Psicoanalisi e Culture
di Sudhir Kakar, Alpes, Roma, 2017
Recensione di Lucia Monterosa
Ho letto il libro di Sudhir Kakar con l’impressione di essere accompagnata da un ritmo. All’inizio ho pensato che fosse quello della sua prosa, sebbene tradotta. Poi più avanti, ho colto in quel ritmo un respiro vitale, legato ai temi che nelle pagine si snodavano.
La sensazione che ho avuto, sin dall’inizio, è stata quella di udire una voce narrante mentre mi trovavo all’aperto. Ho pensato che la mia immaginazione mi stesse trasportando forse in India, dove non sono mai stata. Allora la memoria mi ha condotto a ricordare il racconto “Il Fiume” di Rumer Godden, da cui Jean Renoir ha tratto la sceneggiatura per l’omonimo film. E’ un testo in cui si parla di vita e di morte, di un’estate che segna la fine dell’infanzia della protagonista, dell’incontro tra diverse culture con le passioni e le frizioni che ciò comporta. La narrazione – del racconto come quella del film- si svolge mentre i colori, gli odori, le religioni, il fluire del Gange e i suoni dell’India si mescolano.
Poi ho scoperto che quella «mescolanza», evocata dalla mia memoria, che andava a confluire in un unico ritmo, era uno dei temi fondamentali in cui si snodava il discorso di Sudhir Kakar. Dopo essermi inoltrata nelle pagine del libro, ho pensato che quelle che credevo essere suggestioni, fossero il risultato della trasmissione della concezione della vita e dell’umano nella cultura induista che l’autore descrive. Ho pensato che forse egli avesse scritto alcuni dei suoi lavori stando in contatto con l’ambiente naturale e che quel contatto con «l’aperto» fosse arrivato in qualche modo fino a me.
Sin dalle prime pagine del libro l’autore spiega come il suo interesse per la psicologia culturale non sia iniziato come un «esercizio intellettuale astratto ma come un problema di importanza vitale e personale» (p.2), connesso alla sua decisione di intraprendere una formazione analitica lontano dalla sua terra: in Europa, a Francoforte. La psicologia culturale è un territorio di ricerca fertile nel fornire nuovi contributi alla psicoanalisi contemporanea, per ampliarne la visione teorica nata all’interno di un’esperienza culturale occidentale moderna. Sudhir Kakar ci introduce su questo terreno rievocando gli incontri con il proprio analista, di lingua e cultura diversa dalla propria. Egli mette in parallelo quell’ esperienza iniziatica con le aspettative, a lui note, degli indiani che si rivolgono ai guru. Si tratta dello stesso desiderio totalizzante di essere accolti e guariti, sebbene presente in maniera nascosta, che egli ha colto nei suoi pazienti occidentali: una spinta vitale fondamentale per avviare un processo analitico.
L’autore pone in evidenza alcune sostanziali differenze tra la cultura indiana e quella occidentale, che determinano gli sviluppi della cura e mettono in tensione alcuni principi teorici della psicoanalisi tradizionale. Tra queste, una riguarda l’importanza data ai legami familiari. Le famiglie dei pazienti indiani, anche quelli altamente scolarizzati e urbanizzati, sono apparse spesso sconcertate nell’apprendere che «l’ideale psicoanalitico fosse quello di accrescere la gamma di scelte dell’individuo e non l’integrazione con la famiglia» (p.23). Inoltre, molti pazienti concepiscono i loro problemi emotivi non come generati nella loro psiche «ma i disordini e i conflitti sono spesso visti come prodotti di un Karma in una vita precedente» (p.79)
Un’ altra differenza fondamentale riguarda il tema del corpo: nella visione indiana non c’è differenza tra il corpo, inteso come forma «grezza» della materia, e la mente, che viene concepita come forma «sottile» della stessa materia. Al contrario, nella visione occidentale il corpo è concepito come una sorta di roccaforte, circoscritto e differenziato da ciò che gli sta intorno. Nella cultura occidentale anche l’indagine scientifica è volta ad indagare ciò che sta all’interno del corpo individuale, escludendo il contesto naturale e metanaturale: «la qualità dell’aria, del sole, delle piante e degli animali (sono) presi in considerazione come elementi irrilevanti per lo sviluppo emotivo ed intellettuale. Il corpo dell’induista è concepito in profonda connessione con il cosmo ed è pensato in continuo cambiamento, la psiche è il corpo sottile. La comunità comprende gli spiriti e gli dei. L’ordine dell’essere è inserito in una dinamica allargata a più livelli» (p.108).
