Autore: Amedeo Falci
Titolo: Loro 1
Dati sul film: regia di Paolo Sorrentino, Italia, 2018, 104’
Genere: Commedia/Drammatico
Forza Loro (o Forza l’oro?)
Una (troppo) lunga didascalia, proprio in apertura, spiega che “le vicende sono liberamente ispirate”, che “ogni riferimento a persone e fatti è frutto di una libera reinvenzione creativa” e il resto come potete immaginare. Lo fa allo scopo di evitare il rischio di controversie legali per un film dedicato non solo a Lui ma, soprattutto, all’Italia di Lui, o, meglio, all’idea, non nuovissima, che Lui è tutti Noi.
Il film è in due volumi, come “Kill Bill” di Tarantino. Ed è proprio tarantino, nel film, anche se non quel Tarantino, il personaggio da cui parte il racconto: Sergio Morra, fotocopia di quel Giampaolo Tarantini, ai fasti delle cronache in quanto procacciatore di stagiste per Lui. Anche questo volume numero uno è in due parti nettamente distinte. La prima è il trip cocainico, e di più, che dalle coste della Puglia porta ai Palazzi Romani, e ancora oltre, alla Costa Smeralda. Esattamente proprio di fronte alla villa – ed è la seconda parte – dove finalmente appare Lui nello splendore dei suoi ozi olbiensi (… continua).
AGNUS DEI
L’agnellino di Lui, innocente creatura che dai prati si arrischia dentro Villa Certosa, non viene affatto immolato ma, molto più prosaicamente, siderato da un condizionamento polare, o da un letale quiz di Mike. È l’assurdo, paradossale, non sensato incipit del film. È lo stesso tema della morte del turista giapponese al Gianicolo al cospetto della bellezza ‘cartolinistica’ di Roma, nella scena di inizio de “La grande bellezza”: vittime stupidamente innocenti, vittime del niente. È questo niente, che si presenta ricco, elegante, lussuoso, lussurioso, presuntuoso, corrotto, minimalista o panoramico, romano o costasmeraldesco, kitsch o apparentemente colto (i libri Adelphi di Veronica), sin dall’inizio, il vero filo del film. Un grande miraggio di successo e ricchezza che ammicca, come invito e manifesto programmatico, dalla faccia di Lui tatuata, guarda un po’, nei glutei di una tizia, giusto dalle parti di quel luogo innominabile che metonimicamente è Fortuna. Faccione tatuato che diventa, per il piccolo intrallazzista di provincia, la folgorazione epifanica del Nume, l’Icona Attrattrice verso il Grande Balzo tra Loro che contano.
JEP GAMBARDELLA
È tutt’altro che tragico il cinema di Sorrentino. Solo in un’occasione in cui si è accostato al drammatico, e con risultati eccellenti – “Le conseguenze dell’amore” – erano ben chiare le intenzioni di un cinema modernamente politico. Ma quando l’accostamento al drammatico – giusto in “This must be the place” e in “Youth” – suonava pretenzioso e saccente, ci era sembrato di incontrare un Paolo Sorrentino meno convincente e più auto-obbligato a dover dire qualcosa. Semmai la sua scelta stilistica più personale sembra quella inaugurata con “Il divo”, capolavoro assoluto e inimitato del cinema italiano di questo inizio secolo. Una maturazione di autore che gli fa scegliere una narrazione beffarda, sorniona, apparentemente disincantata e indifferente, che sposa fino in fondo le ragioni d’essere e le mostruosità dei suoi personaggi, esasperandole, accettandone gli eccessi, e lasciando che essi – i personaggi – alla fine si nutrano, crescano e periscano dei loro stessi umori. Basti solo come accenno esemplificativo la costruzione del personaggio titolare di “The young pope”, dove la splendida posizione fuori dal tempo (ma forse no, posizione attuale, perché i tempi del ritorno ‘indietro’ si stanno facendo rapidamente ‘avanti’), conservatrice e antimoderna del Papa americano era messa in scena aderendovi totalmente, senza nessun intento ironico o critico. Un registro beffardo e distaccato anche in questo attuale film, dove la valutazione etica (sullo sfondo) è continuamente contrastata dall’induzione di un’inevitabile attrazione identificatoria ed eccitatoria dello spettatore verso un mondo lastricato d’oro dove tutto è possibile. Se dovessi incarnare lo sguardo del regista in uno dei suoi personaggi, ecco, direi, che lo sguardo di Sorrentino coincide con quello blasé e distaccato del Jep Gambardella de “La grande bellezza”, che maschera sotto il disincanto (cinico, ma solo in Gambardella) qualche ancora visibile sussulto di opposizione.
