DAN FLAVIN, 1970
Barriera di contatto e pensieri intermedi tra arte e psicoanalisi attraverso il lavoro di Lorenzo Mattotti
Daniela Scotto di Fasano
Parole chiave: barriera di contatto, pensieri intermedi, Mattotti, Freud, Bion.
Scopo di questo mio contributo è esplorare il concetto di barriera di contatto formulato da Freud in Progetto di una psicologia (1895) per come è stato ripreso e elaborato da Bion (1962) appoggiandomi, nel farlo, alle opere di Lorenzo Mattotti.
In Progetto di una psicologia (1895) Freud, trattando il tema della rimozione, introduce il concetto di barriera di contatto implicitamente come membrana difensiva del sistema conscio da quello inconscio; Bion, riconoscendone in quella sede l’uso in riferimento all’entità fisiologica che oggi conosciamo come sinapsi (1962, p. 45), lo riformulerà affermando “che l’uomo debba ‘sognare’ un’esperienza emotiva mentre gli capita, sia che gli capiti nel sogno sia che gli capiti da sveglio” (ibidem). Essa deve la propria esistenza alla funzione alfa poiché essa fa sì che gli elementi beta (i dati sensoriali grezzi che rendono impossibile pensare e sognare) siano trasformati in elementi alfa, che permettono di pensare e sognare. Siamo dunque lontani dall’esistenza di una parete stagna tra vita conscia e vita inconscia, tra sogno e veglia, sulle orme peraltro di Freud stesso, come è evidente sia nel suo definire l’impressionante continuità presente nella cesura della nascita – su cui rifletterà in Inibizione, sintomo e angoscia (1925) – affermando che quest’ultima non separa in modo netto e definitivo la vita in utero da quella post-partum sia, in generale nella sua opera, nel dare grande valore al concetto di Zwischengedanken (pensieri intermedi). In Apprendere dall’esperienza (1962) Bion propone che “la funzione alfa dell’uomo, sia nel sonno che nella veglia, trasforma le impressioni sensoriali aventi rapporto con un’esperienza emotiva in elementi alfa che […] si condensano formando la barriera di contatto. Questa barriera di contatto è quindi in continuo processo di formazione” (p.45) e è “dotata di funzioni di membrana” (Bion, 1962, p.51). Come specificherà Bion poche righe oltre, essa è caratterizzata da permeabilità, quindi, per tale ragione, da qui in poi vi farò riferimento chiamandola solo membrana di contatto.
“Ho viaggiato su linee di confine./ Tra castelli e foreste di matite/ ho trovato segni che narravano storie/ e segni che erano storie”.
Così Lorenzo Mattotti apre Riti, Ruscelli, Montagne e Castelli (Logos 2021), con parole che mi pare mettano molto bene in scena lo s/confinamento tra inconscio e conscio, che permette (e perciò uso una barra nella parola s/confini) di trovare segni che narrano storie e segni che sono storie. Possiamo immaginare – usando, ancora con Bion, la speculazione immaginativa – che gli elementi grezzi segni si trasformino in storie elementi alfa sulle linee di confine: le membrane di contatto. Impossibile non pensare poi ai pensieri senza un pensatore descritti da Bion (1977-1983).
Nel libro, la prima immagine è quella di un uomo solo raffigurato con una lunga ombra al suo fianco su una terrazza, di fronte a montagne a semicerchio delimitanti forse un lago, o una verde pianura, non è dato sapere. Si tratta però di una immagine di confine: l’ombra proiettata a lato dell’uomo non dice né fa capire se si tratti di alba o tramonto. Nel rigido confine a semicerchio di fronte alla figura umana l’ora è incerta. Addentrandoci tra le immagini che verranno, passeremo dal chiaroscuro di matita a colori densi, da coppie avvinghiate in posizioni ambigue, forse sadomaso, a castelli labirinto, a donne amate da uomini prato, o muschio, a uomini volto contro volto, le dita come ragni sulle guance, negli occhi, e poi un uomo dal quale scorre un fiume di lacrime, ancora coppie morbide, sinuose, danzanti, e poi un uomo, ancora solo, al confine della vita, un bastone a sostenerne il passo su un viale al tramonto.