Una parte del testo è dedicata ad un esame dell’organizzatore edipico, che è espressione del mito nella cultura occidentale, ma che non ha riscontri nella cultura indiana, nella quale è dominante la forza della madre nel mondo interiore del bambino. La «narrativa egemonica» della cultura induista indiana, nel momento in cui si riferisce allo sviluppo maschile, è centrata sul tema della potente seduzione materna. Il padre non è descritto come un rivale, è situato alla periferia, è distante e placa la minaccia di una madre opprimente. Il parricidio non è mai narrato nei territori mitici indiani, così come manca in essi il racconto di un’alleanza edipica. Sudhir Kakar, illustrando la sua teorizzazione con l’esposizione di materiale clinico, suggerisce che la forma del materno- femminino possa essere più centrale nella psiche dei pazienti indiani, rispetto a quelli che hanno vissuto nella cultura occidentale. Nei casi clinici esposti, appare evidente la necessità di fronteggiare un’intensa seduzione materna, unita al terrore di separazione. Il desiderio di distruggere la madre intrusiva si accompagna a quello incestuoso. Girindrashekhar Bose, il fondatore della Società Psicoanalitica Indiana, aveva teorizzato come il desiderio di essere una donna, fosse una soluzione al disordine che minaccerebbe di rompere l’unione del figlio con la madre. Il ruolo delle figure femminili di accudimento e le tradizioni politeiste indiane, ricche di divinità materne costituiscono un substrato profondamente diverso rispetto a quello che ha determinato la visione freudiana della religione, derivato dalla tradizione monoteistica giudaico-cristiana.
A partire da ciò, ritengo che sia plausibile rintracciare proprio sul terreno della questione femminile la forte resistenza freudiana alla mistica indiana, evocata da ciò che Rolland definì «sentimento oceanico». Forse anche l’India in generale potrebbe essere stata da Freud stesso identificata, in ultima istanza, proprio con la madre primordiale e considerata per questo un territorio da cui mantenersi distante.[1] Egli esplicitò la sua percezione dell’India nella lettera a Romain Rolland del 19 gennaio del 1930. In quelle righe fece riferimento, non senza una vena sarcastica, ai limiti della propria natura: «tento di penetrare sotto la vostra guida nella giungla indù, dalla quale mi hanno tenuto distante l’amore ellenico per la misura, la spassionatezza ebraica e il timore filisteo, secondo un certo dosaggio». (Freud S.,1960)
Sudhir Kakar rievoca il suo primo approccio, quando era uno studente di ingegneria meccanica, alla lettura di “L’avvenire di un’illusione” di Freud. Un testo che fu fondamentale per la sua personale lotta per la libertà, che alimentò il suo desiderio di distanziarsi dalla immaginazione induista indiana «piena di miti e meraviglie» e che accompagnò il suo avvicinamento ad ideali marxisti e alle idee del mondo occidentale. Oggi, analizzando quel testo freudiano in una fase diversa della vita e «indossando la veste induista» da una prospettiva laica, ne prende le distanze e individua le profonde differenze culturali, teologiche e storiche che lo separano dalla concezione freudiana sulle credenze e sulle idee religiose. Nonostante ciò, egli comunque continua ancora ‹‹ad aver fede nella visione ironica dell’esistenza umana di Freud sebbene oggi sia meno infatuato dal patto che fece con lui quando era giovane››.
Un altro autore che ha lavorato sugli scritti di Freud sulla cultura e sulla religione è Fethi Benslama (2002). Egli, seguendo un itinerario molto diverso da quello di Sudhir Kakar, sottolinea come il pensiero di Freud sul monoteismo abbia escluso una riflessione sull’Islam, la cui fondazione viene da lui attribuita ad una riappropriazione del Padre originario del giudaismo. Benslama pone in risalto, invece, come la questione della genealogia del monoteismo islamico vada collocata nel territorio del femminile e si sofferma sul personaggio biblico di Agar, centrale nella fondazione della nuova religione.[2] Anche il suo discorso ci porta dunque sulla questione dell’alterità femminile: la schiava Agar, mai nominata nel Corano, ha una portata sovversiva nel determinare l’origine del monoteismo, e ciò ha avuto come effetto l’esclusione della donna dalla fondazione della nuova religione.
