“Agosto”
di Judith Rossner
(Ed. La Tartaruga, 2020)
Recensione a cura di Maria Giuseppina Pappa
“Gli psicoanalisti non dovrebbero mai andare in ferie. Non a New York, e soprattutto non in agosto, il mese più ansiogeno dell’anno. Nessuno come Judith Rossner ha saputo raccontare perché”.
Sandro Veronesi
Il romanzo “August”, di Judith Rossner (1983) è stato tradotto dall’ inglese da Licia Vighi e pubblicato da La Tartaruga edizioni nel febbraio 2020, poco prima dell’inizio del lockdown a causa dell’emergenza coronavirus. Anche per questo leggerlo in tempi recenti, al momento della riapertura e della ripresa del lavoro analitico in presenza, è stato per me interessante e suggestivo. Non a caso durante il lockdown, per descrivere il clima di silenzio surreale e di vuoto che avvolgeva le città, molti lo hanno paragonato a quello del mese di agosto, quasi come per orientarsi, per dare un nome a un’angoscia informe. Agosto, il periodo dei saluti, delle partenze, dei distacchi e delle separazioni, allude alla dimensione del vuoto, una condizione ineludibile e necessaria, che assume un significato particolarmente importante nel corso di un’analisi. Così come la musica non potrebbe esistere senza le pause e il silenzio, l’analisi si costituisce specificamente come ritmo tra presenza e assenza. È un ritmo che si va delineando nel tempo in modo soggettivo e condiviso per entrambi i partecipanti alla coppia analitica, tra una seduta e l’altra, tra un fine settimana e l’altro, tra un periodo di vacanza e l’altro. Più profondamente in analisi il vuoto può essere inteso “come lo spazio che origina dal processo stesso di significazione e di simbolizzazione, rappresentativo della mancanza-a-essere che caratterizza gli esseri umani nella loro costitutiva spinta trascendente” (Cimino, 2005). Lo sviluppo della capacità di far uso del simbolo è strettamente legata con le esperienze di separazione e frustrazione e con l’elaborazione della posizione depressiva (Corradi Fiumara, 1976). Come asserisce Bion (1962), “La capacità di tollerare la frustrazione fa sì che la psiche possa sviluppare un pensiero per mezzo del quale la frustrazione che viene sopportata è essa stessa resa più tollerabile”. Molto spesso occorre un lungo lavoro analitico prima che tali capacità vengano acquisite. Il romanzo di Judith Rossner offre una narrazione veritiera della pratica analitica, attraversando una serie di temi assolutamente centrali della psicoanalisi: l’angoscia di separazione, il complesso di Edipo, il termine dell’analisi, la post-analisi. Oltre a essere ricco di spunti di riflessione, trattando delle vicende analitiche di un’adolescente, esso pone lo psicoanalista di fronte a questioni fondamentali, prima fra tutte quella relativa alle variabili in gioco nella psicoanalisi dell’adolescenza.
Al centro del romanzo c’è la relazione analitica tra Dawn Henley, bella studentessa diciottenne, piena di talento, con una storia familiare e personale traumatica, e la dottoressa Lulu Shinefeld, nel pieno di una crisi di mezza età. Dawn è orfana di entrambi i genitori: sua madre si è suicidata quando lei aveva sei mesi, e suo padre è annegato l’anno successivo, quando la sua barca a vela si è capovolta durante una burrasca. Dawn non ha ricordi né della madre, né del padre, e quando parla dei genitori, si riferisce a sua zia Vera, che è omosessuale, e alla sua compagna, Tony. È stato il divorzio tra Vera e Tony il fattore scatenante all’origine del primo incidente di Dawn: “Avevo tredici anni, e sono andata a sbattere contro una macchina a una velocità tale che non ho potuto far altro che assumermi tutta la responsabilità dell’accaduto. Mi sono rotta il collo, oltre a un braccio e a una gamba. Non appena sono stata di nuovo in grado di muovermi, Vera mi ha spedito da un analista. Il dottor Leif Seaver. So che lo conosce, visto che è stato lui a darmi il suo nome. Come le ho detto al telefono”. (p.11). Dawn è stata in analisi con il dottor Seaver per quattro anni, al termine della quale, è andata incontro a un secondo incidente, essendosi addormentata al volante della sua auto. Pensa che questo sia dipeso dal suo essersi sentita lasciata e abbandonata alla fine dell’analisi: “Per lui sì. Io stavo bene, più o meno. Ma non capiva che riuscivo a fare tutto quello che facevo solo perché avevo lui”. (p. 13). Così si presenta Dawn alla dottoressa Shinefeld. A mio parere sin dall’inizio il romanzo ha il potere di rendere vivi gli aspetti dibattuti da molti anni in