Riti, Ruscelli, Montagne e Castelli si chiude con l’immagine di un uomo accanto a una donna su una terrazza che sembra la prua di una nave, proiettata verso un bosco lussureggiante. Figure ugualimadiverse, trasformate nel corso di un lavoro creativo, messo in scena da Mattotti, che non può non evocare il sogno e la funzione onirica della mente. Come non pensare a Bion (1957, p. 82), che definisce terapeutica la funzione simbolica poiché esprime “la capacità di unire due oggetti in modo da evidenziarne le somiglianze senza però intaccarne le differenze”, costituendo così la membrana di contatto che crea e mantiene la distinzione conscio/inconscio e permette il buon funzionamento psichico. O, ancora a Bion che degli elementi alfa dice che “possono essere ordinati sequenzialmente ed avere l’aspetto di una narrazione” (p.45).
Così, l’uomo della prima immagine, nel suo viaggio trasformativo, giunge a dare vita all’uomo della scena finale.
Tale viaggio trasformativo, inoltre, immagine dopo immagine, evoca anche, a mio parere, il viaggio periglioso (e non sempre, purtroppo, felice), di ogni analisi tra incubi, ideali, idealizz-azioni, tradimenti, scoramenti, solitudini, incontri felici anche di un solo minuto ma già forza interiore nel ricordo. La ricerca ostinata di qualcosa che dia senso, come nell’immagine dell’uomo tratteggiato in copertina che, con lo zaino sulle spalle, cammina verso un orizzonte anch’esso di confine: un po’ rotondo, un po’ verticale, un po’ orizzontale, forse a rappresentare il complesso percorso mentale che dalla sensazione grezza conduce al pensiero della veglia. L’immagine dell’inizio, in cui la solitudine è totale al cospetto di un’inquietante ‘selva oscura’, può, nel corso del viaggio esplorativo del sé, trasformarsi, divenire membrana di contatto, il confine netto del parapetto della prima terrazza diventare la metaforica prua di una nave: l’uomo che chiude il libro è parte di una coppia, invece di una ‘selva oscura’ guarda un bosco lussureggiante.
Come sappiamo, prototipo della paura è sempre stato l’incipit dantesco dell’Inferno, con la sua selva oscura, con il suo essere cosa dura, esta selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinnova la paura.
Guardando l’Inferno (Nuages 2021) è un altro libro di Mattotti, sintesi, come recita il sottotitolo, dei Disegni preparatori della Prima Cantica della Divina Commedia di Dante Alighieri, ora pubblici. Il testo introduttivo di Jonny Costantino è perfettamente sintonizzato con il tratto caratteristico dei lavori di Mattotti, un tratto che animalifica e non smette di essere ‘carne’. In tal senso, il lettore da questo vertice, in termini psicoanalitici, è nel pieno del conflitto tra pulsione di vita e pulsione di morte, o, in termini kleiniani, tra posizione schizoparanoide – in cui dominano avidità, egoismo e cura assoluta del proprio benessere – e posizione depressiva, impregnata del ‘care for’ l’altro e i suoi bisogni. Con Mattotti, nella sua illustrazione della Prima Cantica della Divina Commedia, lo scontro è con la ‘bestialità’ del vivere, che ci fa mostri mentre aspiriamo continuamente a elevarci oltre – con le parole del titolo di un bel libro di Lorena Preta (2015) – la brutalità delle cose.
Guardando l’Inferno mi ha fatto tornare indietro di molti anni, a quando, nel corso della mia formazione, Antonino Ferro mi invitò a leggere, per contattare e capire la caratteristica sadica della posizione schizoparanoide, l’agghiacciante racconto di Ray Bradbury The Veldt (1950), al quale rimando come esemplare compagno di strada di Guardando l’Inferno.
Con la differenza, però, che mentre il Veldt può essere inteso come l’inevitabile esito cui siamo esposti in assenza della casa psicologica (Brenman 1985) rappresentata da una mente genitoriale attenta, Guardando l’Inferno raccoglie e fa suo lo sguardo pietoso di Dante nell’incontro con le pene dei dannati. Come in un’analisi, Mattotti non minimizza nelle immagini l’orrore delle scene descritte da Dante, che, condotto da Virgilio, avvicina, per entrare con loro in comunicazione, i dannati eterni, o, in termini psicoanalitici, con i mostri del mondo infero quando è loro negata o è impossibile la speranza.
