Amore Assoluto e altri futili esercizi
di Giulia Serughetti (Marcos y Marcos Edizioni, 2022)
Recensione di Marilena Fatigante e Alessandro Grignolio
Parole chiave: #amore, #trauma,#spiritualità
Sospeso
tra quiete e movimento
la voglia poliforme di cambiare:
il ridere di me, mi pare,
sia l’unica poesia.
Sospeso (A. Rossi, 2011)
Esistono libri che, sebbene esplicitamente autobiografici, non hanno interesse a “raccontare una storia”, o quella che raccontano in maniera quasi indifferente è una sequela di episodi ordinari, canonici, per definizione poco idonei ad essere narrati (Bruner, 1992). Libri che però, mentre mettono in ordine sparso e apparentemente casuale memorie e bozzetti di vita comune, disegnano un modo del tutto straordinario di osservare quegli stessi eventi e guidano la lettrice o lettore in un’esplorazione avventurosissima, appassionante e profonda dei pensieri, affetti e riflessioni che si svolgono all’interno di quella camera vigile dove è a lavoro la mente, e il cuore, dell’autrice.
Nei trentaquattro rapidissimi, straordinariamente ironici e lucidi capitoli del suo libro, Giulia Serughetti strattona i suoi lettori all’interno di questa camera, nei vicoli o “labirinti”, come lei stessa li definisce, entro cui la mente si infila, si perde, si frammenta fino a perdere il contatto con la realtà (e con se stessi), e con la stessa rapidità con cui li ha fatti entrare li disloca istantaneamente in un luogo che prima non era neanche immaginabile, una delle – molteplici, nel corso del libro – sedi di auto-rivelazione dove di colpo la ripetizione del pensiero, come quella del trauma, si arresta e trova finalmente soluzione, il suo smacco. Una soluzione (e smacco) mai definitivi, ma che creativamente aprono all’esperienza, reale, di sé, e dunque alla fiducia di poter esistere, e poter esistere più prossimi possibili – parafrasando Winnicott – al “Vero Sé”.
Tra le righe di un umorismo che spossessa e che – più o meno consciamente – permette al lettore di prendere fiato e liberare nel riso (Freud, 1905) la tensione di avvicinarsi a verità scomode riguardo ai sentimenti, all’amore, all’identità, il libro di Giulia Serughetti può leggersi come un diario di battaglie con cui la protagonista si misura giorno per giorno: una, per ciascuna delle difese o maschere che ha sviluppato nel tentativo di far fronte a quel dolore originario e senza nome (Winnicott, 1963) che è effetto di un fallimento precoce della fiducia nell’esistere, laddove non si è esistiti nella mente e nel cuore di qualcuno che, in origine, poteva assicurarci un senso di unità e coerenza delle esperienze (Bion, 1970; Green, 1979; Kahn, 1963; Bollas, 1989).
Ma raccontare del trauma o dei traumi cumulativi (Kahn, 1963) che la riguardano non interessa all’autrice. La lettrice di “Amore assoluto e altri futili esercizi” non viene trattenuta o sedotta a identificarsi con le emozioni sofferte, passate, della protagonista bambina o quelle attuali di lei adulta, cosa che altri testi di autori, e autrici, contemporanee che raccontino della barbarie emotiva in cui sono cresciute, non riescono ad evitare.
Piuttosto, e senza compiacimenti, Giulia Serughetti dipinge gli esiti sciagurati e distruttivi anche quando divertenti, del ripetersi, nel presente, delle macchinazioni difensive per tenere l’amore – ordinariamente concepito come “amore per” qualcun altro – ad una “distanza di sicurezza”:
“Io lo so che so amare ma non posso più perché prima di morire mi fottono il cervello e mi spaccano il cuore. Le persone che restano nella mia vita sono dei testardi pazzi, io faccio di tutto per mandarli via o faccio la bambola, e loro comunque non se ne vanno. E se da una parte ho la coscienza a posto perché ho fatto del mio meglio per eliminarli, dall’altra li detesto perché mi costringono a provare dei sentimenti, un legame che non voglio, il senso di colpa per cui se sono gentili devo esserlo anch’io.”