campo psicoanalitico sulla opportunità, le difficoltà, le modalità dell’analisi con gli adolescenti, sulla qualità del transfert e del controtransfert nella situazione specifica, sulla frequenza con cui il rapporto analitico viene interrotto (Freud A., 1957; Brenman Pick, 1988; Aliprandi, Pelanda, Senise, 1990). Marta Badoni (2001), nel riflettere sul rapporto esistente tra tempo dell’analisi e tempo dell’adolescenza, considera che si tratta di due tempi in contrasto: “Mentre il tempo dell’adolescenza è incalzante, caratterizzato da rapidi cambiamenti e da pressanti richieste, circoscritto allo sviluppo e al compimento della pubertà; il tempo dell’analisi è ritmato, da un lato, da sequenze predefinite stabilite dall’esterno e – seppur contrattate con l’adolescente – dall’alto; d’altro lato, esso è destinato a seguire un proprio tempo, non delimitabile all’inizio”. Nel corso delle varie sedute che si susseguono nel romanzo, vengono riportate situazioni che mostrano la complessità dei problemi di tecnica nella psicoanalisi dell’adolescente e dell’intersecarsi dei processi di fine analisi con il funzionamento mentale specifico di quest’età (Nicolò Corigliano, 2001). L’opinione più diffusa tra gli psicoanalisti è quella di riconoscere la specificità dell’analisi dell’adolescente e della sua terminazione. I Novick (1990), nel soffermarsi sui problemi che caratterizzano la terminazione in adolescenza, sottolineano il ruolo centrale dei genitori nel valutare se sia opportuno iniziare una fase di fine analisi, aggiungendo che “procedere verso la fine analisi è prematuro se l’analista è la sola persona che può ascoltare e capire il paziente”. Viene da chiedersi se questo possa essere il caso della prima analisi di Dawn con il dottor Seaver, un’analisi per certi versi finita prematuramente, tenendo conto dello stato di orfananza sofferto dalla ragazza. La seconda analisi con Lulu Shinefeld sembra essere d’altro canto una preziosa occasione per elaborare tale “prematurità”, così come vissuti e angosce relativi allo sviluppo primario e alle falle nello sviluppo primario. In una seduta con Lulu, riferendosi al dottor Seaver, Dawn dice: “ Alle volte avrei voluto essere uno dei suoi fiori e rimanere su una mensola su quella finestra. Non era uno studio, era una casa… Alle volte penso di non avere delle parti interne. O forse ci sono ma… ecco, sono dei frammenti”. (p. 83). In un altro punto Dawn dice: “Nella mia mente c’è il vuoto assoluto.. e poi mi ritrovo di nuovo ai piedi del muro.. un muro che mi impedisce di andare in qualunque posto”. (p.40). Lulu si rivela essere un’analista con una buona capacità di partecipazione affettiva e di tatto, sempre attenta a quella che Franco Borgogno ha definito l’onda lunga del transfert e del controtransfert (2020). Il clima caldo e accogliente delle sedute, molto ben descritto dalla scrittrice, è reso vivo e dinamico anche dall’alternarsi di capitoli dedicati a spaccati di vita interiore e all’analisi di Dawn, a capitoli dedicati alle vicende esistenziali, all’analisi e all’autoanalisi di Lulu. Il lettore può così calarsi in un confronto e in un dialogo costante tra il mondo interno di un’adolescente, e quello di un’adulta, nel suo ruolo di analista, capace di contenimento e di comprensione. Lulu Shinefeld si è appena separata dal suo secondo marito e deve occuparsi di due figli preadolescenti e di Sascha, la figlia ventenne avuta con il primo marito, che ha abbandonato Lulu quando era incinta. Sascha se ne è andata di casa e non si è fatta sentire per anni. Oltre a tutte queste separazioni e a questi distacchi, Lulu ha dovuto elaborare il difficile lutto della morte del suo primo analista. Sin dagli inizi dell’analisi con Lulu Shinefeld Dawn, che si sente “una bambina di 18 mesi nel corpo di una diciottenne”, è ossessionata all’idea delle vacanze dall’analisi e che ad agosto dovrà sospendere le sedute per un lungo periodo: “L’estate era il suo inverno”. (p. 121). Dawn non vorrebbe smettere di andare in seduta e anche per questo le capita di addormentarsi sul lettino, ma allo stesso tempo è impaurita dal suo sentirsi così dipendente: “Non posso lasciare che questo studio diventi l’unico posto al mondo, com’era con il dottor Seaver”. (p. 80). Pertanto si difende da tutto ciò allacciando relazioni con uomini di mezza età. Alla vigilia delle vacanze estive Dawn si presenta in seduta con la serie completa delle sue litografie, affermando di volerle lasciare alla dottoressa per tutto