Parole chiave: #manicomio, #Basaglia, #psichiatria, #premioCalvino
Altro nulla da segnalare
di Francesca Valente (Einaudi, 2022)
Recensione di Patrizia Santinon
Riporto una ultima nota dei rapportini del 29-5-1980:
“La signora Agosta veniva subito riaccompagnata in reparto dalla proprietaria (della pensione ove era ospitata) dopo averla prima però portata a votare nella scuola dove ha la residenza, in San Donato: per fortuna dice di aver votato PCI. Altro nulla da segnalare”.
Altro nulla da segnalare di Francesca Valente ha vinto all’unanimità il Premio Italo Calvino 2021 con “un testo corale che incrocia storie di pazienti, psichiatri, infermieri di uno dei primi reparti aperti di un grande ospedale italiano” come si legge in copertina. “Altro nulla da segnalare” è una formula ricorrente nei “rapportini” che gli infermieri del SPDC dell’Ospedale Mauriziano di Torino compilavano a fine turno perché gli operatori “fossero a conoscenza di tutti gli accadimenti e delle preoccupazioni che riempivano quelle stanze”. Luciano Sorrentino, psichiatra che abbracciò Psichiatria Democratica fino ad entrare nel Direttivo Nazionale, vi lavorò’ dal 1980 al 1984 per poi spostarsi al centro di salute Mentale di Via Monti. Sorrentino conservò per trentanni quei quaderni con i rapportini, diminutivo che ne ingentiliva la prosa scarna come quello di repartino per indicare il SPDC, ben consapevole del fatto che non avrebbero avuto altra destinazione alternativa al macero: “dentro quelle pagine c’erano un sacco di storie che aveva conosciuto e un mucchio di storie che ancora gli giravano nella testa. Persone e storie come fantasmi che gli facevano compagnia”. Fu possibile riaprirli solo in presenza di un altro, sufficientemente generoso e distante da quelle storie per poterle ascoltare, l’autrice di questo testo.
Qui, nel repartino abbandonato da Sorrentino nel 1984 perché gli sembrava tradita la sua visione della salute mentale, chiuso dal marzo 2020 nel corso del COVID e mai più riaperto, è passato Carlo Colnaghi, un tempo attore al Piccolo di Milano poi perdutosi nella nebbia della malattia. I pazienti potevano allora entrare ed uscire dal reparto, allenando, una volta dimessi dall’Ospedale psichiatrico, la capacità di stare fuori..
Carlo arriva alla studio di Daniele Segre, regista alessandrino, con la proposta di lavorare insieme: Daniele accetta di costruire qualcosa con quel “ours mal léché, un orso leccato male, misantropo e maleducato”. Così Sorrentino parlava di Carlo ai colleghi, cercando di interrogare quel loro fastidio per il paziente, per rivelarne il violento controtrasfert, un preciso e inconsueto affondo per un basagliano puro. Il film Manila Paloma Blanca è nato da un soggetto scritto a due mani, quelle di Daniele Segre e di Carlo Colnaghi, in seguito al loro primo incontro avvenuto nel 1983: un lavoro abbastanza lungo, come un’analisi, visto che il film è stato girato solo nel 1992. Carlo e Luciano, il suo psichiatra, l’hanno presentato a Venezia e poi a New York, insieme. Di questo resta testimonianza in una foto del 1993 di cui l’autrice ci parla senza mostrarcela, l’anno di Paloma Blanca a New York, che “immortala due uomini che hanno condiviso un lungo periodo e un progetto, e li rende più simili e vicini di quanto si possa immaginare di un dottore e il suo paziente. Forse, di un dottore e i suoi pazienti, tutti, dal primo all’ultimo”. Il libro è pieno di foto citate e mai mostrate, come un adattamento a questi tempi di moltiplicazione e di eccesso del patrimonio iconografico in cui verrebbe da chiedersi se l’immenso lavoro di Carla Cerati e di Gianni Berengo Gardin – di documentazione attraverso la fotografia delle condizioni di vita nei manicomi italiani su invito di Franco Basaglia – confluito poi nel libro Morire di classe epubblicato da Einaudi per la prima volta nel 1969, avrebbe avuto oggi lo stesso effetto di allora, di denuncia e produzione di scandalo. Luciano aveva criticato l’organizzazione dei servizi di salute mentale nel New Jersey dove si era trasferito insieme ai genitori e aveva pensato di togliersi dalla lordura di una guerra inutile in Vietnam iscrivendosi a Medicina. Lo aveva fatto in Italia, a Torino, città di migrazione dei suoi nonni dove il primo nucleo, la casa del ritorno, era nella periferia oggi cuore della movida torinese, “Porta Palazzo, tenuto come una reliquia impolverata, umile e verde come Itaca”. I luoghi di cui parliamo sono diventati altro nel tempo, e la loro trasformazione segna il passaggio dal manicomio come hortus conclusus, contrapposto allo spazio della cultura, a luoghi in cui si produce anche con l’arte benessere: via Giulio si riaccende di musica nella porzione che è diventata un Arci, la Cricca. Poco distante c’è lo studio di un analista che con una valutazione puntuale, come quella che determinava l’ingresso in manicomio, avrebbe dovuto intuire la mia attitudine a diventare analista a mia volta. Luciano viene ritratto qui come il più psicoanalitico dei basagliani. Che poi che vuol dire? Occorre decolonizzare Basaglia, visitarne, come questo libro è capace di fare, la storia collettiva di operatori, pazienti, familiari, storie che si mescolano per reinserire i radicali antropologici della cura nel nucleo fondativo di elaborazione e di radicale messa in discussione dei fondamenti epistemologici dell’ideologia psichiatrica.
De-monumentalizzare la prassi basagliana significa anche recuperare la sua implicita proposta di ripensamento dei rapporti tra scienza, attività politica e relazioni interpersonali, con uno sguardo psicoanalitico sulle pratiche terapeutiche, sui modelli ma anche critico rispetto ad ogni forma di autocelebrazione del passato mitico. Si rischia altrimenti di sostituire l’internamento a vita con pratiche più sottili di rotazione nel circuito tra invalidazione e reinserimento – attraverso un complesso di ambulatori, repartini, residenze post-manicomiali e ghetti territoriali, in cui i trattamenti continuano a funzionare come strumenti di manipolazione e di de-soggettivazione, che tengono lontano il servizio dai veri bisogni della popolazione. Pensiamo come Luciano di dover uscire (dal repartino) in tutti i modi che conosciamo per farlo. Tra questi luoghi che immaginiamo e il fuori si disegna una soglia che definisce lo spazio dell’incontro, dell’ascolto, dell’aiuto, della terapia che contrasta il rischio della sottomissione e dell’assoggettamento implicito quando c’è la malattia, la fragilità, il bisogno.