(Campania, 2019)
Il doppio corpo degli adolescenti migranti
VIRGINIA DE MICCO
Il Materiale trattato nel presente articolo proviene da interventi di supervisione gruppale e di sostegno individuale svolti presso un centro di accoglienza per minori non accompagnate, rivolti i primi all’équipe di operatori mentre i secondi alle giovani ospiti del centro.
Introduzione
Il luogo in cui tutte le ambivalenze, i conflitti e, più in generale, le tracce stesse dell’esperienza migratoria si scaricano e si coagulano al massimo grado è rappresentato dal corpo. Corpo che nella migrazione si trova al crocevia tra trasformazioni culturali e ansie identitarie, preso in una rete in cui si intrecciano rinnovate emergenze pulsionali e proiezioni incrociate di fantasie inconsce, all’interno di una condizione di sostanziale perdita di quei garanti metapsichici e metasociali di cui parla Renè Kaes. Tali garanti consentono anche di organizzare psichicamente l’esperienza corporea, riescono cioè a ‘garantire’ quelle trasformazioni simboliche che consentono al corpo di sentirsi ospitato da una terra cui può sentire di appartenere, e, di conseguenza, di poter ospitare a sua volta un Io. Si viene così a costituire quella esperienza soggettiva di continuità biopsicosociale che il corpo umano rappresenta.
Nella migrazione è proprio questa esperienza di continuità che viene interrotta e disarticolata, costringendo spesso a ricostruire interamente l’ esperienza soggettiva della propria corporeità. E’ l’intera area della simbolizzazione primaria (Roussilon) che viene rivisitata e se questa operazione di ri-simbolizzazione fallisce i migranti possono soffrire di profonde disorganizzazioni somatiche, le quali possono tradursi in diversi gradi di disturbi psicosomatici. Il corpo che soffre per un oscuro ma persistente disagio è il modo in cui più frequentemente vengono espressi i conflitti irrisolti legati alla migrazione.
Negli adolescenti migranti, soprattutto nei cosiddetti minori non accompagnati, avviene un complesso riaggiustamento del/al nuovo corpo all’interno di un nuovo mondo, un corpo che nella trasformazione adolescenziale diventa ‘straniero’ quanto, e forse più, del paese straniero quindi.
L’intreccio tra questi due livelli delinea uno scenario complesso in cui i giovani migranti dovranno cercare di trovare una propria strada per un rinnovato percorso di soggettivazione, in assenza di figure parentali di riferimento e, più in generale, di riferimenti identitari incarnati dal proprio gruppo socioculturale.
Cosa sta succedendo al mio corpo?
Al nostro primo incontro J. , un’adolescente proveniente da un paese centroafricano, entra dalla porta un po’ disorientata , pare indugiare sulla soglia e guardarsi per un attimo attorno come per cercare di capire quale è il suo posto, forse intimidita all’inizio sembra poi quasi svogliata e distratta, da quando è arrivata lamenta un persistente disturbo dermatologico, ha un prurito strano e fastidioso su tutto il corpo ma nonostante abbia fatto tutte le visite e i controlli del caso non si è trovata nessuna spiegazione. Spesso lamenta anche fastidi intestinali vaghi ma persistenti , bruciori vaginali , dolori muscolari, una difficoltà ad addormentarsi ma anche a svegliarsi: sembra che tutti i suoi ritmi e le regolazioni corporee di base si siano come alterati, come se non riuscisse più a stare bene nella sua pelle e nel suo corpo.
J. è arrivata presso il centro di accoglienza per minori non accompagnati da circa tre mesi, direttamente dopo lo sbarco sulle coste italiane proveniente dalla Libia, a tratti sembra ancora più piccola dei suoi anni, una bambina sperduta in un mondo sconosciuto, a tratti invece si muove e agisce come una donna fatta, esperta, quasi spavalda e irridente nei confronti degli operatori del centro di accoglienza. Noto subito la distanza tra lo sguardo inizialmente smarrito e un modo di atteggiarsi, il vestito, l’acconciatura, che la fanno sembrare invece non solo più ‘donna’ ma anche , forse involontariamente, quasi una caricatura di immagini da rotocalco occidentale. Indossa costantemente le cuffiette collegate allo smartphone, abitudine che hanno tutte le giovani ospiti del centro di accoglienza e che spesso crea contrasti con le operatrici che si sentono ignorate e non ascoltate.
Queste ultime si lamentano spesso del fatto che soprattutto J. e la sua compagna di stanza S. siano pigre e non hanno voglia di fare nulla, restano spesso tutto il giorno nella loro stanza, a volte rintanate sotto le coperte, si rifiutano di andare al corso di italiano, “ma lì ci sono solo ragazzi africani , che ci andiamo a fare, non impariamo nulla”, dicono.
