di Hirokazu Koreeda, Giappone, 2013, 121 min.
commento di Rossella Vaccaro
Mentre sui quotidiani leggiamo i recenti ed inquietanti fatti di cronaca sullo scambio degli embrioni avvenuto durante le procedure di fecondazione assistita in un ospedale di Roma, ecco uscire un film su un altro e, forse, ancora più terribile scambio, quello che può avvenire “in culla”.
Nel primo caso l’angosciante domanda che si pone è: chi sono i genitori dei due gemelli? Coloro che li hanno concepiti o la coppia da cui effettivamente nasceranno? L’assenza di una giurisprudenza che mai ha previsto un simile sventurato caso, pone ora quesiti capitali sulla genitorialità. La storia narrata in The Father and Son propone invece un tormentato percorso del vissuto di paternità del protagonista come unica possibile via d’uscita.
Uscendo dal cinema, l’amica con cui ho condiviso la visione del film mi ha chiesto:“Ti è piaciuto?”. Senza pensarci, di’stinto, le ho risposto: “A tratti l’ho sentito contro natura!”. Il giorno dopo, ho cominciato a pensare.
Father and Son, di Hirokazu Koreeda, già Premio della Giuria a Cannes 2013, Miglior Film all’Asia Pacific Festival e menzione speciale della Giuria Ecumenica, è un bel film.
Un film attraverso cui il regista nuovamente si confronta, dopo “Nessuno sa” del 2004, con il tema della genitorialità.
Il microcosmo raccontato da Koreeda ha i toni di una commedia ambientata in Giappone, che narra la vicenda di due famiglie, una ricca e l’altra povera, un padre perdigiorno e uno workaholic, in carriera. Le scene sono girate con dolcezza, ma senza concessione alcuna a spunti melodrammatici. È l’ordinario quotidiano a essere la cornice della narrazione, attraverso l’alternanza di piccole umanissime azioni e reazioni, nel contegno tipicamente orientale. Fanno da contraltare momenti d’immobilità, che inchiodano lo spettatore a “sentire” il contenuto che il regista vuole comunicare, riuscendoci perfettamente.
Ho cercato pensieri e concetti impliciti nella tensione che mi ha tenuto incollata alla poltrona dall’inizio alla fine del film, il significato di quel “contro natura” che mi sembra di aver dovuto tollerare. Il moto di ribellione che ho percepito mi ha ricondotto al tentativo che emerge, nel film, di rompere quel legame che Bowlby (1969/1980), noto e brillante psicoanalista britannico, ha definito di “attaccamento”. Un legame potente e duraturo che si stabilisce tra il bambino e l’adulto che di lui si prende cura (caregiver), indispensabile alla creazione di una struttura psicologica interna all’individuo, necessaria a mantenere una condizione relativamente stabile fra Sé e il proprio ambiente. Con Bowlby la psicologia evolutiva e l’etologia si sono inserite nel pensiero psicoanalitico, spostando l’attenzione dalle vicende intrapsichiche delle esperienze infantili, nucleo fondante del pensiero freudiano, alla realtà delle esperienze interpersonali. Il nuovo paradigma nasce dalle osservazioni psicoanalitiche dei vissuti di separazione e perdita che sospendono traumaticamente quella sicurezza emotiva, ragione fondante della necessità di un legame di attaccamento per i piccoli dell’uomo.
Altrettanto traumatica è per Ryota e sua moglie Midori la notizia che il loro figlio Keita, di cinque anni, non è il loro vero figlio biologico. Una telefonata dall’ospedale in cui il bambino è nato comunica loro che, all’epoca della nascita, è stato commesso uno “scambio in culla”. Il loro vero figlio biologico è Ryusei, il bambino cresciuto da Yudai e la moglie Yukary. Il legame di attaccamento e quello biologico non coincidono, la notizia sconvolge le coppie coinvolte. Due famiglie lontanissime per estrazione sociale e stile di vita dove la genitorialità è differentemente vissuta perché differente è anche la dimensione del tempo, elemento altresì centrale nella concezione del film insieme alla contrapposizione tra il valore del sangue e quello del sentimento. A mio avviso, il focus del film, abilmente diretto, girato e interpretato, s’incentra sul vissuto di paternità di Ryota che, dato l’impatto emotivo enorme della notizia, entra in un penoso e difficile travaglio psicologico. Il desiderio dell’uomo di continuare a vivere nel figlio del suo stesso sesso entra in rotta di collisione con la scoperta che il figlio non appartiene al suo stesso corredo genetico e non gli appare più così immediatamente intuitivo capire dove si situa il nucleo fondamentale della sua paternità: nel legame affettivo o nel patrimonio genetico? Cosa ne sarà del rapporto tra Kaory e il figlio Keita? La Patrilinearità è ora messa fuori gioco: “Quello che conta veramente è il sangue” sentenzia il padre di Kaory incitandolo allo “scambio”. “I figli sono di chi li cresce” afferma invece sua madre (adottiva?).