CHE LA FESTA CONTINUI
Ed ecco anche qui quell’inizio vorticoso, ipnotico e trascinante che era nella festa romana del film appena citato. Les affaires de la politique come un’ininterrotta festa italiana che percorre e unisce il Paese intero, dall’Adriatico al Tirreno, movimentata da barche, mare, tatuaggi, scambi sessuali, feste e festini, coca come se nevicasse, denaro dappertutto, escort professioniste, fanciulle spensierate, divertenti e promettenti, dai salti acrobatici sui letti di panciuti e vetusti politicanti, madri mondanissime eppur dedicate alla famiglia che mentre ‘tirano’ preparano la cena ai bambini (ma questa scena è presa da “Goodfellas” di Scorzese), e tutto in un ipersonico climax musicale. E Lui sempre assente, implorato, cercato, evocato senza che si osi dire suo impronunciabile nome. Magari se avessero solo studiato un pò di più di storia delle religioni, Loro, avrebbero potuto imporre tra i credenti il suo cognome avocalico, BRLSCN, da pronunciare solo da quelli del cerchio più intimo e sacro nelle feste più intime e ristrette.
REALE E FINZIONALE.
Nella messa in scena di questa frenetica jouissance collettiva, che chiamerei la Grande Festa Italiana, densa la folla dei partecipanti, ed entusiasmante il gioco dei riconoscimenti per lo spettatore. Se Riccardo Scamarcio è Tarantini, Anna Bonaiuto la perfida Santanchè, e Roberto De Francesco Lele Mora, chi sarà mai il Santino Recchia di Fabrizio Bentivoglio? Ma dal momento che, come le didascalie in apertura ricordano, il film è libera operazione creativa, molti dei personaggi mantengono un loro carattere originale e indecifrabile. Se la Smutniak è la Grande Cortigiana, l’Etèra venuta dall’est, a suo modo suprema domina dei libertinaggi regali, inavvicinabile ed in esclusivo (beh … quasi) uso di Lui, chi e che cosa rappresentano la figura di quello che chiamano Dio (dunque esiste un potere inidentificabile che sarebbe persino superiore a Lui?!), la figura della fedele e onnipresente ombra di Spagnolo, l’uomo vestito in bianco (do you remember Dario Cantarelli? È una presenza costante nei film di Moretti; ne “La messa è finita” era Gianni l’amico brigatista di Don Giulio), la figura della misteriosa Palmira (prima Sua amante, poi in ritiro mistico)? E se papi-Noemi è palesemente rappresentata, a chi appartiene quella figura di donna che veglia su una carrozzina in fondo alle scale buie? Inutile cercare: Sorrentino dissemina i suoi film su personaggi storicamente reali di figure dall’incerta definizione che conferiscono un’aura di mistero e indecifrabilità a trame che sarebbero troppo sovrapponibili al reale. Ricordate? Chi era e che cosa rappresentava, ad esempio, la Fanny Ardant che imprevedibilmente tentava di corteggiare l’incorteggiabile Andreotti ne “Il divo”? Mistero dei misteri.
SAPER USARE LA MACCHINA DA PRESA (M.D.P.)
