
paesaggio”, “La Beltà”,
“Idioma”, “Meteo” e “Conglomerati”. Il Meridiano di Mondadori raccoglie l’opera
in versi e varie prose. Ci sono due volumi di scritti di critica letteraria
“Fantasie di avvicinamento”, “Aure e disincanti”. Titoli che appunto incantano.
Molto piacevole è il “Ritratto” girato da Carlo Mazzacurati e condotto da Marco
Paolini.
Il
suo cognome viene dal soprannome Giovanni (Zani) lo Zoppo (sòto), come Giovanni
Cane è Zancan, Giovanni Bello Zambello, e così Zangrando, Zanforlin e via
discorrendo. Chissà, forse ha messo la sua firma, come Bach nell’Arte della
Fuga mette in note il suo cognome, alla fine dei Mistierói, quando scrive, nel
prologo: “chi ère lo, po’, che passéa, che batéa su quel viero, e sparia no so
se zhotegando o se ‘nte ‘n bal”. Traduco: “chi era mai che passava che batteva/
su quel vetro, e spariva/ non so se zoppicando oppur danzando”.
Negli
ultimi anni, dopo una frattura del femore, gli toccò zoppicare davvero e subire
cure di riabilitazione che gli suggerirono il titolo di un’ intervista: “Eterna
riabilitazione da un trauma di cui s’ignora la natura”. Potevamo dargli le
funzioni di training. Io gli avrei voluto bene comunque.
Omaggio della Redazione ad Andrea
Zanzotto
Pieve di Soligo, 10 ottobre
1921-Conegliano, 18 ottobre 2011
Perché siamo
Perché
siamo al di qua delle Alpi
su questa piccola balza
perché siamo cresciuti tra l’erba di novembre
ci scalda il sole sulla porta
mamma e figlio sulla porta
noi con gli occhi che il gelo ha consacrati
a vedere tanta luce ed erba
Nelle
mattina, se è vero
Di tre montagne trasparenti
mi risveglia la neve;
nelle mattine c’è l’orto
che sta in una mano
e non produce che conchiglie,
c’è la cantina delle formiche
c’è il radicchio, diletta risorsa
profusa alle mie dita
a un vento che non osa disturbarci
Ha
sapore di brina
la mela che mi diverte,
nel granaio s’adagia un raggio amico
ed il vecchio giornale di polvere pura;
e tutto il silenzio di musco
che noi perdiamo nelle valli
rende lento lo stesso cammino
lo stesso attutirsi del sole
che si coglie a guardarci
che ci coglie su tutte le porte
O
mamma, piccolo è il tuo tempo,
tu mi vi porti perch’io mi consoli
e là v’è l’erba di novembre,
là v’è la franca salute dell’acqua,
sani come acqua vi siamo noi;
senza azzurra sostanza
vi degradano tutte le sieste
cui mi confondo e che sempre più vanno
comunicando con la notte
Né
attingere al pozzo né alle alpi
né ricordare come tu non ricordi:
ma il sol che splende come cosa nostra,
ma sete e fame all’ora giusta
e tu mamma che tutto
sai di me, che tutto hai tra le mani
Con
la scorta di te e dell’erba
e di quella lampada precaria
di cui distinguo la fine,
sogno talvolta del mondo e guardo
dall’alto l’inverno del nord.
(Tratta
dalla raccolta “Dietro il paesaggio” 1940-1948)