Ryota è un architetto affermato, che si è “fatto da solo”, in cui l’imperativo categorico della realizzazione professionale gli offre la possibilità di chiamarsi fuori dalle responsabilità famigliari. Autoritario e totalmente privo di empatia, per lui essere padre significa educare con inflessibile rigore alla disciplina, alla competizione e al sacrificio. Costantemente deluso da quelle che sono le caratteristiche di quello che credeva suo figlio, perché non simili alle proprie, alla notizia del tragico scambio si illude che il figlio biologico gli somigli di più.
I ruoli sono chiari e distinti: a papà Kaory la forza e l’ordine, a mamma Midory la tenerezza e la disponibilità al sacrificio. Il suo ruolo materno tanto è messo nell’ombra tanto è colpevolizzato: se la maternità, pensa Kaory, è radicata nella realtà biologica della concezione, della gestione, del parto e dell’allattamento, come ha fatto Midory a non accorgersi del fatale scambio?
Nella cornice di un processo penale in cui i giudici suggeriscono alle due coppie di genitori lo scambio riparatorio dei due bambini, le due famiglie ne avviano le prove e inizia il travaglio di Kaory: dovrà scegliere tra il figlio che ha cresciuto e quello che gli appartiene biologicamente, per natura.
Kaory riuscirà a elaborare il lutto della perdita dell’illusione che il sangue sia garanzia della trasmissione delle virtù di padre in figlio?
Quanto costa rinunciare alle somiglianze somatiche dei propri figli? Sceglierà il sangue o l’affetto?
Il tempo trascorso è per lui un tempo vissuto o un tempo perduto?
La forza espressiva dei bambini (straordinariamente diretti), i migliori interpreti della realtà più autentica, guiderà Kaory fuori dal guado e non senza la dolorosa elaborazione degli inevitabili lutti richiesti dalle circostanze.
Lo sguardo e l’amore del figlio su di sé faranno di Ryota un padre e la consapevolezza di questa scoperta consentirà a Ryota di fare finalmente posto a un più autentico sentimento di paternità e avviare la dolorosa riparazione della perdita della certezza biologica.
Father and Son è un film emotivamente complesso che si contraddistingue per uno scavo profondo del dilemma lacerante al centro del film, senza mai indulgere verso il sentimentalismo, ma puntando dritto al cuore dell’umano spettatore.
Se per molto tempo la teoria della dipendenza del bambino dalla madre è stata l’unica angolazione attraverso la quale la ricerca psicologica ha osservato lo sviluppo infantile il campo di osservazione da tempo si è via via allargato, cosicchè al giorno d’oggi è stabilmente acquisito guardare al padre come a un elemento diverso, ma altrettanto insostituibile della madre, nella formazione dell’identità dell’individuo. A questa più ampia visione hanno contribuito i risultati di differenti discipline scientifiche che, insieme alla psicoanalisi e alla psicologia dello sviluppo, hanno operato una decodifica della figura paterna anche dal punto di vista emozionale, non soltanto per ciò che attiene all’influsso del padre sul figlio, ma per ciò che la condizione di paternità induce sul vissuto interiore dell’uomo. Il tema del film riporta la nostra attenzione sulla figura paterna e sul concetto di paternità, tenendo conto, sullo sfondo, delle variabili socioculturali di una società non occidentale. Un’occasione di riflessione sui vissuti che caratterizzano l’uomo durante la crisi d’identità legata alla sua esperienza di paternità. Infatti il film evidenzia, con una precisione talvolta spietata, quanto il passaggio dal desiderio di un figlio alle relazioni oggettuali con il figlio, dipende soprattutto dalla storia passata dell’individuo, dalla riuscita identificazione con il padre. Essere padri e madri non può prescindere dal nostro essere stati figli. In condizioni normali la “nascita affettiva” di un figlio permette all’uomo di trasformare gradatamente le sue fantasie in una relazione paterna sana e amorevole avviando nel figlio un positivo processo di soggettivazione.
Il film è un efficace osservatorio sulla maturazione del protagonista rispetto al suo essere padre, sulla scoperta di un sentimento di paternità qui inteso come ciò che avviene al padre nel suo rapporto con il figlio e sulla funzione paterna, ciò che avviene al figlio nel suo rapporto con il padre.
Il travaglio attraversato da Kaory, e dagli altri altrettanto straordinari interpreti di questo toccante film, a tratti accompagnato dalle belle note delle Variazioni Goldberg di Bach, sembra anche ricordare, seppure in un tempo e contesto diversi, il delicato processo di affiliazione dei genitori adottivi e i tanti preziosi racconti che narrano la via attraverso cui quel bambino è diventato il loro figlio: non si nasce solo dal ventre di una donna, dal concepimento biologico, ma si nasce anche, e soprattutto, dal cuore di una madre e dal cuore di un padre.
Il titolo originale del film è “Like Father, like Son”, ovvero “Tale padre, tale figlio”, titolo fedelissimo all’idea fondamentale cui s’ispira il film. E’ invece uscito nelle sale cinematografiche come “Father and Son”, “Padre e figlio”.
Ovviamente, non potevano in questo film mancare le note di un popolare brano musicale di Cat Stevens, Father and Son, uscito nel 1970 e ispirato al dialogo di un padre che non comprende il desiderio del proprio figlio di cominciare una nuova vita.
Aprile 2014