Sembrano non interessarsi nemmeno alle altre attività che insistentemente le operatrici propongono: corsi di teatro, cucina e tutto un repertorio di attività ‘educative’ pensate per favorire quello che forse troppo semplicisticamente viene indicato come un ‘processo di integrazione’ sul piano socio pedagogico. L’unica richiesta che fanno insistentemente è di vestiti, “ sembrano non averne mai abbastanza, sembra che gli manca sempre qualcosa, d’inverno i giacconi pesanti, d’estate i giubbini leggeri…certo è vero non hanno nulla quando arrivano ma poi sembra che fanno incetta..soprattutto le scarpe sembra che non sono mai abbastanza…ma che se ne fanno di tutte quelle scarpe, dove le mettono poi quando se ne vanno…?”dicono le operatrici. Anche la richiesta di cure mediche è continua, anzi secondo le operatrici questa attività assorbe molto del loro tempo, e la preoccupazione costante che le ospiti manifestano è relativa ai ‘documenti’, ai mille rivoli di tutti quegli ostacoli burocratici che sembrano costantemente manifestare una attitudine respingente ed elusiva da parte del paese ospite, attitudine del tutto opposta a quella sovrabbondanza di ‘offerta’ di attività cosiddette integrative. Evidente segnale di quell’autentico “doppio messaggio” che le modalità dell’ “accoglienza” sembrano letteralmente incarnare: da un lato ti accolgo cercando di ‘assimilarti’, ovverosia di cancellare le marche della tua diversità e saturando preventivamente il tuo spazio, corporeo e psichico, dall’altro ti respingo tenendoti costantemente in uno spazio liminare, di non piena inclusione, vero e proprio spazio di precarietà identitaria che delinea anche uno spazio psichico incerto e instabile. Ed è proprio la perdita di un luogo sicuro dell’appartenenza in cui radicare il proprio psiche-soma ciò che i frequenti disturbi della regolazione corporea sembrano ‘incarnare’ appunto.
D’altro canto, le stesse modalità dell’ “accoglienza” ne manifestano la natura di formazione reattiva, svelando quanto risponda in realtà ad una necessità di controllo e ‘confinamento’ nei confronti di ‘oggetti’ stranieri carichi di perturbante persecutorietà, i migranti appunto.
Si ricorderà come Leon e Rebeca Grinberg, nel loro pionieristico studio sulla “Psicoanalisi dell’emigrazione e dell’esilio”, assimilassero l’esperienza della migrazione ad una vera e propria esperienza di rinascita, in cui si sperimenta di nuovo la condizione di Hilflosigkeit infantile, la dipendenza da un caregiver, l’essere in-fans di fronte ad una lingua sconosciuta di cui si registrano dunque soprattutto i frammenti emotivi e pulsionali. Condizione in cui si fa nuovamente un’esperienza del proprio corpo come carico di bisogni elementari (fame,freddo,),corpo fragile che può essere esposto al dolore e alla violenza, corpo che ha smarrito le sue regolazioni ‘ambientali’ ,ivi comprese quelle simbolicoculturali. Come si ricorderà secondo l’antropologo Marcel Mauss il corpo è per l’uomo uno ’strumento culturale’ per eccellenza, è un precipitato di attitudini culturali incarnate trasmesse attraverso la concretezza emotiva delle relazioni primarie. Da un lato è l’elemento più ‘resistente’ ai cambiamenti culturali e che manifesta indelebilmente le marche delle differenze somatiche, dall’altro è l’elemento che necessariamente dovrà ‘adattarsi’ al nuovo ambiente, all’ambiente non familiare, dovrà respirare, mangiare, toccare ,lasciarsi attraversare dal nuovo mondo ed infatti spesso sono proprio tali superfici di contatto somatico a diventare luoghi di alterazione e di sregolazione, zone esposte al rischio di una rottura simbolica.
Nella drammatica lacerazione dell’esperienza migratoria è come se ci si ritrovasse nella necessità di un rinnovato reinsediamento della psiche nel soma, l’ indwelling di cui parla Winnicott.
La necessità di ricostituire una sorta di guscio psicosensoriale sembra manifestarsi sia nel bisogno di restare rintanate sotto le coperte, sia nella costituzione di un vero e proprio guscio sonoro con le cuffiette perennemente indossate, mentre lo stesso centro di accoglienza, luogo fisico da cui diventa così difficile allontanarsi, funge da vero e proprio guscio psichico cui bisogna aderire per cercare di conservare una integrità psichica, per evitare il rischio di andare incontro ad una frammentazione psichica se si perde il contatto con questo nuovo ‘centro’ della propria esperienza.