Più generosamente di chi racconta quanto ha sofferto, l’autrice ci presenta il coraggioso e tenace confronto con “esercizi” quotidiani, in cui lei si cimenta, letteralmente “anima e corpo”. Nel corso di questi esercizi, apprendiamo verità inconfutabili:
“la maggior parte delle volte non è la nostra vera identità a parlare, a interagire, a guidare le nostre azioni”.
Sempre senza intenzione di insegnare alcunché e senza indulgenza, mentre racconta del convulso cercare lei stessa affetti su cui scaricare le proprie rivendicazioni, l’autrice/protagonista svela il perpetrarsi di quel circolo vizioso dell’amore-compromesso, quello cui si chiede invariabilmente di risarcire la propria ferita, quello che sempre si sottopone ad una condizione:
“Ti amo perché sei bella, ti amo se mi fai sentire così, se dici così, se ti comporti così, ti amo finché non ti amo più. È un amore che si logora da solo.”
E l’esilio, l’abbandono (tanto cercato quanto voluto) che condanna chi si sottrae a questo dispositivo:
“Di solito la conversazione inespressa va così. Mi prendo cura di te. Ok. Adesso prenditi cura di me. Perché? Perché funziona così. Chi l’ha detto? Lo dicono tutti. Tutti chi? Non lo so. Io non ti ho chiesto di prenderti cura di me. Ma io l’ho fatto lo stesso. Peggio per te.”
Testimone di una interpretazione alternativa all’assoggettamento strumentale del legame con l’altro è il nonno, che ha fatto “un patto d’amore e di cura” con lei alla sua nascita.
Le parole che lo descrivono non lo raccontano; piuttosto, lo “evocano” a livello sensoriale: la sua presenza è accostata al contatto con la sabbia, con l’acqua ondosa del mare, alla memoria del gelo dell’acqua di doccia che scorre sul corpo nudo di bambina, alla dolcezza del sonno, al profumo del suo dopobarba, al suono dell’incedere dei suoi passi, all’eleganza delle sue mani che portano al guinzaglio il cane, alla visione di “piccoli movimenti sul suo viso, come se i suoi pensieri volessero uscire”. “Per lui non ero mai troppo stupida, troppo intelligente, troppo chiacchierona, troppo allegra, troppo musona. Potevo ballare o riparare biciclette, recitare monologhi di Pirandello dieci volte di seguito o smontare la radio, gli andavo bene così.”
Il nonno, nel libro, si presta in più punti a dare corpo, voce, sensi, alla domanda per un altro tipo di Amore, l’Amore assoluto del titolo.
Ma leggere la domanda di Amore assoluto della protagonista come fantasia di un “ritorno alle origini” e al passato mitizzato di un amore infantile sarebbe un fraintendimento.
La tensione verso l’Assoluto è reale e chi ne ha scritto lo sa. L’immagine che apre il libro, sulla vista di un infinito mare davanti ad occhi bambini, richiama il Sentimento Oceanico, un interrogativo aperto per la psicoanalisi delle origini e per i suoi sviluppi:
“Gambe aperte, mani sui fianchi, petto nudo. Vento in faccia, sabbia sotto i piedi, il mare di Torvaianica infinito davanti a me. È lì che vorrei tornare, è lì che mi sentivo un figo. E uso il maschile perché adesso ho le tette e non mi metterei mai a petto nudo in spiaggia. Detesto essere guardata dagli estranei, è irrilevante che sia uno sguardo ostile o di apprezzamento. Invece lì, con mio nonno, ero invincibile.”
