Michela Murgia “Accabadora”
Einaudi editore 2009
Recensione a cura di Renata Rizzitelli
Parole chiave: Adozione – Eutanasia – Segreto
Recensione a cura di Renata Rizzitelli
“Fillus de anima.
E’ così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità dell’altra. Di quel secondo parto era figlia Maria Listru, frutto tardivo dell’anima di Bonaria Urrai”
Con la morte di Michela Murgia ho ripensato al suo romanzo “Accabadora” perché, pur essendo passati diversi anni dalla pubblicazione (2009) e dalla lettura, i temi che si intrecciano nella trama di questo romanzo mi hanno ri-generato il desiderio di tornarvi e di elaborarli in maniera più dettagliata e profonda. La Murgia ci pone in mezzo al contrasto fra la Sardegna vacanziera e mondana conosciuta da tutti e la Sardegna ancestrale, legata ad antiche tradizioni arcaiche: un universo di valori lontani dalle prospettive attuali alla base di un’organizzazione sociale tradizionalmente abituata alla miseria, alle restrizioni non soltanto economiche ma anche relazionali.
La Murgia, con ingredienti letterari ben dosati, che insieme alle tematiche affrontate danno spessore ad una trama molto originale, ci porta in un universo di valori lontano dalla nostra realtà urbanizzata, valori di una società che affronta un orizzonte duro, irto di difficoltà e deprivazione, generata non solo dalla povertà economica ma anche dalla scarsa disponibilità di risorse comunicative ed affettive. Attraverso la trasmissione delle emozioni veniamo condotti nel profondo modo di funzionare di questa tela sociale, e di tematiche universali e dolorose quali: l’adozione, la non accettazione della limitazione fisica, l’eutanasia.
Questo libro si legge velocemente e potremmo definirlo un romanzo di formazione. Ci parla in modo originale dei legami familiari, della morte, della genitorialità: se una donna non sa come sfamare il proprio figlio è socialmente accettato che lo ceda ad un’altra, che lo prende come proprio; se non vi è più rimedio alle sofferenze di un malato, è naturale aiutarlo a mettervi fine con modalità rudimentali.
Sullo sfondo del romanzo, traspaiono i suoni di un mondo solo apparentemente dimenticato e lontano, che possiamo ritrovare con molte risonanze nel nostro mondo interno. Attraverso il racconto e la lingua primitiva, ancestrale ed evocativa della Murgia, risuona in noi un’eco transgenerazionale non troppo lontano e la cui memoria può così essere ritrovata: siamo negli anni ’50, nel dopoguerra.
Accabadora è un romanzo centrato principalmente sulle donne, che vi hanno parte attiva, mentre gli uomini, per motivi caratteriali, vengono collocati in ruoli più passivi, di reazione più che azione.
Il campo psicologico è attraversato da figure femminili che interagiscono, seppur modestamente, su di un piano relazionale empatico e da figure maschili troppo concrete, delineate da agiti e non da pensiero.
La trama ci porta diretti in una Sardegna anni ’50, ancora legata a riti e tradizioni in parte arcaici, dov’è ancora in uso la pratica dei “figli dell’anima”, bambini che vengono passati da una famiglia che fa fatica a provvedervi (sono spesso gli ultimi figli) a una donna sterile che farà loro da madre. Sono bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità dell’altra, attraverso modalità bibliche: come viene generato Ismaele che, a causa della sterilità di Sara, nasce dall’unione di Abramo con la schiava Agaf.
Maria e Tzia Bonaria vivono come madre e figlia, ma la loro intesa ha il valore speciale di due creature che si sono scelte dopo essere state destinate l’una all’altra dalla decisione della famiglia originaria di Maria. Benchè la bambina abbia ormai sei anni, assistiamo ad un “buon incontro” che favorisce un legame adottivo soddisfacente per entrambe. Possiamo supporre che l’ambiente psicologico sia influenzato dalla garanzia di accudimento e di risorse che Tzia Bonaria può dare a Maria, che comprende anche la progettualità di un futuro formativo che consente la speranza di aspettative migliori rispetto alle proprie origini.
Maria Listru, ultimogenita, viene ceduta dalla famiglia biologica a Tzia Bonaria Urrai, sarta del paese, che l’alleva come figlia con l’obiettivo di assicurarle educazione, istruzione e futuro. E affetto, per quanto la società dell’epoca di quella Sardegna consentisse di esternare.
Maria cresce, brava a scuola, bella e intelligente, consapevole della sua situazione di figlia-non figlia.