D’altronde, come scrivevo nell’intervista fattagli nel 2017 per Spiweb, Mattotti non ha perso, invecchiando, la capacità di restare in contatto con il piacere delle scoperte, si tuffa “nella Commedia per ciò che prima di tutto essa è: un libro di avventure” (Costantino, 2021, p.6).
Inoltre, va sottolineato che in Guardando l’Inferno l’accento è sulle metamorfosi, le cui polarità sono l’abisso e la luce. Vi viene infatti esplorato lo s/confinamento tra uomo e bestia – come fa Bernardo Zannoni in I miei stupidi intenti (Sellerio 2021), che spero di vedere un giorno ‘letto in immagini’ da Mattotti –, s/confinamento, anche, tra uomobestia e oggetti naturali – alberi, rampicanti, cespugli – che, come nelle storie di Tolkien o ne La lucina di Antonio Moresco (Mondadori 2013), appaiono nella rappresentazione di Mattotti dotati di aculei, braccia tentacolari, unghie e zanne. In Mattotti, il pensiero si pone a un livello parallelo al sogno, esso stesso membrana di contatto, elemento di passaggio fra elementi grezzi e forme complesse o elementi alfa, di mentalizz-azione (Scotto di Fasano 2003). I tratti pittorici di Mattotti funzionano passando – e facendoci passare – da forme primordiali a linguaggio, e sappiamo che “Mito e linguaggio derivano per Cassirer dalla comune radice del pensiero metaforico. I miti sarebbero delle forme primarie e naturali di espressione” (Fossi 1990).
Collegandoci a Bion, possiamo allora dire che “La teoria della coscienza può essere quindi modificata come segue: conscio e inconscio, prodotti con continuità nei modi suddescritti, funzionano come se fossero “bioculari”, atti cioè alla correlazione e all’autosservazione” (1962, p.100).
Mattotti insegue fin dall’inizio della sua espressione artistica – con un’attitudine psicoanalitica della mente della quale non so se e quanto sia cosciente – il bisogno di conservare intatta la dimensione emotiva e affettiva connotante, al momento del loro verificarsi, esperienze anche fisiche divenute poi inconsce. Forse proprio a tale dimensione – in cui è il corpo ad essere affetto (Racalbuto 1997) – ci si deve riferire “per dar conto di quei ricordi in cerca di un pensatore” (Francesconi M., Scotto di Fasano D. 1997) che irrompono (o fanno ingorgo) con tutto il peso corporeo dell’insensatezza.
La genialità di Freud fu quella di scoprire che le isteriche soffrivano di ricordi e che non restava loro altra strada, per parlarne, che quella del ricorso al linguaggio d’organo, con ciò sganciando l’esistenza dalla coartazione del destino e restituendo senso allo scarto, al residuo, all’apparentemente insensato. Fondando, in tal modo, una scienza riflessiva: “In questo forse è essenziale la funzione di una scienza ‘riflessiva’ che possa liberarci dalla predeterminazione contenuta nell’idea di un destino già segnato e immutabile, e ci aiuti a trovare sempre nuovi modi per rinnovare l’interrogazione, ma con la consapevolezza e l’accettazione che il nutrimento del pensiero deriva proprio da quella parte dell’esperienza che rimane meno esprimibile…Un polipo sognava alla luna…” (Preta 1993).