Il Sentimento oceanico (per cui non è forse casuale la scelta del mare all’inizio del testo) è una questione che ha costituito un “assillo” per Freud, come egli stesso scrive allo stimatissimo amico Romain Rolland: “[…] la descrizione relativa a un sentimento che lei definisce “oceanico” non mi ha dato pace” (lettera a Rolland, del 14 luglio 1929). E ne “Il Disagio della Civiltà” ancora richiamandosi a lui dichiara “Confesso di nuovo che mi è molto difficile lavorare con queste grandezze a stento afferrabili” (Freud 1929: 565). Freud inquadra il Sentimento oceanico nel narcisismo primario e lo riconduce alla “mancanza di confini che l’Io esperisce nell’ originale fusionalità con il padre delle origini il quale, come aveva specificato ne L’Io e l’Es (1922) è in realtà un padre – madre, un genitore arcaico sessualmente indifferenziato” (Cusin et al. 2019 p. XI). In questo senso, il Sentimento oceanico è struggente nostalgia di una condizione (essa stessa, illusoria) per sempre perduta. Formulazioni recenti interrogano il “senso di infinito” come sensazione oceanica, uno stato di spossessamento che apre una percezione aumentata del presente invece che richiamare il passato (De Mijolla-Mellor, 2004; Cusin et al. 2019). Esistono sparsi nella letteratura psicoanalitica anche di matrice freudiana riferimenti chiari alla sensazione di “perdita dei confini” e “annullamento” del soggetto in un Essere esteso. Marion Milner (1900-1998), nel suo testo “A life of one’s own” (1934) – che pubblica peraltro sotto pseudonimo – scrive: “I remembered to spread myself, to feel out into the landscape. …. something, either the colors or the shapes, or the character of the land, aroused such a deep resonance in me that I sat, as if meeting a lover, aglow with an almost unbearable delight.” Bion, la cui teoria ha dialogato profondamente con la cultura indiana in cui ha a lungo vissuto, usa termini “realtà ultima, verità assoluta, divinità, infinito, cosa in sé” per indicare la funzione “O”, “spazio vuoto”, inconoscibile e intraducibile, dove anche le impressioni sensoriali siano sospese e lascino il posto ad una sorta di esperienza mistica (Bion, 1970). E dopo Bion, ancora Milner realizza (nel 1973) una disamina esplicita dei testi psicoanalitici (accreditati all’epoca, e a lei a disposizione) che avessero “ritenuto l’argomento (del misticismo) abbastanza importante da citarlo negli indici dei loro libri” (332). E Chianese (2020) opera una sintesi e collegamento mai così espliciti tra le teorie, le biografie e gli interrogativi clinici di Freud, Jung, Bion, Winnicott (per citare i maggiori) e la ricerca di un confronto con il Sacro nel modo in cui le tradizioni orientali lo hanno da millenni figurato: Assenza del desiderio, Vuoto, Nulla, Unità di tutte le cose, Dinamismo incessante, Coesistenza degli opposti, Danza cosmica (Chianese 2020, pp. 113-143). Eppure, per quanto si legga, la questione della natura reale e strutturale della psiche di una vocazione a trascendere se stessi rimane taciuta ed elusa (salvo quando inscritta nelle esperienze di chi la ha esercitata per farne teoria, a rischio del delirio e dell’annichilimento di sé, come Jung, Bion, o lo stesso Freud). Una stranezza, se si considera che quanto va sotto il nome corrente di Spiritualità riceve già da tempo considerazione non solo come oggetto teorico ma come fattore reale di cura, protettivo o facilitatore, anche in ambito medico (Pulchanski, 2001). Come può non essere riconosciuto, questo fattore, un elemento promotore di un cambiamento “reale”, non metaforico, sostanziale e immanente nella ordinaria vita psichica – cioè non “altrove” rispetto alla mente, gli affetti, l’inconscio – di individui comuni e sacri allo stesso tempo? E come non interpretare la dissociazione come effetto di un suo occultamento, o dislocamento in un altrove non pertinente? Non (troppo) interessante per gli psicologi?
Come può ancora ricevere, dalla psicologia, interpretazioni che lo appiattiscono a tendenze regressive da un lato, o che lo esaltano (operandone una stessa riduzione anche se in senso inverso) ma collocandolo ad un altro livello rispetto al funzionamento psichico come lo conosciamo, dunque non pertinente alla lettura – e interpretazione- delle difese, dei conflitti, dei meccanismi dell’angoscia così come dei disturbi identitari e le scissioni del mondo contemporaneo?