Il corpo dunque in queste situazioni si incarica di svolgere funzioni psichiche che la mente non è più in grado di sostenere: sembra soprattutto declinarsi secondo una doppia versione, da un lato un corpo ‘pubblico’, pienamente mimetico rispetto al contesto di accoglienza, ostentatamente ‘presentato’ all’occidentale, che cerca in tal modo di coprire tutti i ‘buchi’ che si sono aperti nel tessuto psichico, tutte le fratture traumatiche che sono state ‘murate’ nel corpo, dall’altro un corpo privato, che paradossalmente può apparire ancora più straniero e sconosciuto, in quanto porta ferite innominabili, memorie traumatiche inattingibili, corpo di cui occorrerà avviare un autentico processo di riappropriazione…
Questo processo diventa ancora più intenso ed evidente in adolescenza, la quale diventa un autentico moltiplicatore dei molteplici piani che abbiamo descritto, dal momento che il senso di disorientamento e di perdita dei riferimenti culturali e simbolici si innesta sulla crisi pubertaria con le sue rinnovate emergenze pulsionali, le angosce legate alle trasformazioni corporee vissute per di più in un ambiente straniero senza figure parentali di riferimento.
Il doppio corpo del migrante
Il luogo dove tutte le dinamiche che abbiamo descritto si coagulano e si scaricano al massimo grado è sicuramente il corpo del migrante. La centralità dell’esperienza corporea e dei suoi cambiamenti percettivi e rappresentativi è cruciale sia in adolescenza che nei transiti migratori, col loro sommarsi e reduplicarsi negli adolescenti migranti.
Come abbiamo già segnalato da un lato il migrante precipita nuovamente in una condizione di bisogno corporeo estremo (fame, freddo, privazioni) e di dipendenza, quasi rivivendo lo stato infantile, dall’altro fa l’esperienza del suo corpo in termini di corpo estraneo nel nuovo contesto, esteticamente differente, capace di suscitare rigetto e curiosità, attraverso lo sguardo dell’altro fa una nuova esperienza di sé.
Sarà necessario dunque ricostituire completamente un’immagine di sé nel nuovo contesto con effetti la cui velocità può risultare addirittura sconcertante, soprattutto nell’esperienza più recente dei centri di accoglienza. Ho affrontato in altri lavori cui rimando le complesse relazioni che si stabiliscono in questi microcosmi interetnici (De Micco, 2019). Qui mi interessa solo evidenziare come una delle manifestazioni delle menti migranti sia costituita da questi corpi in transizione. Tutto ciò si rende specialmente evidente negli adolescenti, e soprattutto nelle adolescenti, migranti, in particolare minori non accompagnate, i cui corpi sembrano già parlare attraverso un codice che come soggetti non decifrano.
Così è sconcertante vedere quanto rapidamente, a poche settimane dallo sbarco sulle coste italiane, si dotano di cellulare e cuffiette perennemente indossate quasi a costituire un guscio psichico e allestiscono un profilo facebook con foto rigorosamente in pose da rotocalco, caricatura involontaria e a tratti grottesca dell’immaginario occidentale, mimesi impressionante nella sua adesività mutilante che cancella le storie e le appartenenze, ma forse proprio per questo così intensamente cercata : proprio per diventare ‘altro’ da sé il più rapidamente possibile, per liberarsi di quello che si è stati. Quando si comincia a ritornare ‘umani’ è terribile ripensare all’inumano in cui eri precipitato: se hai dormito per terra, hai mangiato rifiuti, hai subito violenze senza quasi più sentirle, è quasi insopportabile tornare ad una quotidianità ‘ordinata’ e cominciare a vedere con occhi atterriti quello che eri diventato.
J., assieme alla sua compagna di stanza S., fa dunque disperare le operatrici del centro di accoglienza, che dicono:
non sappiamo proprio come prenderle, sono pigre e non hanno voglia di fare nulla, dicono che sono sempre stanche, la mattina dormono fino a tardi e non vogliono andare al corso di italiano, ma poi ci andiamo caute perché sappiamo quello che hanno subito e quello che le aspetta appena usciranno di qui, quando compiono 18 anni anche a 18 anni e un giorno devono andare fuori di qui e da maggiorenni è ancora più difficile trattenerle, poi appena fuori ci sono le maman o i ‘fidanzati’ che le stanno già aspettando, queste ragazzine soprattutto le nigeriane le fanno venire tutte qui per prostituirsi, magari non glielo dicono chiaramente quando partono ma spesso le famiglie lo sanno e loro sanno che lo devono fare per le famiglie, quando le madri telefonano è terribile… all’inizio ci sembrava una cosa bellissima che potessero sentirsi a questa distanza dopo tutto quello che avevano passato… ma poi dopo le vedevamo molto turbate, poi abbiamo capito… perché le ricordano quello che devono fare.