“Lorena Preta si riferisce a un disegno con cui Giuliano Briganti, lo storico dell’arte, dava senso – ‘mediante una trasformazione poetica e cognitiva’ – a un’avventura estiva occorsa in Turchia: un polipo, all’imbrunire, sulla spiaggia di scogli, s’avvinghia per un attimo alla gamba di Lorena Preta. I disegni schizzati sul foglio e le parole che li accompagnano narrano: «il polipo innamorato viene staccato dalla gamba di Margaretha, ma nell’urgenza dell’azione è tagliata insieme al tentacolo anche la gamba…Giorni tremendi…. un medico turco compie il miracolo, ma commette un errore: al posto della gamba attacca il tentacolo…e così la bella, tutte le notti sulla sua barca, sogna nostalgicamente il polipo, che ormai in parte le appartiene. E la paura, l’eccitazione […] trovano una forma, una via di rappresentazione. E le emozioni sono restituite trasformate. E l’invenzione narra anche della realtà» (Preta 1993)” (Scotto di Fasano 2003).
Lorena Preta racconta, come Mattotti con Vanni Fucci nel Canto Ventiquattresimo, di corpi mutanti, e di Mattotti sono tratto distintivo figure che si contorcono, come in Carnaval. Colori e movimenti (Nuages 2007), dedicato al Carnevale di Rio, dove la disperazione si fonde con/fonde con l’allegria maniacale che fa da controcanto alla malinconia. In uno dei capitoli di questo libro, Zezé Motta, attrice e scrittrice impegnata a favore della cultura nera, a proposito del Barracão (l’atelier di lavoro delle scuole di samba), scrive: “Il Barracão non è solo un atelier, è un vero e proprio viaggio. E’ la fabbrica che trasforma in realtà i sogni annunciati dalle parole dei samba-enredo […] E’ un sogno costruito con fatica, sudore e lacrime. Un sogno per un gruppo di esclusi, la cui vita quotidiana è quasi priva di sogni. A loro resta solo il sogno di essere re per un giorno. Per questo il Barracão è tanto importante. Il Barracão è il luogo dell’incontro amoroso tra la realtà e la fantasia.” (p.88). Ed ecco che, mediante il Barracão, luogo dell’incontro amoroso tra la realtà e la fantasia, torniamo a contatto con la membrana di contatto. Il dolore, la fatica, nel loro incontro creativo, danno forma e vita a qualcosa che dia senso alla quotidianità e faccia di elementi grezzi elementi alfa. In tal modo, se resta funzionante una delle dogane psichiche di freudiana memoria – la cesura –, e la bioniana membrana di contatto, c’è posto per l’inconscio e per la coscienza, ben divisi ma capaci di collaborare, coniugarsi e generare forme condivisibili.
In Stanze (Logos 2016), in una storia avvinghiante di passione claustrofilica, una coppia vive esperienze di speranza e distruttività inestricabilmente connesse e capaci però, alla fine, di dar ragione al senso, e sappiamo, con Castoriadis, che la psiche più che di latte ha bisogno di senso.
In Nell’acqua (Logos 2016), un inno alla saudade, una coppia si avvinghia e si offende in affascinanti, oniriche, liquide “riflessioni su una storia incompiuta” (Mattotti 2016, p.78); due corpi abbracciati volano sospesi e avvinghiati nell’acqua blu del blu dei cieli di Chagall, ma se in Chagall gli amanti volano, in Mattotti fluttuano, precipitando nei gorghi di incubi dai quali riemergere per provare a ripartire. Come scrive Mattotti stesso (2016, p.76), sembrano gli amanti tratteggiati in un antico affresco romano trovato in una villa di Pompei. Un sogno? Un ricordo? Tracce di un incubo?
Si tratta, a mio parere, di ricerche – qui nell’acqua, in Hänsel & Gretel (Gallimard Jeunesse 2009) tra le foreste – che conducono Mattotti, come ha scritto lui stesso in Lorenzo Mattotti. Immagini tra arte, letteratura e musica (Felici editore 2018), “fino a Oltremai, ultima tappa della mia esplorazione del nero, della paura e del sogno” (2018, p.80).
Lorenzo Mattotti ha esplorato molti territori del terrore, si pensi a Doctor Nefasto(Coconino Press 1983), a Labirinti (Hazard 1997), a Jekyll & Hyde (Einaudi 2002), a The Raven (Éditions du Seuil 2009) a Blind (Logos 2017), libro in cui si immerge nel territorio della cecità.