Anche se non volessimo dare meriti a Sorrentino, e ne detestassimo lo stile, non potremmo, tuttavia, non riconoscergli quell’assoluta padronanza dell’uso della m.d.p, dell’inquadratura e del colore. Questo è il solito e rituale passaggio delle mie recensioni, in cui retoricamente esalto il regista di cui parlo, al solo scopo di attaccare e denigrare, per comparazione, noti registi italiani che vivono del culto di un loro ristretto pubblico di nicchia, che rovinano i loro film con i loro isterici protagonismi, benché ormai spogli di ogni residuo creativo e con una nota inettitudine tecnica all’arte della ripresa; ma stavolta mi asterrò.
COLONNA SONORA
Anche se non volessimo dare meriti a Sorrentino, dunque, non potremmo non riconoscergli l’uso personalissimo della musica, intendo dire quella contemporanea, di largo consumo, non solo come colonna sonora abbinata diegeticamente alla scena, vale a dire in un senso interno alla storia, ma anche come musica extradiegetica e dalla qualità emozionale dissonante rispetto alla scena. Come il famoso uso da parte di Kubrick della 9a. Sinfonia di van Beethoven nelle scene di violenza di “Arancia meccanica”. Nessun regista italiano possiede una tale competenza musicale, e una tale capacità di creare colonne sonore di contrasto. Un particolare plauso ovviamente va alle musiche di Lele Marchitelli.
MOVIMENTO VELOCITÀ STILI
Anche se non volessimo dare meriti a Sorrentino, non potremmo non riconoscergli, infine, quella architettura filmica estremamente movimentata, che Sorrentino aveva già abbondantemente sperimentato ne “Il divo”. Nessuna inquadratura è mai ferma. Anche se non appare, pur nelle scene che sembrano statiche, la m.d.p non è mai immobile. Sia quindi per la tecnica di ripresa, sia per i tagli di montaggio, il film risulta composto di unità veloci e brevi, che conferiscono un ritmo particolarmente sostenuto allo scorrimento narrativo, e ne alimentano il climax. Tale velocità si accoppia con sequenze narrative discontinue le une rispetto alle altre, donando al film un andamento a scene frammentarie e incalzanti che tendono a tenere desta l’attenzione dello spettatore continuamente costretto a riempire da sé gli spazi narrativi incompleti tra le scene. Segnalerei ancora le differenze di stile tre varie parti del film, quasi secondo un certo gusto di sperimentalismo che intende mutuare da altri stili espressivi.
Prendiamo come esempio la scena del rave party in Sardegna. Quasi un episodio filmico indipendente dentro il film. Il modo con cui Sorrentino filma questa sequenza è tutt’altro rispetto alle scene di feste e festini della prima parte del film, e tutt’altro rispetto a ciò che seguirà. È ispirato piuttosto ai film musicali americani quando, improvvisamente, si cambiava registro e gli attori iniziavano di colpo a cantare e a ballare. Qui, nell’inserto del party, cambia il colore, lo stile, il respiro della scena. È un recupero dello stile movimentato dei videoclip musicali, o di quei corti pubblicitari, che so, sulla coca-cola, gli smartphone, i villaggi turistici, dove tutto è incalzante velocità, movimento, danza. Qui, musica ‘a bomba’, diegeticamente appartenente alla scena, corpi maschili e femminili giovanissimi e ‘oggettissimi’ di desiderio immersi in avviluppi danzanti multipli e plurivalenti in slow motion, in stati di coscienza alterati, mentre, in contrasto ironico e spiazzante un medico (?), caricaturalmente in posa dottrinale come in una trasmissione di divulgazione scientifica, fende la festa spiegando pacatamente quali siano gli effetti di cocaina ed ectasy. Un altro modo di leggere la sequenza è che Sorrentino sta intenzionalmente rifacendo il verso ai tantissimi film hollywoodiani di studenti in sballo da vacanza, in costumi e bikini, in spiagge e piscine, severamente impegnati in sex drugs & rock. O rifacendo il verso ai tanti film dell’epopea yippie, dove i giovani strafatti dopo la festa guardano estaticamente e simbolicamente (ma simbolo de che?) al sole che scende sotto l’orizzonte.