Finalmente le due ragazze accettano di partecipare ad una manifestazione enogastronomica interetnica cucinando dei piatti tipici: si vestono con minigonna e tacchi alti, le operatrici pur notando l’inadeguatezza dell’abbigliamento non dicono nulla -misto di aggressività e di impotenza- ma quando arrivano sul posto J. sembra guardarsi per la prima volta con gli occhi degli altri , il disagio che le impongono quei tacchi alti che evidentemente aveva immaginato l’avrebbero fatta sentire ‘all’altezza’, diventa talmente insopportabile che li spaccherà preferendo poi tornare a piedi nudi, infliggendosi questo dolore quasi per trovare un posto al violento odio di sé provato in quel momento.
Nel nostro incontro al ritorno da quella giornata, in uno strano italiano, una lingua venuta da altrove e che forse proprio per questo può esprimere la sensazione di non poter essere da nessuna parte, in nessun luogo, J. mi dirà di sentirsi “vomitata dalla terra”.
Non poter essere da nessuna parte, in nessun luogo, in nessun corpo, in nessun tempo, come se non ci fosse un posto per te sulla terra, che ti vomita incessantemente.
Dopo questo episodio critico J. comincerà a raccontare delle violenze subite , quanto più potrà cominciare a sentirsi davvero ‘a casa’ , ad abitare di nuovo il suo spazio e il suo corpo, attraverso quiete attività quotidiane, quelle abitudini fidate che ti fanno sentire di nuovo in un tuo mondo, tanto più riuscirà a raccontare quello che finora era stato indicibile e impensabile: le violenze subite, lo spaesamento, soprattutto l’impossibilità di credere che davvero la sua famiglia voglia questo da lei. Le finestre sul passato però come improvvisamente si erano aperte, così si richiudevano, dovevano restare sospese e ‘dislocate’ nella mente per potere essere mantenute e non espulse. Frammenti di orrore che contemporaneamente hanno fatto irruzione nella mente di chi r-accoglie invece gli affetti devastanti e disorganizzanti che migrano in cerca di un senso, in questo caso si tratta sia della mente dell’analista sia degli operatori del centro di accoglienza, per i quali diventa indispensabile il lavoro di supervisione analitica in gruppo per sostenere l’emergere di tali vissuti traumatici dal forte impatto disorganizzante.
Un’immagine insostenibile viene letteralmente inoculata, ‘messa negli occhi’, di un altro affinché il suo apparato psichico possa per primo guardare in quello che tu hai visto, soffrire quello che è rimasto congelato. Forse solo quando si comincia a vedere la propria ferita nello sguardo ferito dell’altro -un altro che si è lasciato ferire nella sua umanità dal disumano- forse solo allora si potrà cominciare a ospitare in sé la propria storia.
Già Tobie Nathan (1990) sottolineava che il migrante soffre soprattutto di una perdita del ‘doppio culturale’, sorta di ‘doppio psichico’ che assicura sul fatto che strutturazione interna ed esterna coincidano, ovverosia che la propria strutturazione interna si rispecchi e si reduplichi in quella esterna.
Nelle situazioni migratorie più recenti -che comportano spesso uno smarrimento quasi completo delle coordinate culturali originarie accanto a dei massici traumi identitari- emerge quanto questa perdita coinvolga aree psichiche arcaiche, in particolare quelle che strutturano la percezione e la rappresentazione corporea, ovverosia quella “area del doppio”, individuata da Michel de m’Uzan che costituisce un organizzatore profondo dell’esperienza corporea primaria. Dunque si disorganizza sia l’esperienza corporea di base, nei suoi ritmi, nelle sue regolazioni, nei suoi involucri tattico/acustici, da cui derivano i disturbi dell’Io/pelle ( il prurito di J.) e la necessità ad esempio di ricostituire quella continuità di gusci sensoriali arcaici ( stare rintanate sotto le coperte o costruire un tappeto sonoro continuo), sia l’immagine corporea, la rappresentazione simbolica di sé, la quale perde la sua originaria coerenza culturale e cerca di ricostituirsi inseguendo un’immagine mimetica col contesto di immigrazione.