In particolare, in Peur(s) du noir (un film di animazione collettivo del 2007 diretto da Blutch, Charles Burns, Marie Caillou, Pierre di Sciullo, Lorenzo Mattotti e Richard McGuire), nell’episodio da lui diretto, Il Santo Coccodrillo, Mattotti evoca e mette in scena uno dei suoi terrori infantili, suscitati dalla figura di un coccodrillo impagliato che pende dal soffitto della Chiesa delle Grazie, nei pressi di Mantova, che lo terrorizzava quando era bambino. Ne consiglio, se si riesce a trovarlo in rete, la visione, straordinaria per la sua intensa rappresentazione, direi corporea, del terrore: davvero fear of breakdown (Winnicott 1974). L’incontro per lo spettatore è con il terrore senza nome (Bion 1957), e, nel terrore senza nome non si può, secondo Bion, ricorrere alla formazione dei simboli, che “dipende dalla capacità di unire due oggetti in modo da evidenziare la somiglianza senza intaccare le differenze” (Bion 1957).
Approfondendo tale riflessione, possiamo dire però che la funzione fondamentale della mente sia quella metaforica (da metaforà, trasloco), che “permette di considerare le doppie prospettive in funzione della loro utilità e non della loro contraddizione, la possibilità di avere molteplici punti di vista un vantaggio e non una confusione, l’immaginazione speculativa una possibilità di esperienza della realtà.” (Francesconi 2014).
Questa, a mio parere, la straordinaria abilità di Mattotti: quella di immergerci nell’immaginazione speculativa facendoci sperimentare la ricchezza di molteplici punti di vista simultaneamente, perfino della gioia o della stupita meraviglia in aree impregnate di terrore, come in Jekyll & Hyde, in Hänsel & Gretel, in Il Corvo (The Raven), in Appunti e variazioni per un immaginario dell’Orlando Furioso (Felici editore 2008-2014); rimando per approfondimenti del tema della paura a Francesconi 2005.
Perché rivolgere in questo mio scritto l’attenzione all’area del terrore, in particolare del terrore infantile? Perché credo che, per trattare adeguatamente il tema sul quale mi concentro – ricorrendo alle opere di Lorenzo Mattotti, che sa evocare la complessa geografia delle emozioni umane – non si possa prescindere dal riferimento a due concetti psicoanalitici che ritengo limitrofi al concetto di membrana di contatto.
Mi riferisco alla riflessione di Winnicott sull’area e l’oggetto transizionali, da un lato, e al fatto che, come poco sopra già ricordato, nel terrore senza nome non si può, secondo Bion, ricorrere alla formazione dei simboli, che “dipende dalla capacità di unire due oggetti in modo da evidenziare la somiglianza senza intaccare le differenze” (Bion 1957).
Mi chiedo allora se la via per giungere a tale capacità non sia rappresentata dall’area transizionale, nella quale è l’immagine a giocare il ruolo di oggetto transizionale: basti a questo proposito rammentare la tecnica winnicottiana dello scarabocchio. Occorrerebbe cioè, una sorta di bagnasciuga – non solo terra, non solo mare – che funzioni come membrana di contatto che renda l’inimmaginabile pensabile. E’ quanto lo psicoanalista infantile vede accadere mediante il ricorso dei piccoli pazienti al gioco e al disegno, o quanto accade nelle analisi degli adulti quando l’analista sa offrire all’analizzato, con una interpretazione o, meglio, con una battuta con valenza di interpretazione, una nuova, inedita, possibilità di non essere solo terra o solo mare.
Un esempio estremamente divertente è quello della battuta con cui Antonino Ferro, al paziente che, incontrata la persona della seduta precedente per le scale, appena steso sul lettino, in tono risentito, chiede “Il signore che salendo ho incontrato sulle scale era qui, vero?”, risponde: “No, era Qua”.
Ecco, tale risposta propone al paziente una visione inedita, egli può sorridere pur sentendo comprese e accolte la propria irritazione, la gelosia: c’è posto per Qui, c’è posto per Qua. La somiglianza non intacca la differenza. Egli può restare geloso, e sentire che può dirlo, ma imparare a sorridere di sé, con l’analista. Una certezza assoluta può essere messa in crisi e, nell’area transizionale dell’ironia, può essere guardata da una nuova prospettiva, il proprio atteggiamento nei confronti della vita essere riformulato da un vertice inedito, imprevisto.