EDEN
E se ci fosse bisogno di avvalorare la tesi dei programmatici contrasti stilistici, ecco la seconda parte del film, con gli ozi in Costa Smeralda. Qui la Grande Festa Italiana è in pausa. La di Lui sposa è palesemente malinconica e incazzata. Quello che proprio non sopporta, più che le Sue frequentazioni di giovani dottorande, è che Lui non legga proprio nulla e che il suo maggiore sforzo culturale per le sue televisioni sia stato il programma di Mike. Lui non sa che inventarsi per placarla, corromperla, rabbonirla. Qui, appunto, il film diventa altro. Niente musiche lisergiche, niente coca, niente ritmi vorticosi. Il ritmo narrativo si fa lento, lentissimo, quieto, le riprese sono campo e controcampo, per sottolineare i dialoghi tra i protagonisti, l’andamento narrativo coerente tradizionale e prevedibilissimo, secondo i ritmi della sophisticated comedy di un Lui e di una lei, nel perfetto equilibrio edenico della Costa Smeralda, dove a loro volta si rispecchiano la pausa politica di Lui e la crisi depressiva della coppia.
SOFISTA, E NON SI SAPEVA
Il cambio di registro permette a Sorrentino di dedicare maggiore attenzione alla di Lui filosofia. La Sua lezione peripaterica al nipote, che gli fa notare come lui (Lui) abbia pestato una cacca, meriterebbe qualche seminario su verità e manipolazione. La suddetta verità, non starebbe tanto in qualche primato delle evidenze empiriche, quanto nel valore della convinzione (valore doxastico, direbbero alcuni) che riusciamo a generare nell’ascoltatore. Insomma, Lui sa far girare tanto bene le cose che non solo non ha pestato nessuna cacca, ma che nessuna cacca è mai esistita. Il nipote, di degna stirpe, capisce a volo la lezione e la fa sua. Sorrentino, quindi, riabilita quel Suo spessore di cultura sofistica che la maggior parte di noi, per pregiudizio avverso, gli aveva sempre negato.
Certo in questa parte degli ozi in paradiso, Lui risulta lievemente sentenzioso, rassegnato, sarcastico con Veronica, onnipotentemente vendicativo con i traditori, roso da propositi di rivincita (ci riuscirai certamente). Si avverte forse qualche ombra di sovrapposizione tra la maschera di Lui e la maschera del Divo Andreotti: cinismo senza remissione, pessimismo sull’umanità, lotta politica come potere assoluto, infelicità e solitudine personale. Scivolamento nel ritratto intimo di un Capo? Altro cambio di registro? Forse. Vedremo gli sviluppi nel secondo volume del film.
LA SUPERFICIE È TUTTO
Dopo un appesantito film in cui erano messi insieme David Byrne e l’olocausto (troppo), dopo gli uggiosi luoghi comuni sulla senilità e la giovinezza, Sorrentino torna ai suoi modelli espressivi più personali con un film felice e ben centrato sulle superfici luccicanti del potere, sulla commedia del potere. Ma attenzione: non è esatto dire che si tratti di un film su Berlusconi, come i media amplificano. È un film su un Paese che è (stato) Berlusconi. Tutto è già visibile ed esplicito in superficie, sembra dire Sorrentino. Il punto non è scoprire che cosa vi stia dietro (anche se la figura di un personaggio chiamato Dio che nessuno conosce ed è ben più in alto di Lui, è inquietante, ma su di lui faremo un altro film), bensì seguire gli scambi, le connessioni, le collusioni, gli slittamenti di senso che produce il potere. Lui, dice il film, non fa mistero della bulimia sessuale con le sue dottorande in quanto questa stessa bulimia sessuale, orgogliosamente mostrata ed esibita, è la cifra pubblica della sua bulimia di potere politico. L’equivalenza reciproca bulimia sessuale/bulimia di potere è ben compresa da una fetta amplissima del Paese che usa il commercio sessuale come ascensore sociale per entrare nei circoli del potere che Loro hanno (avuto?). Non occorre andare a inseguire quello che sta dietro. Forse, anche, ma quello sarebbe un altro film (ed è stato un altro film appunto: quello sul Divo e la mafia). Qui, dice Sorrentino, non seguite le metafore, ma seguite le metonimie! Una parte (Lui) sta per il tutto (il Paese, l’Italia), l’effetto (la scena dell’esplosione di immondizia che ammorba la Città) sta per la causa (la corruzione ed il marciume dei Palazzi Romani), una cosa concreta (negare di avere pestato una cacca) sta per una cosa astratta (la verità è sempre manipolabile, se sai manipolare l’audience).