Percepisce le strane uscite di Tzia Bonaria nel pieno della notte ma, nonostante le sue richieste, non ottiene alcun chiarimento. Scoprirà poi, dopo la morte di un ragazzo del paese rimasto con una sola gamba a seguito di un incendio appiccato per vendicare un torto, che Tzia Bonaria è l’Accabadora del paese, cioè, traducendo dallo spagnolo, “colei che finisce”. Il ragazzo Nicola, appiccando un incendio per vendicarsi di un torto, rimane ferito gravemente a una gamba: quando questa gli verrà amputata, deciderà di invocare l’Accabadora,
“Credi davvero che il mio compito sia ammazzare chi non ha il coraggio di affrontare le difficoltà?”
L’Accabadora si occupa di garantire una morte pietosa a chi la chiede, perché in condizioni di estremo dolore e impossibilità a proseguire oltre una terribile agonia. Tale pratica viene descritta, per quanto riguarda il ruolo di Tzia Bonaria, come un’opera di carità, non di omicidio. In tale contesto, la morte e la mano che la porta possono essere pietose.
Quando Maria lo scoprirà non lo accetterà, perché: “ci sono cose che si fanno e cose che non si fanno”, e questa per lei è una di quelle “che non si fanno”.
“Le colpe, come le persone, iniziano ad esistere quando qualcuno se ne accorge”.
“Conoscere” il lato segreto di Tzia Bonaria produce, nella mente di Maria, una frattura che appare insanabile: questo aspetto lo possiamo solo supporre, perché l’autrice non fornisce molte spiegazioni ma ci lascia immaginare che tale lato sconosciuto della madre adottiva risuoni nella mente della ragazza come fortemente perturbante e che la allontani da colei che le aveva fino ad allora trasmesso contenuti e vissuti, seppur prevalentemente concreti, molto vitali.
Possiamo pensare che la morte, balzata all’improvviso, e con caratteristiche così difficili da mentalizzare, nel campo psicologico della relazione fra Maria e la mamma adottiva, costituisca un elemento di difficile elaborazione e mentalizzazione. Nel tessuto relazionale appare importante anche l’elemento costituito dal “segreto”, che in questo caso è un’omissione della verità ma che nella mente di Maria prende i contorni di un inganno. Probabilmente l’idealizzazione della figura materna rende difficile il lutto generato da una così strana e perturbante verità per anni tenuta celata alla vista della figlia. Avviene così l’allontanamento psicologico ed anche concreto di Maria che, con l’aiuto della sua insegnante, lascia la Sardegna per andare a lavorare nel continente: emerge chiaramente la difficoltà nel mettere insieme gli elementi vitali di una madre con colei che procura la morte.
“Molte cose che credeva di aver lasciato sulla riva da cui la nave per Genova si era staccata a suo tempo, ritornavano una dopo l’altra, come pezzi di legno sulla spiaggia dopo una mareggiata”.
Eppure, dopo il poderoso distacco che porta Maria ad andarsene lontano, il legame introiettato mostrerà buone qualità proprio quando Tzia Bonaria si ammalerà, e consentirà il riavvicinamento fra le due. Maria l’accudirà amorevolmente fino all’ultimo.
Maria sa di non essere figlia di Tzia Bonaria, eppure ha interiorizzato questa donna come una madre, come colei con cui confrontarsi sui temi importanti della vita, da cui si ritorna e per la quale ci si sente importanti. Lei che si era sempre sentita ultima, con la mamma adottiva vive profondamente l’esperienza di contare davvero, di essere presente nella mente di un genitore che, con le sue risorse, ha uno spazio mentale dedicato. Forse la capacità di Tzia Bonaria di accogliere il dolore dei malati, di comprendere la loro sofferenza e di provvedere con i suoi mezzi a porre fine alla loro agonia, fornisce una chiave di lettura per comprendere come sia riuscita a condurre positivamente l’adozione di Maria. Tzia Bonaria è una donna dotata di profondità, è attraversata da mille dubbi ma avverte la pietas e agisce di conseguenza.
Proprio perché sa che Tzia Bonaria non è sua madre, Maria riesce ad elaborare il lutto generato dalla perdita dell’idealizzazione, a trovare la giusta distanza ed a prendere le parti concrete e positive di questa relazione Il trasferimento nel continente rappresenta la distanza necessaria per affrontare una posizione depressiva e trovare una modalità relazionale più sana e matura.
Maria infine capirà il senso di ciò che fa l’Accabadora, capirà che la morte può essere un gesto di pietà dovuto a chi soffre e lo desidera.
E aveva quindi ragione Tzia Bonaria a dirle “Non dire mai: di quest’acqua io non ne bevo. Potresti trovarti nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata.”
Pur trattando temi sempre attuali e di una certa rilevanza, il romanzo non calca la mano e si muove con delicatezza ma, come nel mondo relazionale delineato, vi è sempre fra il lettore ed i personaggi un po’ di distacco e freddezza, che non consente di affezionarvici davvero.
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