Lo stesso discorso si può fare con Mattotti anche a proposito del suo rapporto con la Psicoanalisi. Nel libro Sconfini (Logos 2016), in particolare nel capitolo intitolato Psiche (pp. 64-72, riedizione dell’illustrazione di alcuni saggi di Freud commissionatagli da Einaudi nel 2010), è testimoniato quanto Mattotti condivida con il padre della Psicoanalisi la capacità di formulare ipotesi rimesse poi continuamente in discussione, in un processo continuo di costruzione e distruzione.
Vi troviamo, forse non a caso, la radice di molte delle immagini dell’ultimissima produzione del pittore, segnata inevitabilmente dall’esperienza drammatica della pandemia: corpi trattenuti da lacci, torrenti compatti di lacrime, mostri prodotti da un sogno.
E’ frequente, nei lavori di Mattotti, lo spaesamento causato dall’esperienza del perturbante, sentimento che Freud provò (e di cui scriverà nel 1919) nell’episodio in cui, durante un viaggio in treno, fu preso alla sprovvista e spaventato dalla propria immagine riflessa nello specchio della porta, immagine che pensò fosse quella di un intruso introdottosi nel suo scompartimento. Non a caso tale episodio portò Freud a riflettere sul fatto che la parola Heimlich (familiare, domestico) è inscritta nella parola Unheimlich (non familiare, perturbante).
Con Mattotti, siamo molto spesso esposti all’inquietante emergere del non familiare dal familiare, allo s/confinamento del noto nell’ignoto, allo scoprirci continuamente in esilio da noi stessi, al fatto che l’Io non è padrone in casa propria (Freud 1917). Come vediamo, con lui siamo continuamente, per dirla con le parole di Beckett, “Ora faro, ora mare”, un po’ polipo, un po’ Margaretha.
Non posso dar conto della sterminata produzione grafica, pittorica, filmica (in particolare la rielaborazione dei personaggi de La famosa invasione degli orsi in Sicilia, tratto dal racconto di Buzzati, nel film omonimo, costatogli 5 anni di lavoro) di Mattotti, della sua esplorazione inesausta di fiabe (tra le altre, Pinocchio, Bompiani 2019; Aladino e la lampada magica, con testo di Nadia Terranova, orecchio acerbo’) editore 2020), di storie (Romeo e Giulietta, Logos 2021), di viaggi: una piccola gemma è Angkor (Nuages 2003), dove protagonista magnetico è il viaggio in Cambogia, un luogo – come scrive lui stesso – sognato a lungo, a confermare, ancora con parole dell’autore, che “Il mistero di Angkor è quello che ci si porta dentro.”. Moltissimi anche i libri a fumetti: Stigmate (Einaudi, 1998, con testi di Claudio Piersanti), Chimera(Coconino Press 2012), e, soprattutto, Ghirlanda (Logos 2017), dove, concretamente, con tratti sottili eppure morbidi, il sogno entra nel sogno (come accade a Freud ne Il sogno di Irma, 1899), la ricerca dell’amore che è al centro della storia tutta in bianco e nero narrata con Kramsky (autore dei testi), scorre armonica, come un film, da un certo punto di vista.
E’ la storia dell’universale bisogno di esistere per qualcuno.
Prima di concludere, un accenno va fatto all’interesse s/confinante di Mattotti per la cifra dolorosa, malinconica, affranta di cui è comunque fatta ogni vita, anche la più apparentemente appagata e solare. Il signor Spartaco (Logos 2020) ne è un esempio, libro che “nasce da Il signor Piuma di Michaux e racconta il coraggio di essere fragile, delicato, vulnerabile”, come ebbe a dichiarare lui stesso in un’intervista rilasciata a La Repubblica (Robinson, 26/11/2017).
Di questo interesse per l’Oltremai – letteralmente per l’oltre il giusto, oltre il lecito – dicono i suoi primissimi lavori, pubblicati negli anni ’70 e ’80 su riviste di controcultura: Eureka, King Kong, Valvoline.