SORRENTINO SATYRICON?
Detto il buono e il meglio, certo resta altro. Si può anche pensare che Sorrentino usi ormai un suo stampino già ben collaudato da “Il divo”, a “La grande bellezza”, a “The young pope”. Così come al centro di questa triade produttiva è chiaramente constatabile come Fellini sia al centro delle fonti ispirative, come già accennato nella recensione a “La grande bellezza” su questo stesso sito nel 2013. È innegabile la lezione de “La dolce vita” nello sguardo di Sorrentino su feste e festini e soprattutto sulla Grande Roma. Quasi tutte le scene di coppie in interni di palazzi, recano l’impronta indelebile di Marcello Mastroianni e Anouk Aimée (ancora “La dolce vita”) che si corteggiano in palazzi metafisicamente vuoti, e le scene mondane in palazzi romani recano la memoria delle sfilate, anch’esse magnificamente metafisiche, di cardinali e prelati in “Roma”. E come non pensare, nelle rappresentazioni della devastante e decadente corruzione dell’Impero Loro, un respiro di “Fellini Satyricon”?
CASTING
Che dire in finale? Che l’apporto di alcuni attori è straordinario. Citerei Scamarcio, assolutamente in parte nella sua aderenza al ruolo di spregiudicato “gaglioffo” aperto a tutti gli intrallazzi e furbate e ruffianerie, eppure anche così vero nello scambio di un bacio incredibilmente d’amore con la sua compagna, in mezzo alla più assoluta promiscuità orgiastica. Perfetta la Ricci nel rendere una scontenta infelice e rassegnata moglie che legge libri colti, e che non sarà mai riconquistata dal suo marito con un viaggio avventuroso in Cambogia. La Smutniak dà spessore e indecifrabilità al suo ruolo. E bravissima la Axen nel ruolo della compagna di Scamarcio. E di Servillo che dire? Le sue capacità sono al di là di ogni commento e parola. Bravo? Mostruoso? Certo non poteva che essere lui a impersonare Lui. Tuttavia, anche Servillo alimenta le sensazioni di uno stampino Sorrentino. Questa rappresentazione caricaturale sa di déjà vu. In qualche momento di disorientamento e derealizzazione ci si può confondere nella sovrapposizione, e non capiamo più se ci si trovi di fronte ad Andreotti, a Gambardella, o a Lui. Qualche rischio di scivolamento del macchiettismo forse esiste, e sarebbe da riflettere se non ci siano oggi dei limiti a ulteriori utilizzazioni di Servillo per altri biopic all’italiana.
TRA CIELO E MARE
In doverosa attesa della seconda parte, concluderei per adesso con quella che mi è parsa la battuta più divertente di tutto il film. La coppia si è persa in mare, perché l’acquascooter si è guastato. In questo momentaneo isolamento tra cielo e mare, Veronica ha un afflato intimo e romantico, e gli chiede: “Ma tu … hai mai paura del vuoto?” E quello, pronto: “Mai…. lo guardo sempre da lontano.”. A prova di vuoto, quindi. Geniale, no? La battuta. E anche Lui.
Maggio 2018