Sudhir Kakar si chiede come un analista possa approssimarsi a pazienti che provengono da culture diverse dalla propria, evitando di respingere la parte culturale del sé dallo spazio terapeutico. Egli ritiene che un avvicinamento sia possibile se l’analista è in grado di trasmettere un’apertura, riconoscendo i proprio assunti culturali ed il loro fondamento relativo allo spazio e al tempo. Inoltre sarebbe auspicabile che il terapeuta fosse capace di provare curiosità, senza sottrarre nulla alla disciplina analitica. Egli ritiene che l’inconscio dinamico e quello culturale siano inestricabilmente intrecciati; nella sua visione la pratica della psicoanalisi non è dissimile da quella dell’esecuzione della musica classica indiana, nella quale un vocabolario musicale di base può essere condiviso, anche se ogni metodo tradizionale prevede un uso suo proprio delle scale tonali e frasi melodiche differenti.
Lo spirito del discorso di Sudhir Kakar su questi temi mi è sembrato accostabile a quello di Franco Fornari, un analista italiano che concepiva la psicoanalisi come una scienza destinata a conoscere non solo la struttura della personalità degli individui, ma anche a spaziare su ogni attività umana e a dare il suo contributo a livello sociale e politico. La psicoanalisi era da lui concepita come una disciplina al servizio della civiltà, in grado di infondere il coraggio per affrontare le incognite di un intervento impegnato nelle istituzioni sociali e politiche. Fornari, nel volume “La riscoperta dell’anima”, ricorda che per la psicoanalisi ogni conoscenza ha una fondazione affettiva, usa il concetto di «anima», nel significato di una competenza naturale, relativamente in-variante, comune ad ogni uomo e a ogni donna. Il suo sguardo tende a ricostruire la speranza di un sostegno tra natura e cultura, la sua visione della storia è quella di uno spazio in cui ogni uomo nasce con la spinta a vivere che lo trascende e, nel contempo, racchiude il precipitato dell’esperienza della civiltà. Un discorso coraggioso che non possiamo correre il rischio di dimenticare.
Sudhir Kakar, nell’ultima parte del testo, si chiede e ci chiede se la psicoanalisi possa essere una «disciplina spirituale», intendendo con ciò la possibilità di ampliare il linguaggio freudiano delle pulsioni ad una dimensione del «Sacro dove la persona, come sistema di soma, psiche e polis, sia anche il luogo di un principio di unità», che «si manifesta nella propensione umana per l’altruismo, la compassione, la simpatia. Questo principio di unità postulato potrebbe essere un valido alleato in ambito clinico» (p.109).
Penso che gli ampliamenti di prospettiva in cui Sudhir Kakar ci introduce, possano arricchire notevolmente il nostro operare. Nel lavoro analitico abbiamo infatti il privilegio di toccare un «mistero essenziale» dell’umano, non un segreto o un geroglifico da decifrare, ma «un principio di fraterna simpatia e di comune umiltà» (V. Jankelevitch, 1949)
Bibliografia
Boni L (2002). Freud e l’India . Rivista di Psicoanalisi.XLVIII,1
Benslama F.(2002). La psicoanalisi alla prova dell’Islam . Milano, Il Ponte, 2012
Fornari F (1984). La riscoperta dell’anima. Bari, Laterza.
Freud S.(1927). L’avvenire di un’illusione. O.S.F.,11
Freud S. (1930). Il disagio della civiltà. O.S.F.,11
Freud S. (1960) Lettere alla fidanzata e ad altri corrispondenti. 1873-1939. Torino, Bollati Boringhieri (1990)
Godden R.(1946). Il fiume. Roma, Bompiani (2012)
Jankelevitch V. (1949) Debussy e il mistero. Milano, SE.
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“Cultura e Psiche”, Sudhir Kakar, Alpes (2017)
[1] Livio Boni nota come, al di là di un certo tono di sarcasmo e di sufficienza che connotarono i rapporti di Freud con l’India, nella collezione archeologica freudiana del Freud’s Museum di Londra siano presenti numerosi pezzi indiani tra cui alcuni Buddha. Rivista di Psicoanalisi, 2001,1 131-159
[2] Agar era la serva egiziana di Sara, che venne da lei stessa proposta al proprio marito, Abramo, per fargli avere un bambino che ne assicurasse la discendenza. Quando Agar restò incinta di Ismaele ebbe, secondo il racconto biblico, un comportamento insolente. Sara allora cacciò la schiava e suo figlio che vennero di fatto abbandonati nel deserto. Il Dio biblico aveva promesso che essi avrebbero generato una grande nazione e per questo Ismaele è considerato l’antenato nobile delle tribù del nord dell’Arabia e della Transgiordania. Successivamente, ad un’età molto avanzata, Sara rimase incinta e partorì Isacco.