J. sembra non avere più una terra/corpo in cui dimorare e, come moltissimi migranti adolescenti, cerca di darsi un ‘doppio corpo’ da utilizzare all’occasione: corpo pubblico da un lato , mimetico e disciplinato, simulacro identificativo declinato come ‘corpo seduttivo’ all’occidentale, e corpo privato dall’altro, paradossalmente ‘inassimilabile’ e ‘straniero’ quanto più ti parla di ciò che più profondamente sei e di cui non puoi appropriarti, corpo parlante una lingua indecifrabile che ignori e che ti ignora. Solo una sorta di oscillazione tra questi due corpi potrà consentire alla mente migrante di proteggersi dal duplice rischio di frantumarsi o di precipitare.
Pregare insieme…
Progressivamente i disturbi fisici di J. sembrano andare sullo sfondo mentre emergono frammenti di ricordi traumatici , spesso sulla soglia delle nostre sedute, come se non potesse prendervi che un contatto fugace, ma soprattutto comincio a notare un modo diverso di muoversi e di vestirsi. J. sembra occupare lo spazio in modo diverso, a volte quasi trasognato , si muove più lentamente in maniera più armoniosa , sembra che stia trovando poco a poco un suo modo di essere nel suo corpo/mondo.
Durante un incontro le chiedo come si trova con le altre ospiti del centro visto che lei è l’unica di religione islamica, inaspettatamente J. mi risponde che “le cose vanno molto meglio da quando preghiamo insieme, loro sono cattoliche io sono musulmana ma questo non ha importanza, per me è importante che preghiamo insieme, mi hanno detto che c’è una Moschea dove altre donne vanno il venerdì ma a me non va, non voglio andare con persone che non conosco, preghiamo di notte nelle nostre stanze …siamo tutte africane a noi piace pregare forte…” Di notte J. e S. pregano ad alta voce, ognuna le sue preghiere, ma l’ambiente sonoro che costruiscono le loro voci intonate alla preghiera nell’intimità della notte sembra aiutarle a costituirsi intorno un involucro psicosensoriale , sembra avvolgerle in un’atmosfera in cui poter recuperare una memoria sensoriale dell’origine, che aiuta a ricucire le fratture traumatiche e ad attenuare il potere persecutorio che gli stessi legami familiari possono assumere ( le madri che ricordano loro quello che debbono fare, un autentico mandato familiare di estrema ambivalenza).
J. ha recuperato qualcosa di essenziale della sua appartenenza culturale ma declinandolo secondo l’attualità della sua condizione psichica, in fondo rispecchiando quella lettura complementarista sostenuta da G. Devereux che invitava a valutare sempre il valore psichico attuale che le configurazioni culturali assumono.
La dimensione gruppale condivisa che si costituisce tra le ospiti del centro, in cui si intrecciano differenti appartenenze culturali all’interno di una comune condizione di sradicamento e di trasformazione psicofisica e simbolica legata all’adolescenza, si traduce in una vera e propria rinnovata area transizionale in cui poter ‘inventare’ nuovi strumenti, strumenti di confine, per poter riformulare e in un certo senso ‘ricreare’ la propria stessa corporeità, ricostituire un nuovo ‘contenitore’ corporeo per una mente che sta attraversando un doppio transito identitario, migratorio e adolescenziale appunto.
Poter di nuovo ‘abitare’ il proprio corpo significherà allora trovare poco a poco un luogo in cui poter ‘tenere dentro’ anche le ferite psichiche, le inevitabili perdite, connesse alla migrazione, parafrasando Winnicott “trovare uno spazio dove tenere anche le cose perdute”.
Per sottolineare quanto la cultura sia incorporata è il corpo sia un precipitato, impregnato in ogni sua fibra di attitudini culturali una volta un giovane immigrato mi ha detto:
“La mia cultura è come un profumo, al mio paese lo sentivo tutto intorno e mi proteggeva, da quando sono qui non lo sento più…”
Ecco: che la vita ritrovasse il suo profumo, questo basterebbe…
Bibliografia
De Micco V., Fuori luogo Fuori tempo. L’esperienza dei minori migranti non accompagnati tra sguardo antropologico ed ascolto analitico, in “Adolescenza e Psicoanalisi”, Magi ed, Roma, 2/2019
Devereux G., From anxiety to method, Mouton and Company,1967
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Gutton P., Le pubertaire, PUF, 2013
Kaes R.,(2008), La trasmissione delle alleanze inconsce, organizzatori metapsichici e metasociali, in AA.VV., Generi e generazioni. Ordine e disordine nelle identificazioni, Angeli, Millano
Mauss M, Les tecniques du corps, 1936
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Winnicott D.W., Psycho-analytic Explorations, The Winnicott trust, 1989