Il libro di Giulia Serughetti fornisce una risposta che non lascia tempo di replicare. Accettare di incontrare quell’Assoluto è accettare di riconoscere di aver perso e di non avere occasioni di recuperare. In verità, che non vi è senso nel recuperare alcunché; è l’accettazione piena, intima, non solo del fallimento iniziale (origine del trauma) ma della natura di fallimento di tutte le soluzioni che la mente ha provveduto dall’inizio della vita al momento della “crisi” e l’individuazione, in questo senso mistico di fallimento, di una via possibile, reale, autentica alla ricerca di senso. Una via coerente, per intensità e natura, con il dolore che la muove; una via che ha ripercussioni sul piano delle sensazioni fisiche e che da quelle riceve legittimità.
“Quello che mi stava facendo uscire di testa non era tanto l’evento in sé e la sofferenza che mi provocava, ma il fatto che i conti non tornassero. E per questo la risposta era molto semplice: i conti non tornano. Quello che è accaduto non ha senso. Nessuno. Zero. Zero carbonella. E l’unica cosa che posso fare è prenderne atto. Ma non usando la logica. Vorrei saperlo spiegare meglio ma l’unica cosa che so è che mi sono seduta piangendo e tremando e mi sono alzata calma. il cambiamento non è avvenuto nella mia testa o comunque usando i soliti canali, è arrivato lì dopo, solo come comunicazione del cambiamento”
A guardarlo da questo punto, il libro descrive un processo “analogo a quello analitico”, la testimonianza di un “processo di integrazione e trascendimento delle proprie parti di questa autoanalisi esistenziale che apre un varco verso un “Io” in fase di costruzione – dopo che tutti gli altri Io sono stati sacrificati alla trasformazione” e in cui “l’Io dopo aver setacciato il proprio Buio profondo e lasciatolo andare, accettandolo, si rivolge verso un altro Luogo della Mente, verso un Ordine frutto di un Caos organizzato da un qualche misterioso criterio di miglioramento di sé” (A. Rossi, 2022).
Bibliografia
Bion W.R. (1962). Apprendere dall’esperienza. Armando, Roma, 1972.
Bollas, C. (1989) L’ombra dell’oggetto: Psicoanalisi del conosciuto non pensato. Cortina
Bruner, J. (1992) La ricerca del significato. Per una psicologia culturale. Torino: Bollati Boringhieri
Chianese, D. (2020) Il vivente e il sacro. Astrolabio
Cusin, A., Fattori, L., Stanzione Modàfferi, M., Vandi, G. (a cura di) (2019) Oltre. Il senso di infinito a partire dal «Sentimento oceanico». Roma: Alpes
De Mijolla Mellor, S. (2004). Bisogno di credere. Roma: Borla
Freud, S. (1905) Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio. In Opere, vol. 5, Bollati Boringhieri, Torino, 1972.
Freud, S. (1922) L’Io e l’Es. Bollati Boringhieri, 1978
Freud, S. (1929) Il disagio della civiltà. In Opere, vol. 10, Bollati Boringhieri, Torino, 1978
Green, A. (1979) Narcisismo di vita, narcisismo di morte. Cortina, 2018
Khan M. (1963) The Concept of Cumulative Trauma. The Psychoanalytic Study of the Child,18:1, 286-306, DOI: 10.1080/00797308.1963.11822932 [trad.it. Il concetto di trauma cumulativo. In Lo spazio privato del sé, Bollati Boringhieri, Torino 1979.]
Milner, M. (1934). A life of one’s own. London and New York: Routledge, 2011
Milner, M.(1973). Alcune osservazioni sulle idee psicoanalitiche del misticismo. In La follia rimossa delle persone sane, Borla, 1992 (pp. 324- 343)
Puchalski, C. M. (2001). The Role of Spirituality in Health Care. Baylor University Medical Center Proceedings, 14, 352-357.
Rossi, A. (2011) L’acqua se il buio. parole in lotta per diventare me stesso. Classica viva
Rossi, A. (2022) Testo di presentazione del libro Amore assoluto e altri futili esercizi, Facoltà di Medicina e Psicologia, Sapienza Università di Roma, 14 dicembre 2002
Winnicott D. W. (1963). La paura del crollo. In Esplorazioni psicoanalitiche. Raffaello Cortina Editore Milano, 1995.