Delle stesso interesse per l’oltre il giusto, oltre il lecito narra lo struggente Periferica. Storie ai margini (Rizzoli 2021). Anche noi psicoanalisti ci occupiamo di storie ai margini: del saper/poter vivere, innanzitutto, e pure in questo senso le storie di Mattotti ci riguardano professionalmente oltre che in quanto esseri umani. Nell’Introduzione, Mattotti scrive: “Com’è difficile parlare di queste mie prime storie. […] Volevo creare storie ambientate nella periferia, che parlassero della vita marginale e della durezza della realtà.”
Sono storie realizzate tra il 1974 e il 1980, che mostrano ciò che va oltre le apparenze, perché La realtà è strabica, come titola uno dei suoi primissimi lavori (con testi di Fabrizio Ostani) contenuti in Periferica, dove Mattotti cercava “di disegnare storie di gente come me: ragazzi senza un futuro davanti” (2021, p.26). Mi torna alla mente, nello scrivere, il testo della canzone di Fabrizio De Andrè Sconfinata preghiera. Mattotti infatti, in ogni suo lavoro, “viaggia in direzione/ ostinata e contraria/ col suo marchio speciale di / speciale disperazione/ e tra il vomito dei respinti/ muove gli ultimi passi/ per consegnare alla morte/ una goccia di splendore/ di umanità, di verità”. Esemplare in tal senso uno dei suoi personaggi che mi è più caro, il Lavavetri, grigia figura marginale protagonista delle tavole, con testi di Claudio Piersanti, pubblicate nel supplemento de Il Corriere della Sera La Lettura nel 2012.
Concludo con le parole di Mattotti nella Postfazione di Oltremai, che mi permettono di evocare il mito e l’approccio di Bion allo studio del mito, nuovo rispetto a quello freudiano e in stretta connessione con il concetto di membrana di contatto qui utilizzato come filo conduttore per leggere i lavori di Lorenzo Mattotti. Scrive Mattotti: “Molti erano i titoli che avevo pensato per questo libro, ma quando la mia amica Cecilia Resio, con la stessa naturalezza con cui beveva una tazzina di caffè al tavolino di un bar, ha pronunciato “oltremai”, mi è sembrata subito la parola che riassumesse perfettamente il luogo mentale dove possono vivere queste immagini: oltremai il reale… oltremai il mondo… oltremai noi stessi.” (p. 211).
La scelta del termine Oltremai evoca “il processo che Bion definisce di amplificazione di campo del mito (Corrao 1992, p. 27), al fine di restituirgli tutta la sua complessità e il suo potere” (Romeo 2005, p.4). In altri termini, e in conclusione, Mattotti non solo animalifica, ma, anche, mitizza: “Il raccontare miti permette di trasmettere, nel senso di riconfermare laddove sia presente, di riparare laddove sia danneggiata, di attivare laddove sia mancante, la funzione psichica di ponte, di connessione” (Romano 2002, p.42) di elementi della nostra cultura con il nostro tempo, rendendoli non solo noti ma, anche, fruibili non soltanto da chi sa far uso della parola, ma, anche, dalle generazioni cresciute nell’area dell’immagine e che quindi in quest’area sono più a loro agio. Mattotti potremmo dire, sdogana la cultura cosiddetta ‘alta’ rendendola fruibile ai molti. Un po’ lo sforzo di Prometeo, che portò agli uomini il fuoco della conoscenza, la passione della conoscenza (Preta 1993). Perché, come scrive Stefan Zweig (1912), “ciò che davvero ci spinge a leggere […] E’ sempre e solo l’impulso di uscire dai confini del nostro mondo, di perderci e al contempo di ritrovarci in una dimensione a noi estranea riconoscendoci in una allegoria” (p.36). Le sue storie, che spero di avervi saputo almeno un poco illustrare, “hanno il potere di suscitare una sconfinata curiosità” (Zweig 1912, p.44), “sono sogni sfuggiti alla notte, oppure desideri irrealizzabili coltivati di giorno. E come ci insegna Freud, il mago sapiente dalla barba grigia capace di decifrare il nostro mondo interiore, sogni e desideri sono la stessa cosa” (Zweig 1912, p.42). In definitiva, rievocando il fatto “che l’uomo debba ‘sognare’ un’esperienza emotiva mentre gli capita, sia che gli capiti nel sogno sia che gli capiti da sveglio” (Bion 1962, p. 45), concludo ricorrendo a un verso visionario di Novalis (1800): con Mattotti, “Il mondo si fa sogno, il sogno si fa mondo”.