agosto. Lulu, sensibilmente colpita a livello controtransferale, le risponde con un tenero aneddoto di una bambina che lasciava i suoi giocattoli nella camera della mamma, per lasciare una parte di sé con la mamma. Qui la risonanza empatica dell’analista e la sua capacità di rêverie contribuiscono alla creazione di un’area di gioco, così come lo concepisce Winnicott (1971), un’area transizionale per l’attribuzione-riattribuzione di significati co-costruiti. In tal modo la propensione all’esternalizzazione e all’acting, tipica dell’adolescente, viene colta nel suo valore comunicativo e usata come precursore indispensabile delle trasformazioni psichiche del Sé. Le litografie di Dawn hanno una valenza proto-simbolica, rappresentando un “tentativo di figurazione” (Chabert, 2000), un modo per comunicare senza parole, trovare un canale espressivo per qualcosa che le parole non riescono a dire, perché evocativo del trauma subito. Le litografie di Dawn sono realizzate in seppia: la prima è il ritratto di una grande sedia a dondolo, permeata da un senso di doloroso isolamento; la seconda somiglia alla culla di un bambino. La sedia e la culla delle litografie andranno incontro a delle trasformazioni fondamentali, generando sogni e associazioni ai sogni, con stupita meraviglia di Dawn, che darà loro un nome: “il sogno della Culla Solitaria e della sedia vuota”. Da ora in poi, nel corso dell’analisi avvengono a poco a poco degli sviluppi cruciali, per cui nella mente di Dawn il padre assume dei contorni reali che prima non aveva mai avuto, “una figura romantica” che rimpiange di non aver conosciuto abbastanza a lungo per ricordarsene. Dawn diventa allora estremamente curiosa di conoscere i particolari della vita del padre, condividendo con la sua analista il dolore di rendersi conto di essere orfana, e a dare significato al suo essere orfana: “.. sei patetica. Una volta che hai perso ogni cosa. E lo sanno tutti. Non eri niente… non sei niente”. (p. 220). Dawn scopre in sé l’ “oscuro abisso degli orfani”: “Quando ero in analisi dal dottor Seaver, l’oscuro abisso era il mondo esterno. Adesso l’abisso è qui in studio, mentre il mondo esterno è ciò che mi salva. So che non è proprio la verità, per via di come mi sento quando lei va via… Lo studio è il simbolo della mia mente, immagino. Ma almeno, se precipito in un buco nero nel suo studio, lei può tirarmi fuori. E se mi avvicinassi all’orlo quando lei è in vacanza?” (p. 226). Quando Dawn chiede alla zia Vera di sapere la verità su suo padre, viene a sapere che è morto nel mese di agosto, e che al momento dell’incidente in barca era con il suo amante: il padre era sempre stato omosessuale e aveva rinnegato la sua vera natura quando aveva sposato sua madre. Dawn si dispera, sentendosi una bambina non voluta: “È un patetico incidente il fatto che sia venuta al mondo.. non voglio essere una specie di strampalato incidente”. (p. 206). Il momento di svolta nell’analisi di Dawn, è quando ripensando al sogno della Culla Solitaria e raccogliendo varie testimonianze, riesce ad accedere alla memoria del trauma dell’abbandono originario. Mentre il padre moriva annegato, lei giaceva sola nella culla, nell’attesa vana del suo ritorno. E così sarebbe rimasta fino al giorno dopo, perché il vicino, che era stato incaricato vigilare su di lei, si era allontanato, dimenticandosi di lei.
Con il prosieguo dell’analisi, attraverso un lungo lavoro di elaborazione e di appropriazione soggettiva di sé e di assimilazione introiettiva dell’esperienza analitica, Dawn riesce a individuarsi e a separarsi in maniera creativa, fino ad avviarsi al termine dell’analisi. In occasione dell’ultima seduta con Lulu, le reca in dono un suo dipinto a olio raffigurante una giovane donna, con al suo interno un’altra donna, più piccola, con la testa all’altezza che avrebbe potuto occupare il cuore. La donna piccola è molto simile alla dottoressa Shinefeld.
A commento finale della lettura del romanzo della Rossner, che reputo stimolante e arricchente per un pubblico esteso, vorrei riportare le parole di Franco Borgogno, nel suo ultimo libro, Una vita cura una vita, per chiarire quello che fa sì che una vita curi una vita: “l’elaborazione dell’irrompere di essa in seduta da parte di un analista che, a contatto con il paziente e con quanto accade, la lascia sgorgare anche all’interno di se stesso senza spaventarsene troppo e senza reciderla prematuramente”.
BIBLIOGRAFIA
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