Bibliografia
Bion W.R.,1957, La differenziazione tra personalità psicotica e non psicotica, in Bott Spillius E., (a cura di),1988, Melanie Klein e il suo impatto nella psicoanalisi oggi. Vol.I. Astrolabio, Roma, 1995
Bion W.R., 1962, Apprendere dall’esperienza, Armando, Roma, 1972
Bion W.R., 1975; Memoria del futuro, 1 Il sogno, Cortina, Milano, 1993
Bion W.R., 1977-1983; Seminario 15.07.1977, Roma, In: Seminari Italiani, Borla, Roma, 1985
Brenman E., 1985, Crudeltà e ristrettezza mentale, in Bott Spillius E., a cura di, 1988, Melanie Klein e il suo impatto sulla psicoanalisi oggi, Astrolabio, Roma, 1995
Bradbury R., 1950, Il Veldt, in Le meraviglie del possibile, Einaudi, 1973.
Corrao F., 1992, Modelli psicoanalitici. Mito, passione, memoria, Laterza, Bari.
Fossi G., 1990, Miti, Religione e Psicoanalisi, Angeli, Milano
Francesconi M., 2005, Il gelo nel midollo dell’albero. Iperdotazione di distruttività e movimenti planetari della paura, Hope, n° 6, dicembre 2005.
Francesconi M., 2014, “La mente, mente? Bugia e verità in cerca di un pensatore, relazione letta il 21 marzo 2014, ODM, Convegno di Neuroetica, Viterbo.
Francesconi M., Scotto di Fasano D., 1997, Ricordi in cerca di un pensatore, Convegno Internazionale per il Centenario della nascita di W.R.Bion, Torino, http://www.sicap.it/merciai/bion/papers/scott.htm
Freud S., 1892-1899, Progetto di una psicologia, OSF, 2, Bollati Boringhieri, Torino, 1989
Freud S., 1899, L’interpretazione dei sogni, OSF, 3, Bollati Boringhieri, Torino, 1989.
Freud S., 1917, Una difficoltà della Psicoanalisi, OSF, 8, Bollati Boringhieri, Torino, 1989
Freud S., 1919, Il perturbante, OSF, 9, Bollati Boringhieri, Torino, 1989.
Freud S., 1925, Inibizione, sintomo, angoscia, OSF, 10, Bollati Boringhieri, Torino, 1989.
Romeo P., 2005, Il mito nell’evoluzione del pensiero psicoanalitico e la sua utilizzazione nel trattamento analitico di gruppo. Proposta di una lettura bioniana del mito di Prometeo, in Koinos Gruppo e Funzione Analitica, luglio-dicembre 2005, N.2, anno XXVI
Novalis, 1800, Prologo di Astralis, in Enrico di Ofterdingen, Adelphi, Milano, 1997.
Preta L., 1993, a cura di, La passione del conoscere, Laterza, Roma-Bari, 1993.
Preta L., 2015, La brutalità delle cose, Mimesis, Milano.
Racalbuto A., 1997, Pensare, L’originario della sensorialità e dell’affetto nella costruzione del pensiero, http://www.sicap.it/merciai/bion/papers/racal.htm
Romano R. 2002, L’interpretazione dei miti, in Romano R., 2002, a cura di, Il racconto della mente. Il mito nella relazione psicoanalitica, Dedalo, Bari.
Scotto di Fasano D., 2003, Dall’incomprensibile fatto carne alla mentalizz-azione, Psiche, 2, 2003.
Winnicott D.W., The fear of breakdown, Intern. Rev. of Psychoanal., 1, 1974
Zweig S., 1912, Ritorno alla fiaba, in Stefan Zweig. Il libro come accesso al mondo e altri saggi, Archinto, Milano, 2021.